a cura di Stefania Nicasi
Io ricordo questo Franco che poi è morto, comunque, con grande dolcezza. Come qualcuno che veramente mi ha aiutato, come io ho aiutato lui. Affinché questo viaggio verso la morte fosse anche un viaggio di vita. Ecco, questo è il punto. Era un viaggio di vita. Un viaggio d’amore, insomma. Luciana Nissim Momigliano
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L’editore Giuntina pubblica due volumi che gli assicurano la nostra gratitudine assoluta. Sono: Ricordi della casa dei morti e altri scritti di Luciana Nissim Momigliano e Luciana Nissim Momigliano: una vita. Alessandra Chiappano, autrice della biografia di Luciana Nissim, ha pure curato l’edizione critica dei Ricordi della casa dei morti. Entrambi i volumi sono corredati da una bella scelta di fotografie che ci restituiscono l’immagine di una donna sorridente e vitale. Luciana in bicicletta, sugli sci, al mare, in montagna.
Nei Ricordi della casa dei morti compaiono i due scritti autobiografici che Andreina Robutti ha inserito ne L’ascolto rispettoso con i titoli: “Una famiglia ebraica tra le due guerre” e “Auschwitz”. Il titolo originale di “Auschwitz” è, appunto, “Ricordi della casa dei morti”. Pubblicato per la prima volta dall’editore Ramella nel 1946 in un libro che, con il titolo Donne contro il mostro e la prefazione di Lidia Ravera, comprendeva anche uno scritto di Pelagia Lewinska, “Venti mesi ad Oswiecim”, “Ricordi della casa dei morti” è una rielaborazione della “Relazione” scritta da Luciana Nissim probabilmente fra l’ottobre e il dicembre 1945 e depositata nell’archivio del Centro bibliografico dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane nel fascicolo “Testimonianze sui campi di concentramento”.
A questi due scritti si aggiungono: una felice scelta di lettere -sei- dal carteggio con Franco Momigliano; “Ricordando Luciana” di Trude Levi, l’amica ungherese che le fu compagna a Lichtenau; un saggio di Alessandra Chiappano sulle deportazioni femminili.
Come nota Alberto Cavaglion nell’Introduzione, colpisce, nei Ricordi di Luciana Nissim, l’immediato passaggio dalla prima persona singolare alla prima persona plurale: “Sono partita da Fossoli…” e tre righe più sotto “eravamo 50-60 persone in ogni carro bestiame”, così come il frequente uso dell’espressione “Vanda ed io”. E’il “noi” di chi si stringe all’altro nel momento della paura e del pericolo, ma è anche il “noi” dell’umanità che cerca nel “noi” la sua casa, la sua patria, quando è gettata in un mondo alieno. E’, come direbbe Vasilij Grossman, ciò che è umano nell’uomo.
Alessandra Chiappano è responsabile del settore didattico dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia di Milano e ha curato diversi volumi dedicati allo studio della Shoah -segnalo in particolare Essere donne nei lager, sempre per la Giuntina. Ha curato anche una splendida mostra -che l’Archivio di Stato -Sezioni Riunite di Torino ha ospitato dal 27 gennaio al 20 marzo 2010- dal titolo “A noi fu dato in sorte questo tempo”: come recita la presentazione, “Non una mostra sul fascismo, né sulle leggi razziali, né sulla Shoah, ma il racconto a più voci per i giovani di oggi delle storie intrecciate di quei giovani di allora che, come disse uno di loro, Silvio Ortona, ebbero in sorte questo tempo, arrivando a subire alcuni il dramma della deportazione e tutti le tensioni delle scelte irrevocabili”. Il “noi” che compare nel titolo della mostra si riferisce a “un gruppo di giovani amici torinesi, studenti o appena laureati, che le leggi razziali del 1938 avevano costretto a riconoscersi come ebrei o amici di ebrei. Si chiamavano: Primo Levi, Luciana Nissim, Emanuele Artom, Franco Momigliano, Vanda Maestro, Silvio Ortona, Ada Della Torre, Giorgio Segre, Alberto Salmoni, Bianca Guidetti Serra, Franco Sacerdoti, Lino Jona, Eugenio Gentili Tedeschi.” Per chi volesse visitarne il sito: www.iltempoinsorte.it
Nel sito della mostra, sotto la voce “interviste”, si può vedere e ascoltare Luciana Nissim che ricorda Fossoli e che nel ricordare fa un tremendo lapsus quando dice “ossa” invece che “uova”. La Shoah è riassunta tutta lì, nelle ossa al posto delle uova.
