E così, se n’è andato – in questo inizio di anno, dopo tante perdite che hanno segnato la scomparsa di molti intellettuali e pensatori che hanno fatto la storia del secolo passato e dell’inizio di questo nuovo millennio – anche Zygmunt Bauman, un fine sociologo che ha coniato un termine – quello di “liquidità” – che ha avuto una grande fortuna e segnato la scena culturale degli ultimi decenni. Un concetto diventato forse una formula “pass-partout”, che ha tuttavia ben indicato i modi con cui si sono articolati i rapporti sociali, economici ed anche affettivi di questa nostra epoca. La “liquidità” vuole infatti indicare la difficoltà, se non l’impossibilità di prendere una forma definita, una caratteristica questa della condizione umana contemporanea, presa tra l’indefinitezza dei ruoli, dei rapporti di lavoro, delle relazioni familiari, affettive e sentimentali. L’altra faccia, insomma, di quella facile promessa – che ha funzionato come uno slogan pubblicitario – di poter “essere ciò che si vuole”, come liberati d’incanto dalle strettoie identitarie, culturali, economiche, psichiche che ci fanno però, di fatto, soggetti umani. La riflessione di Bauman ci ha allora mostrato come nei fatti la “vertigine liquida” della possibilità infinita di identità, di stato sociale, di possesso economico, di scelte affettive e sessuali, abbiano di fatto condotto l’umanità di fronte allo spettro dell’esclusione, della messa fuori gioco, dell’annullamento, insieme alle radici storiche e culturali, di quella che fino a pochi decenni fa era la stessa soggettività umana.
Zygmunt Bauman, ebreo di nascita polacca ma trasferitosi a vivere in Inghilterra, dove ha lungo insegnato all’Università di Leeds, non ha mai fatto mistero delle sue simpatie politiche – e il suo impegno contro il negazionismo ne è una testimonianza -, e potrebbe essere considerato una sorta di intellettuale ancora “engagé”: in effetti i suoi primi lavori per i quali è divenuto noto al grande pubblico dei lettori sono proprio sulla “decadenza degli intellettuali”, sulla perdita del loro ruolo significativo nel tessuto sociale. E non ha neppure mai mancato di riconoscere un debito verso la psicoanalisi, in particolare verso le riflessioni freudiane sul “disagio della civiltà”. Nel 2006 diede un dialogo-intervista per la rivista Psiche che comparve nel numero 1/2006, “Deumanizzazione”. Titolo addirittura profetico, voluto dall’allora direttore Lorena Preta, proprio ad indicare le trasformazioni radicali cui la società umana, la psiche individuale e le relazioni sociali stavano andando incontro. Allora sarà utile, al di là delle facili suggestioni che le sue parole hanno fornito alle ultime generazioni di lettori, rileggere questo dialogo-intervista nel quale rispondeva – mostrando oltretutto una conoscenza e una cultura assai profonda ed estesa, che rendeva ragione della sua profonda capacità di comprendere i fenomeni del nostro tempo – ad alcune questioni che proprio la psicoanalisi ha saputo mettere al centro della propria riflessione, e che costituisce forse il l’ambizioso e originario progetto freudiano di poter indicare le origini più profonde dei meccanismi sociali e culturali collettivi. E forse è anche una buona occasione per riconsiderare il suo pensiero, che è stato anche così tanto debitore proprio del discorso freudiano e psicoanalitico: che è quanto questo dialogo voleva proprio sottolineare.
Andrea Baldassarro