“Dire i traumi dell’Italia del Novecento. Dall’esperienza alla creazione letteraria e artistica”
A cura di Maria Pia De Paulis, Viviana Agostini-Ouafi, Sarah Amrani, Brigitte Le Gouez
(Franco Cesati Editore, 2020)
Recensione a cura di Maria Pappa
“Dire i traumi dell’Italia del Novecento. Dall’esperienza alla creazione letteraria e artistica” è un libro di vasta portata culturale, all’insegna di una raffinata interdisciplinarietà, sulla problematica dei traumi, individuali e collettivi, che hanno segnato la storia italiana del Novecento, la Grande Guerra, il Fascismo, la Seconda guerra mondiale, i campi di concentramento e di sterminio. Esso si propone di analizzare l’importanza di tali traumi nella letteratura italiana contemporanea, attraverso la lettura approfondita di vari generi di scrittura e di creazione artistica, che costituiscono dei riferimenti fondamentali. Come ha affermato Bohleber (2007), “Con le catastrofi e le esperienze estreme vissute e sofferte dagli uomini del XX secolo, il trauma si è trasformato in cifra interpretativa: non solo la psicoanalisi, ma anche le scienze umane hanno sperimentato la necessità di recuperare la ricerca e la comprensione un quest’ambito”. Il libro, che è stato curato da un collettivo di studiose italiane e francesi, è il risultato delle ricerche sui traumi condotte dal 2016 al 2018 nell’ambito del seminario di ricerca dell’asse “Écritures du temps présent” del Centre Interdisciplinaire de Recherche sur la Culture des Échanges (CIRCE) dell’Università Sorbonne Nouvelle-Paris 3. Vengono qui pubblicati gli studi presentati al primo convegno internazionale Dire les traumatismes du XXᵉ siécle. De l’expérience à la création littéraire et artistique italienne organizzato il 14 e il 15 giugno 2018. Seguirà in futuro un secondo volume, relativo ai traumi storici più recenti, frutto di un secondo convegno internazionale – Qu’en est-il des traumatismes au XXᵉ siécle? La littérature et l’art italiens face à l’extrême – organizzato il 13 e il 14 giugno 2019 nella stessa università. Si tratta di un lavoro comune, teso ad esplorare i modi attraverso i quali il trauma individuale prende senso, alla luce di un più largo trauma collettivo dal forte impatto storico. I riferimenti teorici di quest’opera, che io trovo di straordinario interesse, traggono origine dai Trauma Studies (Felman, S., 2002), secondo i quali il Novecento è stato “il secolo del trauma”. Nella sua introduzione, Maria Pia De Paulis illustra in maniera chiara e approfondita l’intento del libro: si vuole verificare se e in che modo la produzione culturale dell’Italia novecentesca, possa aver risentito dei maggiori avvenimenti storici, rappresentandone il racconto, e soprattutto verificare se i traumi storici di allora possano essere andati incontro a una rielaborazione e a una resilienza, grazie alla parola ritrovata e alla creazione letteraria e artistica.
Sin dalle prime pagine il libro evidenzia varie questioni, relative alla natura complessa dei traumi storici del Novecento, e alla loro verbalizzazione e trasformazione letteraria, che entrano in profonda risonanza con il pensiero psicoanalitico. Viene posta in rilievo l’articolazione tra l’esperienza individuale e la situazione violenta imposta dall’esterno, alla quale il soggetto non riesce ad opporsi: “Egli sente allora la necessità di dire il trauma, di mettere ordine nel suo vissuto e nei suoi ricordi tramite un’enunciazione orale o scritta” (p. 12). In una prospettiva tanto diacronica quanto sincronica i vari saggi presentati, contribuiscono a delineare due questioni fondamentali. La prima riguarda il fenomeno clinico del trauma, e l’unicità e la soggettività della sua esperienza, all’interno del contesto storico di appartenenza. La seconda questione risiede nei tanti possibili modi di “dire il trauma”, di testimoniarlo. La verbalizzazione del trauma è il presupposto indispensabile per una condivisione umana, per una socializzazione del racconto, che può poi portare alla sublimazione degli effetti psichici del trauma, attraverso una lingua documentale, letteraria e artistica. La testimonianza permette un’elaborazione del lutto, una messa a distanza della propria vicenda umana, con una comprensione della Storia, e lo svilupparsi di una resilienza con connotazioni etiche. Derrida (1998) sottolinea l’esemplarità di ogni testimonianza: “Là dove io testimonio, sono unico e insostituibile”. Il libro è suddiviso in quattro sezioni, sia secondo un ordine temporale, sia secondo linee tematico-problematiche. Viene dato molto risalto ad alcuni aspetti strutturali della scrittura dei traumi storici del Novecento: la poeticità della scrittura; la natura testimoniale; la valenza storica e terapeutica; la natura traumatizzata e allo stesso tempo di riscatto, per la sua funzione memoriale.