Dopo la pubblicazione (2008) dei Ricordi della casa dei morti, Alessandra Chiappano raccoglie l’invito di Silvia Giacomoni Bocca a non “rinchiudere la complessa vicenda esistenziale di Luciana nella sua esperienza di deportata, mentre la sua vita era stata assai più ricca e articolata e meritava una compiuta biografia” (Chiappano, 2010, 13).
Nata a Torino il 20 ottobre 1919 in una famiglia ebraica non particolarmente osservante –Noi eravamo ebrei, o meglio italiani di religione ebraica (NOTA: nel testo, le parole in corsivo sono di Luciana Nissim)- primogenita di tre sorelle, Luciana trascorre l’infanzia e la prima giovinezza a Biella. Terminate le scuole –Ero quasi sempre la prima della classe– si iscrive a Medicina –Scelta abbastanza inconsueta per una ragazza nei tempi e nell’ambiente in cui vivevo– a Torino, nel 1937. Grazie alla sua precoce intelligenza e grazie alla madre, è andata a scuola un anno prima del tempo. Una circostanza che ha un peso determinante per la sua salvezza. Nel 1938 sono emanate le leggi razziali che impediscono agli ebrei, fra le molte cose, anche l’accesso all’università. Solo chi è già iscritto può restare– Il ’38 fu veramente sentirsi crollare la terra sotto i piedi. E’ stato tremendo il ‘38. E’una studentessa brillante: se viene discriminata -e viene discriminata- non se ne accorge. All’esame di istologia è interrogata per ultima in quanto ebrea, ma è fiera del suo grazioso vestito a pastiglie mentre tutti gli altri sono costretti a indossare le ridicole divise fasciste.
Il 13 dicembre 1943, a pochi mesi dalla laurea, viene arrestata ad Amay, in Val D’Aosta, mentre cerca di raggiungere “una improbabile banda partigiana” (come dirà poi Silvia Giacomoni) e imprigionata prima ad Aosta, poi nel campo di Fossoli come prigioniera politica: Io ricordo Fossoli col sole, pensa era gennaio, quindi gran sole non ci sarà stato. Noi eravamo vestiti in pantaloni e giacca a vento, ci sentivamo molto carine in pantaloni e scarponi e molto forti. Io ricordo un posto di sole…Franco aveva del latte condensato Nestlè e sbattevamo le uova col latte condensato. Io mi ricordo delle meravigliose creme che ci mangiavamo.
Con l’arrivo a Fossoli dei tedeschi, è deportata come ebrea ad Auschwitz-Birkenau: Sono partita da Fossoli di Carpi (Modena) la mattina del 2 febbraio 1944 con alcuni dei miei più cari amici, Vanda Maestro, Primo Levi, Franco Sacerdoti. Fra loro quattro, oltre all’amicizia, era nato l’amore: Primo ama Vanda e Luciana, che pure è già impegnata con Franco Momigliano, si è innamorata di Franco Sacerdoti, conosciuto a Fossoli: E’ stato l’amore di un mese…era bellissimo e generoso…ricordo che stretta a lui, sul vagone piombato che ci portava ad Auschwitz, pensavo: ‘come farò quando torno?Prenderò Franco Momigliano come marito e terrò Franco Sacerdoti come amante?
Da quel viaggio, da quel trasporto di circa seicento persone, torneranno in pochissimi, in dodici o tredici: Anche Primo Levi è tornato; ma di Vanda e Franco abbiamo solo più due fotografie. In quanto medico, Luciana supera la selezione dell’arrivo e viene reclutata al Revier, l’ospedale femminile del campo. Non le tagliano i capelli, si lava tutte le mattine con l’acqua gelata, impara più parole di tedesco che può. Vanda invece finisce ai lavori pesanti e si avvia a un declino inesorabile. Alla fine di agosto, si offre volontaria come medico per un campo di lavoro in Germania, Lichtenau. Questa scelta, che le salva la vita, significa abbandonare Vanda, ormai “sommersa”. Prima di partire va a salutarla: Era lì sola, tutta rattrappita, seduta per terra, stanca, malandata. Ha detto: “Fai bene ad andar via: se avrai una bambina chiamala Vanda“.
