Pinacoteca Nazionale di Bologna, 23/1-12/4/2015.
La relazione tra Occidente e Mondo Islamico: una mostra per pensare.
(Maria Grazia Vassallo Torrigiani)
Bologna – l’ho scoperto in occasione di questa mostra – è stata con Parigi, Oxford, Avignone e Salamanca, una delle cinque città europee in cui dopo il Concilio di Vienna del 1312 vennero istituite le prime cattedre di arabo, siriano ed ebraico.Ciò significa la creazione di ponti linguistici e culturali che consentivano di incontrare il mondo islamico su terreni che non fossero solo gli insanguinati campi di battaglia dove, tra l’XI e il XIII secolo, milizie islamiche si erano andate scontrando con eserciti europei armati da principi cristiani, che ammantavano di vessilli crociati e rivendicazioni religiose ben più prosaiche mire di espansionismo geopolitico.Sullo sfondo di questo secolare legame culturale con il Medio Oriente, Bologna appare proprio la cornice ideale per ospitare Too Early, Too Late, mostra di estremo interesse nel suo porsi come obiettivo l’esplorazione delle dinamiche attivate dall’incontro tra Occidente e Medio Oriente, focalizzandosi specificamente sull’impatto della Modernità in quei paesi e tra quei popoli. Se ne propone una lettura attraverso i modi in cui questo complesso e tormentato processo è stato vissuto, interpretato e configurato in una molteplicità di forme d’espressione artistica – foto, oggetti, istallazioni e video. Il curatore, Marco Scotini, afferma che il titolo della mostra è stato scelto per suggerire categorie temporali – un “troppo presto” e un “troppo tardi” – che fossero in grado “di mettere maggiormente a fuoco forme diseguali di sviluppo “, proprie di un momento storico come il nostro in cui : “L’ascesa (ovunque e simultanea) di una molteplicità di fenomeni fondamentalisti, frammisti di arcaismo e modernità e quale segno evidente di mancanza di prospettiva per il futuro, ha rimesso fortemente in discussione l’odine del tempo; altrove come qui” (p.24)
La cultura dei lumi, espressione della modernità occidentale, è entrata in Egitto a seguito delle truppe di Bonaparte nel 1798. Come ha scritto su Psiche lo psicoanalista tunisino Fethi Benslama, da allora “ […] una feroce guerra oppone i detentori della comunità organica dell’Islam e coloro che cercano di sostituirgli società pensate, governate dallo stato nazionale, quali che siano d’altra parte i risultati di quest’impresa. Il vero conflitto non è dunque fra laicità e religione come si potrebbe pensare, o piuttosto questo antagonismo è soltanto secondario alla posta in gioco delle trasformazioni del patto della comunità” (p.30)(1)
Nel catalogo della mostra bolognese, il politologo tunisino Hamadi Redissi ci ricorda anche come la modernità sia stata spesso percepita come compromessa con il colonialismo – o il post colonialismo , o con regimi dittatoriali e corrotti – per cui la rappresentazione dell’Occidente risulta ambivalentemente investita per ciò: “ che ha di negativo e repulsivo (le sue armi, i suoi dei, il suo dominio) e simultaneamente di positivo ed attraente (la sua amministrazione razionalizzata, la sua tecnica, la sua cultura, le sue arti, e così via). (p.45)
Occorre comprendere come la compatta totalità dell’Islam medioevale sia stata scossa, incrinata, destrutturata, e si sia infranta la stabilità della raffigurazione del mondo e del sé collocato in quel mondo, aprendo laceranti interrogativi su come accedere a questo «tempo nuovo» della odernità senza perdere la propria identità. Si tratta di far fronte a slittamenti temporali, sfasamenti ideologici e culturali che richiedono aggiustamenti continui nei propri processi di identificazione/disidentificazione, e che suscitano ansie di disgregazione e turbolenze sia sul piano psichico individuale che gruppale.
Ciò che è richiesto, è uno sforzo collettivo per alimentare la capacità della mente di contenere il nuovo e l’ignoto, e di tollerare e negoziare la coesistenza di diversi livelli di esperienza senza ricorrere a psicotiche scissioni ed evacuazioni nell’altro del negativo – e questo sia in Medio Oriente che in Occidente.
