“Da dietro”, di Donatella Lisciotto
(Di Nicolò edizioni, 2019)
Recensione a cura di Rossella Valdrè
Benché non si possa non concordare con Domenico Chianese che, nella sua bella prefazione, scrive che nello sguardo Da dietro con cui Donatella Lisciotto ci conduce ad osservare il mondo, non vi sia nulla che richiama la posizione dell’analista dietro il lettino, al tempo stesso occorre riconoscere che questo piccolo, singolare libro è squisitamente psicoanalitico; solo un’analista, vale a dire, poteva scriverlo.
Appassionata di fotografia e sensibile all’immagine, a ciò che dell’immagine resta celato, non detto, non immediatamente apparente, Donatella Lisciotto accompagna il lettore in un percorso attraverso le immagini, immagini da dietro, percorso che è insieme intimo, personale, a tratti poetico, inframmezzato da ricordi e brevi riflessioni psicoanalitiche. Per godere di questa lettura, breve e insieme densa, occorre lasciarsi andare, come si intuisce ha fatto l’autrice, alla libera associazione tra immagini, parola, pensiero, senza rincorrere rigorosamente un senso, senza affannarsi nella logica, mantenendo un’attenzione sospesa, insatura, ma esploratrice e curiosa. In questo senso, è un libro psicoanalitico: per l’atteggiamento a cui induce, per l’atmosfera da cui è pervaso, non per i contenuti o l’ambizione.
Diviso in cinque capitoli, il libro presenta una serie di immagini, a volte volutamente sfocate e “sporche” (l’autrice ci tiene a non considerarsi una tecnica della fotografia), di figure umane o oggetti che hanno colpito, nel tempo, la sua attenzione e la sua fantasia, che le hanno suscitano emozioni, associazioni, pensieri, tutte riprese da dietro, posizione a cui l’occhio dell’analista è abituato, in cui siamo a nostro agio, in cui trascorriamo gran parte della nostra vita; che cosa vediamo, del paziente, per mesi e anni, se non la nuca, le spalle, i gesti visibili in questa inconsueta posizione? Eppure, da questa posizione, al di là delle sue precise ragioni tecniche, cogliamo inconsciamente o preconsciamente molto dell’altro che sta davanti a noi. L’identità, l’inconscio, il mistero del soggetto e delle cose non si esaurisce, ci dice l’autrice, nel solo sguardo convenzionale, nella sola frontalità, ma esiste un altro aspetto, o meglio un aspetto altro, un cono d’ombra, nascosto, scisso, che si può cogliere solo se mutiamo il nostro sguardo. “Immagini dell’inconscio”, le chiama Lisciotto, e scrive “sono incline a pensare all’esistenza di un’immagine dell’inconscio, di ciò che dell’oggetto non è visibile e che rimane piuttosto nascosto e che, soprattutto, si esprime a prescindere dall’aspetto proiettivo dell’osservatore” (p. 26). La notazione è importante; si potrebbe infatti obiettare che ognuno vede nell’immagine ciò che vuole, ciò che inconsciamente proietta, ma l’autrice ci tiene a sottolineare che non è così, che esiste un’oggettività, se così si può dire, di quel mistero chiamato inconscio, che esiste un in sé, un’essenza dell’inconscio di ogni soggetto che il corpo, la posizione, può sprigionare, e può farlo più facilmente se si assume il punto di osservazione non consueto, non convenzionale del da dietro. La tesi è affascinante.