Nella prima sezione – Soldati e scrittori: il trauma della Grande Guerra – vengono studiati gli scritti, le opere poetiche e figurative di tre nomi celebri della letteratura italiana: Giani Stuparich, Clemente Rebora, e Lorenzo Viani. Questi tre letterati, ciascuno con il proprio stile, hanno a comune un atteggiamento di rivisitazione critica rispetto alla propria esperienza bellica di patrioti volontari, e di descrizione e di condanna dell’orrore delle trincee e delle relative conseguenze psichiche.
Nella seconda sezione – Le scritture-testimonianza. Il trauma del fascismo e della Seconda guerra mondiale vengono prese in esame le problematiche espresse da autori centrali della Letteratura, nel periodo che va dagli anni Venti-Trenta alla seconda guerra mondiale: le sofferenze di un’ebraicità difficile da assumere per Umberto Saba; le esperienze traumatiche di primo Levi e di Luce d’Eramo. In questa sezione Adelia Lucattini, collega della SPI, che fa parte del gruppo CIRCE della Sorbona, dedica al romanzo Deviazione, di Luce d’Eramo (1979; 2012), un contributo eminentemente e finemente psicoanalitico, che mi sembra molto prezioso nell’ottica delle discipline umanistiche, oltre che nell’ottica della Psicoanalisi: “Trauma, poliglossia e costruzione della soggettività in Deviazione”.
Nella terza sezione – Mediazioni terapeutiche del trauma. Resilienza e tabù – si affrontano alcune delle situazioni più drammatiche della Seconda guerra mondiale e dei campi di concentramento, attraverso varie forme di scrittura e di trasmissione del trauma: testimonianze orali dei deportati ebrei romani; memorie di taccuini e diari scritti nel campo di Gusen; ricordi di sopravvissuti ai bombardamenti in Toscana; dialoghi teatrali di esperienze indirette della Shoah; rielaborazione letteraria delle violenze commesse sui civili; ricostruzione storica delle “Marocchinate”.
Nella quarta sezione – Scritture traumatizzate e ricerca memoriale – è in primo piano la dialettica esistente fra le tracce del trauma in una lingua “traumatizzata” e la ricerca di un senso tramite la scrittura. Tali tracce svelano sempre la dialettica traumi/resilienza propria di ogni testimone, il suo doloroso vissuto e il suo faticoso sopravvivere. Qui viene esplicitato il senso della parola ‘memoria’, che per Domenico Scarpa, viene intesa da Primo Levi “come ricerca, principio negentropico, ovvero organizzatore di realtà contro il disordine e l’entropia. La memoria è un’anamnesi positiva, un baluardo contro la cancellazione e la rimozione del trauma, dunque il motore di una coscienza storica capace di costruire il futuro” (p. 18-19).
Nella mia recensione, in una prospettiva psicoanalitica, mi soffermerò più in particolare sul significato della testimonianza, tema che attraversa tutto il libro, e sull’uso e sul significato della poliglossia nella rappresentazione e nell’elaborazione di stati emotivi traumatici, nell’opera di Luce d’Eramo, così come è stata analizzata da Adelia Lucattini.
