17 Novembre 2012/3 Marzo 2013, Maxxi, Roma.
William Kentridge, artista sudafricano di vulcanica creatività e grande forza poetica, non utilizza un unico mezzo espressivo: ha prodotto lavori di grafica, serigrafie, disegni a carboncino, collage; ha fatto uso dell’animazione, della musica, del teatro, della danza, spesso fondendoli insieme in istallazioni e spettacoli. Eppure, una sua riconoscibile cifra stilistica mi sembra possa essere individuata nell’uso del bianco e del nero come elemento per lo più caratteristico dei suoi lavori: questa messa in scena di contrasti, questa messa in tensione anche simbolica di polarità irriducibili, a mio avviso rappresenta il Leitmotivcromatico che sul piano formale dà voce alla drammaticità dei temi che Kentridge da sempre va esplorando, relativi alla storia collettiva e individuale, ai drammi politico-sociali dell’umanità e alla intrinseca drammaticità dell’esistenza umana.
Sapientemente esemplificativa della produzione di Kentridge, la bella mostra al Maxxi ci affascina con il fiabesco teatrino di ombre e musica per il Flauto Magico mozartiano, ci fa pensare con il video amaramente ironico e tragico su La coscienza di Zeno, ci interroga con altri lavori, stampe, disegni, modellini in miniatura, immagini in movimento.
Il cuore pulsante della mostra è The refusal of time, presentata quest’anno a Kassel e adesso per la prima volta in Italia, frutto di una riflessione sul tempo che da tempo Kentridge va portando avanti a partire da scambi e conversazioni con lo storico della scienza e fisico P. Galison, e che in occasione della presentazione al Maxxi ha preso forma anche in uno spettacolo teatrale realizzato nell’ambito del Roma Europa Festival.
L’istallazione è un suggestivo e pulsante intrecciarsi di musica, immagini, ombre cinesi, danza, figure che si muovono e si rincorrono su mappe geografiche, pagine di libro, avvolgono magicamente lo spettatore in un flusso circolare che sembra mescolare e annullare il tempo, in un gioco di scomposizioni e ricomposizioni che trascina ad un finale corteo di silhouettes.
Cos’è il tempo? Come lo misuriamo? È possibile negarlo? È certo un problema scientifico, ma anche gravido di interrogativi antropologici ad esistenziali: la morte sarà la fine del mio tempo come uomo, c’è speranza di arrestare l’entropia che tutto disperderà nel caos?
Certo, concettualmente Kentridge fonda il suo discorso sulla messa in crisi della freccia del tempo platonico e newtoniano; sulla rottura operata da Einstein del tempo assoluto e sulla sua relativizzazione; sulla domanda ancora aperta sui buchi neri, che potrebbero inghiottire per sempre la processione finale delle figurine che procedono come una Danza Macabra di medioevale memoria, o chissà, potrebbero invece gettare di nuovo fuori qualcosa, frutto di una trasformazione …
Ciò che risulta intrigante per uno psicoanalista, è da un lato la quantità di materiali visivi che Kentridge usa per indagare le implicazioni metaforiche di certi concetti scientifici; dall’altro, è la sua rappresentazione del mondo e dell’esperienze, per come si evince dal suo modo di operare creativamente sulle immagini secondo una modalità anti-entropica e continuamente trasformativa: scene, disegni, figure, subiscono cancellazioni, spezzettamenti, frantumazioni, vengono scomposte e cancellate, e su ciò che resta si vanno a ricomporre altre forme, ricostruendo una nuova realtà che assembla trasformando il caos precedente, e così all’infinito.
Per farvi un’idea potete dare un’occhiata a questo video:
Maria Grazia Vassallo Torrigiani