Cultura e Società

Un saluto a Betty Joseph

13/04/13

 E’ morta a Londra Betty Joseph (1917-2013), una delle massime esponenti della psicoanalisi inglese e internazionale. Formatasi nella “scuola kleiniana”, è sempre rimasta aderente a questo paradigma teorico-pratico sviluppando al contempo un pensiero originale e libero, debitore prima di tutto dell’apertura mentale degli analisti con cui ha fatto il suo percorso analitico (Michael Balint e Paula Heimann) e poi dell’incontro con le idee di Bion. Avendo lavorato per molti anni con adulti e bambini, e spesso con pazienti molto complessi, psicotici, borderline, tossicodipendenti, soggetti perversi o con gravi disturbi narcisistici, il suo stile di lavoro era diventato straordinariamente accurato, mobile e sensibile, senza perdere il rigore metodologico e l’attenzione all’integrità del setting. Con le parole di Annalisa Ferretti, nella sua recensione all’edizione italiana di una delle sua rare pubblicazioni, la raccolta di scritti “Equilibrio e cambiamento psichico” (L’Indice, 1991):

“Secondo Betty Joseph, lo strumento per penetrare a questi livelli di profondità nella relazione tra paziente e analista è un tipo di interpretazione molto spoglia e diretta, che intende dare una descrizione precisa ma limitata del modo in cui il paziente vede se stesso, l’analista e quello che sta accadendo fra di loro in quel momento; il compito successivo dell’analista è quello di restare semplicemente in attesa del prossimo movimento che il paziente compie, di cui l’analista deve dare una nuova descrizione, altrettanto limitata e precisa, non appena avrà compreso dentro di se il senso o la direzione di questo movimento.

Betty Joseph pensa che le interpretazioni globali, esplicative non solo possano semplicemente allontanare paziente e analista dai punti caldi, spesso scottanti e fastidiosi, della loro relazione, ma possano spesso rafforzare i sistemi difensivi operanti, promuovendo una conoscenza intorno alle cose anziché una conoscenza radicata nell’esperienza emotiva, l’unica a contenere in sé la forza di generare un cambiamento nell’assetto interno: solo in questo modo è possibile per l’analista giungere là dove è il paziente, e non là dove il paziente lo può portare con le sue parole”.

Ho accolto con grande dolore la notizia della sua morte, a breve distanza da quella del mio analista, Eugenio Gaburri. Betty Joseph, insieme a pochi altri, è stata per me una vera “maestra” nel periodo in cui venivo dando forma al mio stile e alla mia identità professionale di psicoanalista. Tra il 1984 e il 1987 Betty è stata invitata spesso al Centro Torinese di psicoanalisi, a presentare alcuni suoi lavori (cruciali quelli sul “paziente difficile da raggiungere” e sugli equilibri narcisistici) e ad aiutarci a riflettere insieme sull’esperienza di analisti “umani, troppo umani”, senza risparmiarci nessuna verità sgradevole, ma con un modo sempre pieno di simpatia e di rispetto, e mai arrogante o didascalico.

Ricordo tre episodi di quell’epoca:

1. Un momento di impasse nella discussione del materiale di una seduta, con un affollarsi di ipotesi su “che cosa il paziente davvero voleva dire”, interrotto da un suo fulminante commento: “perché vi occupate tanto di quello che il paziente dice, anziché di quello che fa con quello che dice?”

2. Uno scambio divertente (ma non troppo!) tra Betty Joseph e i colleghi scomparsi Parthenope Bion ed Emanuele Bonasia. Emanuele portava il caso e Betty aveva fatto un’osservazione molto centrata ma con qualche aspetto leggermente urticante, e aveva poi aggiunto, forse per mitigare l’effetto: “Does what I said make sense for you?”. Parthenope aveva tradotto, un po’ frettolosamente: “Questa cosa che ho detto fa senso per te?”. Emanuele, con un’espressione a metà tra la smorfia e il sorriso, aveva risposto: “Beh, se è per quello, di senso me ne ha fatto moltissimo!” (in piemontese “fare senso” vuol dire “fare impressione” o anche “sconcerto”, “ribrezzo”).

3. Un invito a cena in un ristorante tipico della collina torinese dove Betty è stata iniziata alle delizie dei porcini (trifolati, fritti, col risotto…), un’assoluta novità – per lei che veniva dalla mestizia della cucina britannica e dall’anonimato dei “mushroom”, i nostri “prataioli – da cui si era congedata con un entusiastico peana a questi incredibili “Fungi” (sic).

Sentiremo la tua mancanza, Betty, e ci mancherà la tua capacità di parlarci dei misteri di Bion in modo piano, familiare, senza artificiosità o sussiego.

See you later!

 

Torino, 10 aprile 2013

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