A proposito del testimone, Jacques Derrida (1998) scrive: “Il testimone non è forse sempre un sopravvissuto? Ciò appartiene alla struttura testimoniale… Il testimone è un sopravvissuto, il terzo, il terstis quale testis et superstes, colui che sopravvive”. Il testimone, secondo Giorgio Agamben (1998), “ha vissuto qualcosa, ha attraversato fino alla fine un evento e può, dunque, renderne testimonianza”. Scrivere sul trauma, per il sopravvissuto ai campi di sterminio, significa riappropriarsi della parola, per dare forma all’indicibile e all’irrappresentabile, e attraverso il racconto, riappropriarsi della storia, collegandola al presente, resistendo così alla negazione della Storia. Scrivere dunque costituisce una speciale forma di testimonianza, attraverso cui contrastare gli effetti psichici dello spossessamento di sé, attraverso cui ricostruire un senso di cultura e civiltà condivisa. Per Clara Mucci (2008) “È l’assunzione soggettiva dell’esperienza attraverso la parola il passaggio obbligato per superare il trauma”. Nel descrivere con grande profondità lo status del sopravvissuto, Laub (2005) osserva come “il sopravvissuto non è completamente consapevole di ciò che sa. È solo nel momento quando la testimonianza emerge che il sopravvissuto viene a conoscere pienamente la propria storia e l’impatto che essa ha o ha avuto sulla propria vita”. Per Laub la testimonianza è un processo in divenire, che avviene nel dialogo con l’intervistatore: “perché ci sia testimonianza ci deve essere un interlocutore attento, presente, rispettoso , totalmente impegnato nel processo” (Mucci, 2014, p. 123). Laub (1992) definisce la Shoah un “evento senza testimone”, avendo sperimentato egli stesso il campo di concentramento con i familiari, da bambino, ed essendosi occupato come psicoanalista dei sopravvissuti. Laub concepisce la pratica psicoanalitica come testimonianza, in linea con quanto proposto da Ferenczi (1932), e discusso in anni recenti da molti psicoanalisti, tra cui Borgogno (2006). Si tratta di una testimonianza che va nella direzione della ricostituzione di quel legame che il trauma ha rotto. In una prospettiva relazionale, Laub vede il trauma come rottura del legame empatico con l’altro: l’altro come oggetto buono non esiste più. La rottura della diade interna Io e Tu, Io e Altro spiega gli stati dissociativi caratteristici del trauma, descritti come “sapere-non sapere”. A livello intrapsichico non c’è un altro interno su cui contare, per cui, come diceva Primo Levi, “nel Lager si è disperatamente e ferocemente soli”. Tale disperazione interiore diventa incapacità di comunicare con gli altri, di essere in contatto con se stessi e con gli altri, di riflettere sulla propria esperienza. Ne deriva che il “sapere” del trauma può emergere solo entro una relazione, in presenza di un ascoltatore appassionato, totalmente “dedito e benevolo”, usando i termini di Ferenczi, che permetta la riconnessione tra il sé e il tu. Il processo della testimonianza è pertanto essenziale nel ristabilire il dialogo interno con se stessi, con l’Altro e con l’esterno.