Ecco allora che in “Status quo”, l’immagine di una schiena curva, un giubbotto invernale, così china su di sé da non vedersi la testa, seduto su scalini di un ambiente che si intuisce povero, ci rimanda all’essenza di un uomo che può aver conosciuto momenti migliori, ma è caduto in povertà, come tanti dimenticati del nostro mondo opulento, e non può più pensare, non può più mentallizzare, perché quando non sono soddisfatti i bisogni di base, il pensiero diventa un lusso. Oppure “Passeggiata in carrozzella”, dove in un parco di Boston un uomo in carrozzella, da dietro, guarda pacificamente la gente giocare nel lago di fronte a lui; è immagine opposta alla precedente, dove là regnava una muta disperazione qui, nonostante la disabilità, l’uomo guarda gli altri senza invidia, senza rancore, sembra godere della loro salute, della loro vitalità. Ma anche gli oggetti, le cose, possiedono una loro essenza, possiedono un’anima, una storia, quella che Benjamin, autore a cui l’autrice fa spesso riferimento, chiama la storia e l’autorità della cosa. “Le sedie vuote” ne è un bellissimo esempio; due sdraio vuote, da dietro, in una terrazza davanti al mare di Stromboli: qualcuno le avrà sedute, abitate, usate, corpi ci si sono posati, hanno vissuto la loro fetta di vita, e se ne sono andati; le sedie vuote testimoniano di quest’assenza e di questa presenza. Veniamo qui ad un altro punto che appare fondamentale in questa ricerca: il gioco presenza/assenza, per cui l’immagine rivela una presenza e al tempo stesso un’assenza: non è forse il gioco presenza/assenza inaugurale alla nascita della soggettività? Non è così che il bambino, il piccolo Ernst che siamo stati, domina la perdita e compie un lavoro di civiltà” (Freud, 1920). Non è forse vero che da nessun seno, scrive Bion, origina un pensiero?
Il pittore Giorgio Morandi, che negli ultimi anni della sua vita dipinse sempre lo stesso paesaggio davanti alla finestra della sua camera, in riproduzioni sempre più essenziali, usava dire che al mondo non c’è niente di nuovo, quello che cambia è il nostro sguardo. Non credo che Morandi intendesse mettere in campo la variabilità delle proiezioni di ciascuno, ma che a seconda di come guardiamo, lo stesso oggetto cambia, rivela quello non c’era, ci avvicina a quello che Bollas chiama “il mistero delle cose” (2001): così come è bene che l’analista non dia per scontata la conoscenza ma continui a stupirsi del mistero delle cose del paziente, vedendone sempre aspetti nuovi, così il nostro sguardo, come diceva Morandi, se guarda da dietro, cioè da posizioni inconsuete, non convenzionali, in ombra rispetto alla coscienza, può forse avvicinarsi, con le persone e con gli oggetti, al loro intrinseco mistero. La posizione può contenere lo stile, la biografia, le attitudini di un soggetto. Così ne “La scrittrice”, immagine di una donna curva intensamente a scrivere nel parco di Boston, ravvisiamo un’antica bellezza e raffinatezza dall’accurata acconciatura, l’attuale invecchiamento, la passione per la scrittura che la assorbe e la isola dal contesto. E si potrebbe continuare, ogni immagine evoca un mondo, ma lasciamo al lettore la sua personale scoperta. Nel capitolo IV, “Immagini in movimento”, l’autrice tenta un parallelo tra il fotografare e il lavoro dell’analisi, dove “la ‘messa a fuoco’, nel gergo fotografico, rimanda alla funzione trasformativa della cura psicoanalitica, e non solo nel rendere nitido ciò che è oscurato o trasfigurato, piuttosto nel considerare altre dimensioni dell’oggetto solitamente visibili nel sogno, nella rêverie, nei lapsus, negli atti mancati, nella dissociazione” (p. 8), e altrove “la mente dell’analista ha bisogno pertanto di allenarsi a vedere l’invisibile. Può farlo sviluppando la capacità immaginifica della mente” (p. 89).
Il noto aforisma di Saint-Exupery, per cui l’essenziale è invisibile agli occhi, ben si presta a commentare, in conclusione, in poche parole il senso di questo libro e il pensiero dell’autrice: l’essenza, l’inconscio delle cose umane è invisibile all’occhio consueto, all’occhio che si accontenta, che non si sofferma e non esplora da angolature altre, da posizioni scomode e a volte improvvisate, l’oggetto che osserviamo, sia questo una cosa come una persona, la vita nel suo insieme, gli oggetti inanimati e animati nel loro continuo compenetrarsi, nel loro testimoniare, sempre, una storia.
Riferimenti bibliografici
Benjamin W. (2015): L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi
Bollas C. (2000)): Il mistero delle cose. Milano, Cortina, 2001
Freud S. (1920): Al di là del principio di piacere. OSF, 9