Tornata dal campo nel luglio 1945, in ottobre è già al lavoro nella clinica Pediatrica dell’Università di Torino e iscritta alla specializzazione in Pediatria. Mentre Primo Levi assume su di sé il compito di testimoniare, Luciana, che al ritorno ha ritrovato la sua famiglia, le sue cose e Franco Momigliano, dopo aver scritto quei Ricordi, riprende a vivere: Io amo pensare che ho girato pagina. Che è stato un libro dell’orrore, ma che ho chiuso e ne ho cominciato un altro della leggerezza e dell’amore. Io sono venuta via da Auschvitz, non sono più là. Lavora e studia senza risparmiarsi, la pediatria le pare un suo modo per riparare alla morte dei tanti bambini uccisi ad Auschwitz: Non si esce da un’esperienza come questa, senza il retaggio di precisi doveri verso se stessi e verso gli altri.
Nel 1946 Luciana e Franco si sposano e si stabiliscono a Ivrea dove sono stati assunti alla Olivetti. Sarà un matrimonio solidissimo e nel complesso felice ma non privo di contrasti e di sofferenza. Un anno dopo, al termine di un parto travagliato, nasce morta la loro prima bambina, Vanda. Luciana trascorre alcuni mesi in pericolo di vita: Perdere un figlio è molto peggio che essere stata in KZL.
Alla Olivetti, assume la direzione dell’asilo nido per i figli dei dipendenti e poi la direzione dei servizi sociali. E’vicina in questi anni anche all’UDI. Nel 1956 Adriano Olivetti allontana dall’azienda i due coniugi Momigliano che non vogliono aderire al sindacato giallo. In seguito Franco riprenderà la collaborazione dirigendo un ufficio studi a Milano mentre Luciana gira pagina una seconda volta. A Milano, mentre lavora per i servizi sociali del Comune, si iscrive a Psichiatria e si specializza nel ’59. Stringe l’amicizia e la collaborazione con Livia Di Cagno che a Torino fa nascere una clinica di neuropsichiatria infantile all’avanguardia in Italia. Il rapporto con Livia agisce come uno snodo per Il passaggio dalle attività sociali in senso stretto con ispirazione filocomunista a un’attività sempre di tipo sociale, ma di indirizzo psicoanalitico.
Nel 1956 inizia un’analisi personale con Franco Fornari e in seguito una seconda analisi di training con Cesare Musatti: pensa che Per curare i bambini non basta sapere come sono fatti fuori, bisogna conoscerli dentro. Partecipa alle attività del Centro Milanese di Psicoanalisi del quale sarà anche Segretario Scientifico. Diventa analista della Società Italiana di Psicoanalisi nel 1965 e didatta nel 1978. Come analista, “gira pagina” numerose volte, provocando rivoluzioni nel modo di pensare e di fare l’analisi: se ho lasciato una traccia, come analista, è perché ho introdotto l’umiltà nella risposta del paziente…ho cercato di insegnare ai colleghi più giovani a prendersi l’altro sulle spalle, anziché lasciarlo a trent’anni fa con la sua mamma o all’altro ieri con la sua fidanzata. Su questo ho scritto un saggio di culto e per fortuna non me ne sono accorta…
Nel 1960 nasce Alberto. Luciana è una madre attempata con i problemi di una madre giovane: aria buona, tate, villeggiature, asili, giochi, malattie infettive…la crescita dei nostri figli tardivi. La presenza di Alberto cementa l’amicizia con Silvia Giacomoni Bocca, di venti anni più giovane, con due figli. A Courmayeur, dove entrambe hanno casa, trascorrono insieme le vacanze. Ricorda Silvia: “Siccome noi lasciavamo la chiave sulla porta, la mattina Luciana entrava con la sua vestaglietta rosa (mi pare di vederla) io dormivo, lei si sedeva sul bordo del mio letto ediceva: cosa facciamo oggi?”.