Tra le testimonianze letterarie sui campi di sterminio, quella di Luce d’Eramo, attraverso il suo romanzo autobiografico Deviazione, è, senza troppa enfasi, eccezionale per vari motivi. Così come Lucia, la protagonista del romanzo, la giovanissima Luce d’Eramo, ragazza di buona famiglia fascista, alla soglia dei diciotto anni, nel febbraio del 1944, vuole che vivere abbia un senso e uno scopo: la verità. È per questo che decide di andare a vedere coi suoi propri occhi quello che accade nei Lager. L’orrore di ciò che scoprirà non può essere contenuto, né compreso, e l’impatto con il trauma sarà devastante, con un dolore psichico insostenibile, che dovrà essere dissociato e rimosso, nello sforzo cosciente di rimanere in vita. Deviazione, più che un’autobiografia, è un memoir, come precisa Nadia Fusini nella sua bellissima introduzione al romanzo, nella versione del 2012: qui la memoria, più che ai ricordi reali, è legata all’emozione vissuta, ciò che conta è la verità emotiva, e gli eventi vengono ricostruiti in maniera associativa, per ciò che hanno significato. Da vittima ignara Luce d’Eramo diventerà testimone attraverso un lungo e profondo processo di elaborazione dei traumi vissuti, con l’accettazione del dolore e il recupero di aspetti vitali del proprio passato e della relazione interiorizzata con i genitori. Con una coraggiosa lucidità, la scrittrice si avventura dentro se stessa, così come nella storia dei fatti narrati, che non a caso non seguono un ordine cronologico, in un percorso di ricerca esistenziale e di costruzione della propria soggettività, avvalendosi di vari registri letterari. Mentre i primi tre capitoli sono scritti in prima persona, nel quarto capitolo la protagonista guarda una propria fotografia e si stacca da sé, descrivendo in terza persona le vicende che capitano a quella ragazza che non è lei, perché ora mentre scrive non è più la stessa. Nel capitolo finale si torna alla prima persona e aumenta il senso di estraneità tra sé e l’altra che è diventata. Come osserva Adelia Lucattini, che analizza il testo utilizzando il metodo psicoanalitico, seguendo l’ordine in cui il testo è stato pubblicato nella prima versione del 1979 e nella versione del 2012, il primo capitolo del romanzo, Thomasbräu, sebbene sia scritto nel 1953, e non nel momento in cui i fatti accadevano a Dachau, si intravede una modalità espressiva “post-traumatica”: “l’elemento traumatico è ancora presente, vivo, non elaborato, intriso di ricordi frammentari e ‘di copertura’, ovvero di ricostruzioni tese a compensare lacune mnesiche dovute a rimozioni e ‘barrage’” (p. 160).
Una particolare importanza spetta al significato e all’uso della poliglossia nell’opera di Luce d’Eramo, che cresciuta in Francia da genitori italiani, oltre a conoscere bene l’italiano, il francese e il tedesco, durante il suo viaggio, prima da ‘volontaria apparente’, e poi da deportata, ebbe modo di apprendere il polacco, il russo e il rumeno. La scrittrice si avvarrà solo di alcune di queste lingue nella sua scrittura. In Thomasbräu si ha il primo uso del tedesco, oltre che nel titolo, nel corpo del testo, e da qui in poi questa lingua verrà associata a figure o ambienti maschili, correlabili con una “istanza superegoica persecutoria”, legata a un rapporto difficile e conflittuale col paterno e con l’autorità. Sempre in Thomasbräu è interessante vedere che l’italiano, la lingua della madre e della nonna, sia la lingua “scelta”, per narrare e testimoniare, la lingua dell’elaborazione letteraria dell’esperienza di morte e di rinascita. Qui inoltre i dialoghi con Louis, francofono, sono in italiano, come a voler ribadire il bilinguismo francese-italiano della scrittrice, come traccia identitaria. La poliglossia in Deviazione rivela diversi aspetti identitari della scrittrice, legati alle sue multiformi esperienze esistenziali e relazionali. Il francese è la lingua dell’intimità affettiva che può parlare con Louis; il tedesco è la lingua del mondo paterno percepito come persecutorio; il polacco è la lingua della prigionia e della malattia; il russo è la lingua del “passaggio intermedio”, “spazio transizionale” tra i vari aspetti