Anche dall’insieme dei lavori presenti in mostra ciò che emerge non è un’immagine unificata, bensì una molteplicità di esperienze, di frammenti di vita, ricordi, documenti, che rimandano frequentemente ad eventi drammatici la cui eco a noi è giunta negli anni attraverso i media. Nelle opere prende corpo la testimonianza di quei traumi e di quelle lacerazioni, degli slittamenti e ambivalenze a cui si accennava; non di rado gli stessi artisti hanno dovuto lottare contro censure e persecuzioni per il loro lavoro, fortemente intriso di una tensione umana e politica che è anche affermazione identitaria.
Al piano inferiore della Pinacoteca, la mostra accoglie i visitatori con una grande riproduzione della Porta del Tempo di Karnac, come ad evocare l’ingresso di Bonaparte in Egitto a fine ‘700 con a seguito anche un nutrito drappello di 151 studiosi di diverse discipline, incaricati di esplorare le ragioni del Nilo e la Valle dei Re, da cui riportarono in patria rilievi e disegni di quei luoghi e di quei templi sconosciuti ed affascinanti.
All’interno della riproduzione della Porta, una teca ospita l’istallazione di Bisan Abu Eishel, che consiste nella raccolta dei componenti di una radio a transistor degli anni ottanta del ’900 i quali, smontati pezzo a pezzo dai familiari, erano stati introdotti in carcere e rimontati a poco a poco dal padre detenuto nelle prigioni israeliane, consentendogli di ascoltare di nascosto la radio palestinese. In un’altra teca, reperto anch’esso di vicende dolorose e drammatiche, c’è l’unica copia rimasta di un film italo-palestinese di Mustafa Abu Ali, una pellicola avventurosamente salvata che riprende il massacro di Tall El Zatar durante la guerra civile libanese del 1975. Ancora un’altra piccola teca, e troviamo una fragile e inquietante collana creata dalla libanese Mona Hatoum – un ornamento intessuto di quegli stessi capelli che il velo dovrebbe celare nella mortificazione del corpo femminile imposta dalle leggi islamiche.
Tantissime le opere esposte; durante il percorso, ad ogni visitatore la scelta di soffermarsi su ciò che maggiormente colpisce la sua sensibilità individuale. Ricordo il tappeto bruciato di Mona Hatoum; le foto di Basilico che davanti alla devastazione di Beirut ha voluto ritrarla “come se la gente avesse abbandonato gli spazi per tornarci in un futuro prossimo”; i due video dell’afgana Lida Abdul, che vuole dar voce non solo al vuoto della distruzione, ma anche al tenace sforzo per affermare una possibilità di speranza e sopravvivenza – i due video sono Bricksellers of Kabul, e la sua performance filmata in White House, dove in una sorta di rito di elaborazione del trauma e di rigenerazione si impegna pazientemente a ricoprire con uno strato di vernice bianca ruderi di abitazioni distrutte dalla guerra. C’è l’immagine colorata del timbro (illegale) dello Stato di Palestina, un gelsomino e un uccellino ad ali spiegate, realizzato da Khaled Jarrar; le foto dell’iraniana Shadi Ghadirian, che si rifanno ad archivi ottocenteschi e in cui diverse temporalità contrapposte coesistono nell’immagine; il video Cabaret Croisades dell’egiziano Wael Shawky, dove l’epica delle Crociate è narrata da un teatro di marionette; e le figurine di Piazza Tahir dell’egiziano Moataz Nasr (alla cui ricerca artistica rimando in un altro articolo su spiweb Moataz Nasr )
C’è tanto altro ancora in questa mostra, che è un invito ad una riflessione critica tanto più necessaria nella temperie che stiamo attraversando, un invito all’ascolto e al confronto con l’Altro che non conosciamo, senza chiudere ogni spazio di pensiero e di mediazione arroccandosi nella ineluttabilità dello “scontro di civiltà”.
Fathi Beslama, Allo specchio della rivoluzione, Psiche 2/20145
Too Early, Too Late, Catalogo della Mostra, Mousse Publishing, Milano, 2015.
(1)Per Fethi Benslama, il processo psichico alla base del legame organico del soggetto con la comunità si basa sull’esperienza primitiva del legame con la madre da cui si attinge amore e identità. Tra l’altro la “comunità dei Musulmani” è definita dal termine “Ouma”, che si riferisce esplicitamente a Oum (madre).
Guarda anche:
*Mona Hatoum, Hair Necklace, (2013)
*Moataz Nasr, Elshaab, (2012)
*Hany Rashed, Tahrir Square, (2014)
*Kahled Jarrar State of Palestine stamp (2012)
*Gabriele Basilico Beirut 1991 (1991)
*Shadi Ghadirian Qajar#18 (Radio) (1998)