Nel 1987 muore suicida Primo Levi, La più alta espressione, come da subito Luciana lo aveva soprannominato. Scrive sulla Stampa: Ciao Primo, testimone sulla terra. Nel dolore disperato di oggi resto ormai sola a ricordare l’altro viaggio.
L’anno seguente anche Franco Momigliano se ne va.
Dopo anni di silenzio e di riserbo -nei quali ha comunque mantenuto contatti con i compagni sopravvissuti- Luciana torna a parlare delle sue origine ebraiche e dell’esperienza dei campi. Inizia nel 1989 rilasciando un’intervista sulla Shoah e presentando al trentaseiesimo congresso dell’IPA, a Roma, la relazione dal titolo Una famiglia ebraica tra le due guerre.
L’amica Silvia comprende che per lei “Affrontare Auschwitz voleva dire smettere di essere la donna più forte del mondo e fare i conti con la propria debolezza, col dolore, con dei dolori così terribili che lei non poteva ricordarli e ha dovuto accettare il fatto di essere stata un verme”. Ricorda come “Questo suo recupero emozionale di Auschwitz, questo arrivare alla cognizione del proprio dolore, è stato un processo tremendo…E’ stato un processo lungo, doloroso, molto intenso e molto vitale” (Chiappano, 2010, 244).
Luciana deve affrontare la colpa e superare la vergogna di essere stata “un verme” e di essere sopravvissuta. Nel 1977 dichiara in un articolo su La Repubblica: Mi vergognavo di essere uscita quasi indenne da quella tragedia…durante la guerra non pensi che alla morte. La morte è la cosa più importante. Temi di riceverla, sei pronto a darla. Ma ora sappiamo che solo la vita conta. Per questo, quanto allora abbiamo fatto per sopravvivere, quanto ci sembrava empio, oggi non ci fa più vergognare. Possiamo dirlo.
Nel 1995 si ammala di tumore: Io mi sentivo immortale, ma questa selezione non la passo. Negli ultimi tempi si tormenta al pensiero di Vanda, la bambina perduta, ma anche l’amica “andata in gas”. Muore nella sua casa di Milano il 1 dicembre 1998 assistita dal figlio Alberto e dall’amatissima sorella Dindi. Due mesi prima aveva festeggiato 79 anni, in una camera d’ospedale, con champagne, tartufi e numerosi amici, tra lo stupore dei medici.
Alessandra Chiappano ricostruisce sapientemente e percorre con rispetto le vicende di una vita che ha attraversato il Novecento soffermandosi sulle tappe più significative: il lavoro alla Olivetti, la dedizione alla psicoanalisi, il rapporto con la Shoah, la decisione di testimoniare. Si rende conto che “La sua vita si è aperta e chiusa con Auschwitz, la sua esistenza ha compiuto un cerchio perfetto” (Chiappano, 2010, 14). Ricostruisce e ripercorre attraverso documenti, lettere, articoli di giornale, lavori scientifici di Luciana, interviste rilasciate negli ultimi anni di vita -insuperata quella di Anna Maria Guadagni- e, soprattutto, testimonianze. Tante testimonianze di amici, colleghi, allievi. Tante persone parlano in questa stanza che è il libro della sua vita. Soprattutto sono voci di donna: attorno a Luciana una fitta rete di amicizie femminili che sembrano prolungare il rapporto infantile con le sorelle e che rimandano all’esperienza del campo dove la solidarietà fra le internate era una trama che sosteneva la sopravvivenza: “La vita delle prigioniere è come una maglia, i cui punti sono solidi se intrecciati l’uno all’altro; ma se il filo si recide, quel punto invisibile che si snoda sfugge fra gli altri e si perde” (Tedeschi, 1988, p.16). Alcune di queste sembrano molto diverse da lei, come Vanda, fragile e dipendente, altre invece un po’ le assomigliano, come Stefania Turillazzi Manfredi e come Silvia Giacomoni Bocca che sembra essersi assunta quella funzione di specchio e censore della quale Luciana in un tempo lontano, in una bellissima lettera, aveva incaricato Franco Momigliano.