identitari; l’italiano il raggiungimento di un “fatto scelto”, una “lingua scelta”. Le varie lingue corrispondono a diversi aspetti del sé e a diverse modalità di funzionamento mentale, che permettono di tracciare una “semantica dell’inconscio”, per cui: “il dolore psichico, percepito ma non sofferto” (Lupinacci et al., 2015) può essere espresso soltanto nella lingua delle persone che glielo provocano. “L’italiano è la lingua in cui Luce d’Eramo si sente ‘a casa’, la lingua dell’infanzia e dell’amore per il quale è già inconsapevolmente pronta, che parla con l’amico rumeno Tanasescu e i compagni del GUF e d’università, e che usa per rievocare il ricordo di Louis dopo l’elaborazione della sua perdita’” (p.162). Nel romanzo l’uso del tedesco sembra essere quasi sempre in relazione con delle istanze o persecutorie o depressive. In Asilo a Dachau, del 1954, dove compare un intero ritornello in tedesco, le parole suonano meccaniche e prive di emozioni e questo fa pensare a un blocco emotivo post-traumatico: le esperienze traumatiche, non ancora elaborate, sono riportate come “scrittura automatica”. Qui il francese appare come la lingua dell’infanzia, la lingua con cui Lucia parla alle donne, quindi al materno. Il melting pot della poliglossia contribuisce a far sì che Deviazione sia un’opera che riesce a dar voce oltre che alla molteplicità degli stati emotivi attraversati dalla protagonista, alle svariate forme che può assumere la natura umana, compresa quella dei nazisti. Luce d’Eramo “Scopre che chi domina e chi patisce sono stretti insieme in una perversa comunità “di sottouomini”, divisi in “schiavi-tiranni e schiavi-schiavi”. E questo le dà “una forza infinita”: la libera dall’idea che i nazisti, quelle guardie, in quelle uniformi, siano i suoi interlocutori, che siano “persone” a cui “ribattere a tu per tu”, persone in controllo delle loro azioni” (D’Eramo, L., 2012, Introduzione di N. Fusini, p.11). Penso che la complessità e la ricchezza dell’intreccio tra lingua, cultura e identità, nella vita e nell’opera di Luce d’Eramo, abbiano contribuito ad ampliare il suo spazio mentale; a riavviare connessioni possibili tra i pensieri, anche quelli più intollerabili, e legami significativi con gli altri, andando a sostenere l’ “esperienza di sentirsi vivi” (Milner, 1957), la sua “resilienza”. È la resilienza che Nadia Fusini descrive come virtù, come “forza di metallo che resiste ad ogni attacco” e come “il suo gesto di naufrago che risale nella barca rovesciata” (D’Eramo, L., 2012, Introduzione di N. Fusini, p. 17).
BIBLIOGRAFIA
Agamben, G. (1998), Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998
Bohleber, W. (2007), “Ricordo, trauma e memoria collettiva. La battaglia per il ricordo in psicoanalisi”. In Rivista di Psicoanalisi, 53, 2, aprile-giugno, pp. 367-394.
Borgogno F. (2006), “Pensieri sul trauma in Ferenczi. Un’introduzione clinico-teorica”. In Bonomi, C. (a cura di), Sandor Ferenczi e la psicoanalisi contemporanea. Borla, Roma.
D’Eramo L., Deviazione [1979], Milano, Feltrinelli, 2012.
Derrida, J. (1998), Demeure. Maurice Blanchot, Paris, Galilée, 1998.
Felman, S. (2002), The Juridical Unconscious: Trials and Traumas in the Twentieth Century” Cambridge, Harvard University Press.
Ferenczi, S. (1932), Diario clinico. Gennaio-ottobre 1932. Raffaello Cortina, Milano, 1988.
Laub, D. (1992), “Bearing witness or the vicissitudes of listening”. In Feldman, S. Laub, D. (a cura di), Testimony, Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis, and History. Routledge, New York and London.
Laub, D. (2005) “Traumatic shutdown of narrative and symbolization. A death instinct derivative?”. In Contemporary Psychoanalysis, 41,2.
Lupinacci, M. A., et al., (2015), Il dolore dell’analista. Dolore psichico e metodo psicoanalitico, Roma, Astrolabio.
Milner, M., (1957), “L’organizzazione del caos” (trad. it. : La follia rimossa delle persone sane, Borla, Roma, 1992.
Mucci, C. (2008), Il dolore estremo. Il trauma da Freud alla Shoah, Roma, Borla.
Mucci, C. (2014), Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale. Raffaello Cortina Editore, Milano.
CMP – Giornata della Memoria 2020 Milano, 26 gennaio 2020