Cultura e Società

“Derive” di D. Fasoli. Recensione di A. Schön

12/01/23
Bozza automatica 49

Derive. Schegge di vita in versi e in prosa

di Doriano Fasoli (Alpes, 2021)

a cura di Alberto Schön

E’ un diario? No, è piuttosto un manuale con cento ricette per ripensare la malinconia.

Dice di viaggiare in una barca alla deriva (pag. 112), che spesso si ferma, ogni fermata una pagina.

Può apparire un libro di pagine sparse ma coerenti, scritte in stili diversi. Ma è molto di questo. Nel sottotitolo vengono prima i versi, tuttavia il testo comincia con la prosa, ma poi rileggendo sorgono dubbi. Alla terza lettura il Polonio interno – quello non radioattivo – sospira “c’è del metodo in ’t”. Il lettore si mette in viaggio con Fasoli in diverse derive di cui non si può conoscere l’Origine. Lui cammina nel bosco, si sente frustrato, trova spesso fiori del male, non sembra sentire una corrispondenza con le colonne dei tronchi. Attraversa la foresta di simboli, ma non si sente osservato, come capitava a Baudelaire, con occhiate familiari. Perde la strada di casa, ma forse così trova quella della scrittura. Fasoli dà attenzione al suono e alla parola e confronta le sue sensazioni con quelle di Carmelo Bene (“sono troppo numeroso per dire sì e no”), Fabrizio De André (“Io sono la minoranza di uno”), due magnifici maestri di phoné e di invenzioni. Coppia di voci e personalità rare, inconsuete, differenti, forse complementari.

“Sono personaggi che non si possono pensare serenamente invecchiati” (pag. 17).

 “Forse soffrire e pensare sono la medesima azione” (pag. 21).

Ci dice che essere soli con le parole è la vera solitudine (pag. 9), quella che molti di noi conoscono, ma non sanno le parole.

Fasoli condisce le sue rêveries con citazioni a volte prive d’autore. Ogni lettore le può riconoscere o ignorare. Ci insegna che Piccadilly deriva dal nome di un colletto inamidato (pag. 11). Adesso lo so.

Cito qualche esempio del suo stile.

Per raccontare alcune sue esperienze le chiama “Ricordanze sentimentali di forfore infantili nei nostri tinelli, provinciali” (pag. 9).

“L’odio radioattivo” (pag. 38).

“Con Martine tutto diventava ali di rondine” (pag. 29).

“Noi bevitori di avvenire morto, cercavamo di arrivare fino a sera, per completare l’amore, cenere mai del tutto estinta. Ma, mi chiedo, è fondamentale innamorarsi o, piuttosto, è essenziale sentir prima parlar d’amore?” (pag. 58).

“La letteratura contemporanea? Almeno quella non sgrammaticata?” (pag. 72).

“Non c’è serratura di cui la colpa non abbia la chiave”.

Mi pare inutile domandarsi se sia prosa o poesia. La risposta è: le due forme insieme molto ben intrecciate.

Per Fasoli la pantera profumata è Dioniso, così almeno sembra (pag. 89). Per quanto ho letto io “pantera profumata” è una rappresentazione medievale della poesia, elegante, felina, bella, che attira la preda con un profumo, comincia per p e finisce per a. Sì, lo so,  professore, anche altre parole come pasta e pandemia… e c’è pure una poesia dionisiaca.

Si pone domande di questo tipo:

Chi parla quando si parla, chi pensa quando si pensa? Oppure, siamo nell’universo? L’universo è nella nostra mente?

Non cita Zanzotto, ma sembra d’accordo che “Tutto ritorna in minimi fitti tagli”.

Gli pesa che la parola anamesi sia finita nel vocabolario medico, quando nelle sue nobili origini voleva dire ricordo che diventa conoscenza.

Tende a essere serio e drammatico, con sprazzi ironici.

Mi pare che spesso si percepisca l’eco di una grande domanda: Cosa c’era prima? Forse per evitare il quesito complementare, quello del dopo. E qui segnalo un elemento che compare in molte pagine, l’angoscia della morte nelle forme più diverse, quella che per molti è uno dei motivi per cui si scrive. Questo modo di sentire si estende al fascino degli opposti, appunto la vita, la morte, fatica e riposo, fino a dettagli come fare la cura del sole, ma sotto l’ombrellone. Anche questa è la morte a Venezia. La morte è anche un buon motivo per restare in vita.

Fra le molte associazioni originali segnalo la meditazione sull’immagine dell’oscura arcata (pag. 89), che è quella del tempo, che induce timore e pessimismo. L’arco suscita l’invocazione alle Muse e non sembra tenere conto del mito, che le dichiara figlie di Mnemosine, la divinità della memoria, quella che ricorda le parole e ci collega al passato. Le muse spiegano con il mito da dove giunge l’ispirazione. A volte i figli continuano e migliorano l’opera dei genitori nel loro ricordo. Credo sia capitato anche a vari poeti.

Nelle prime pagine dichiaratamente autobiografiche si definisce melanconico, saturnino, sabotatore di se stesso, con una nonna luminosa, una madre che spende molto in farmacia, un padre violento, commosso dalla poesia, che lo voleva ragioniere.

Ne è uscito un creativo ricco e prolifico che eccelle nella rappresentazione di nemesi, sciagure, morte della cara amica, interroga le celebrità, proietta figure femminili con separazioni dolorose, canta amori “come panchine vuote”, è capace di vestire il dolore in abiti di gran classe.

E poi uno che ama Charlie Parker, Satie, il vino rosso, la misantropia celeste di Benedetti Michelangeli (pag. 54) e invece detesta palestre, creme solari, sabbia e ombrelloni, uno così mi è congeniale.

Nell’Appendice ha messo conversazioni con Emilio Garroni, Carmelo Bene, Elémire Zolla per chi ha voglia di rileggere e pensare.

Concludo. Fasoli mi pare un autore che ha conosciuto tanti personaggi[1] di alto livello culturale. Uno che non esita a mescolare il jazz con la saudade e forse lo fa apposta per provocare i pignoli, quelli che non capiscono l’emozione che si prova nell’oltrepassare il limite del consueto. 

Un poeta inquieto che forse è d’accordo con Charlie Brown: “Amo l’umanità. E’ la gente che non posso soffrire.”


[1] Calasso, Wittgenstein,  Elémire Zolla, la Toscana tra vespro e alba, Luzi, Spaziani, Bertolucci, Brandi, Praz, Scialoja…

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