Su tutto aleggia Luciana, “generosa e prepotente”, capace di amare gli altri perché capace di amare se stessa. Improvvisata partigiana, con scarponi e pantaloni da sci; con il camice da dottoressa e i capelli scampati alla rasatura; con il vestito a pastiglie; con la vestaglietta rosa. Con la sua curiosità instancabile, la disponibilità a cambiare, l’arte di trovare il buono e di ricordare quello.
Su tutto aleggia un sorriso che neppure Auschwitz ha spento: ma ora sappiamo che solo la vita conta. Possiamo dirlo. Dobbiamo dirlo.
BIBLIOGRAFIA
Chiappano A. (2010). Luciana Nissim Momigliano: una vita. Firenze, Giuntina.
Chiappano A. (2009). Essere donne nei Lager. Firenze, Giuntina.
Nissim Momigliano L. (2008). Ricordi della casa dei morti e altri scritti. Firenze, Giuntina.
Nissim Momigliano L. (2001). L’ascolto rispettoso. Miano, Cortina.
Tedeschi G. (1988). C’è un punto nella terra. Firenze, Giuntina.
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo una lettera di Luciana Nissim a Franco Momigliano tratta dal volume Ricordi della casa dei morti e altri scritti, pp. 90-92.
Biella, 14 agosto 1945
Dovrei rispondere a un milione di lettere che mi aspettavano a casa, e invece di farlo, ecco che mi metto a scrivere a te, Franco. Non è per mandarti un messaggio d’amore, bensì per raccontarti una cosa per me importante. Ieri ho incontrato, casualmente, a Torino, una carissima ragazza iugoslava, profuga in Asti, che avevo conosciuto ad Auschwitz – lei è buona e dolce, ed è stata con me in campo, una volta, di una generosità rara. Sono stata assolutamente felice di vederla, era talmente inverosimile andare a spasso per Torino e sedersi insieme in un ristorante, era così bello essere vive! E poi lei mi ha ripetutamente detto questo – che due sue amiche, anche iugoslave, venute con me da Fossoli, continuavano dirle di come io fossi stata sempre buona e generosa, e che lei stessa, conosciuto più a fondo l’ambiente laggiù e specialmente l’infermeria, doveva ripetermi «che anche in campo io ero rimasta onesta» è bello no? Infatti laggiù, io, che avevo più facilità di movimento, in grazia della mia professione, ero praticamente l’unica che servisse da trait-d’union fra le italiane, che potesse dare notizie delle malate, ed eventualmente trasmettesse qualcosa – tutte cose che sembrano naturalissime. Ma che là erano estremamente difficili – oltre al fatto che nessuno si prendeva la briga di far qualcosa per gli altri. Ti confesso che io temevo il giudizio delle compagne che sarebbero tornate – io ero in una posizione privilegiata, e avevo paura che, ripensandoci ora, esse trovassero che io non avevo fatto quello che potevo. Invece no – io mi sono mantenuta onesta, ha detto Lisa, e loro mi hanno spesso rimpianto, e sempre parlavano di me, dopo la mia partenza. Ne sono molto fiera, e dopo questo sono stata indotta a fare alcune considerazioni. Non si esce da una esperienza come questa, senza il retaggio di precisi doveri verso se stessi e verso gli altri. Non credo che Dio mi abbia salvato da Auschwitz perché io debba essere di esempio al mondo – ma sento che un’avventura come questa deve pur significare qualcosa. Quando partivo da Grimma, un francese salutandomi, mi ha detto «e faccia buon uso della libertà, ora che ne conosce il valore»… frase che mi gira continuamente dentro, ad indicarmi dei doveri e dei compiti. Io credo che saprò compierli, ma vorrei che tu mi servissi da specchio e da censore, quando cadessi nel banale, o nel convenzionale o, peggio, nel disonesto. Quindi capisci perché questa, che non è una lettera d’amore, non poteva essere scritta ad altri che a te. Io non ho alcuna ambizione, perciò non ho nessuna intenzione di fare molta strada – per me basta essere la tua ragazza, Franco, di te che farai molta strada – e tu non devi mancare alla mia aspettativa – ma io cercherò di essere sempre una persona per bene, e se possibile, anche qualcosa di più.
Ciao. è un po’ troppo personale questa lettera? Ma spero di non averti annoiato troppo. Qui sto bene, è tutto bello, ma io vorrei essere con te.
Luciana