“LA SIGNORINA ELSE”: Anatomia di un’anima
Uno spettacolo straordinario, questa Signorina Else che ha debuttato a Pistoia per la regia di Federico Tiezzi.
Si tratta della novella di Arthur Schnitzler pubblicata nel 1924, costruita secondo la tecnica del monologo interiore e ambientata nella Vienna a lui contemporanea, quella dello sgretolarsi dell’Impero Asburgico e dell’ipocrito tentativo di mantenere in vita valori borghesi in via di disfacimento, mentre anche l’arte, la musica, la letteratura e la scienza si aprivano a forme nuove che scuotevano alle fondamenta gli assetti consolidati.
In quella Vienna di inizio ‘900, a pochi isolati l’uno dall’altro, vivevano Schnitzler e Freud. Il primo, uno scrittore le cui novelle potevano essere lette come storie cliniche; il secondo, padre della nuova e controversa disciplina a cui aveva dato il nome di ‘psicoanalisi’, che scriveva di casi clinici di cui lui stesso aveva l’impressione “ che si leggono come novelle” – prospettiva un po’ inquietante per Freud, che lottava per difendere la scientificità delle sue scoperte e che aveva visto attaccare come ‘favole scientifiche’ i suoi studi clinici su giovani donne isteriche. La letteratura come doppio perturbante della psicoanalisi, suggestione in qualche modo avvalorata dal famoso biglietto di auguri inviato da Freud a Schnitzler nel Maggio del 1922, in occasione del sessantesimo compleanno dello scrittore viennese, dove il padre della psicoanalisi si lascia andare alla seguente confessione: “Io ritengo di averla evitata per una sorta di paura del doppio. […] ogni qual volta mi sono immerso nelle Sue belle creazioni, ho sempre creduto di riconoscere dietro la loro parvenza poetica gli stessi presupposti, interessi ed esiti che sapevo essere miei. […] Così ho avuto l’impressione che Ella attraverso l’intuizione – ma in verità grazie ad una raffinata autopercezione – sapesse tutto ciò che io ho scoperto con un faticoso lavoro sugli altri uomini”.
La lettura di Tiezzi, e il suo magistrale allestimento, restituiscono appieno il senso di questa vertiginosa capacità dell’arte e della psicoanalisi di esplorare e mettere in forma la complessità dell’esperienza umana – anche di ciò che si muove in un’altra dimensione, quella immateriale dell’interiorità – riflettendola e rappresentandola come nella superficie specchiante che ricopre il pavimento del minuscolo teatro in cui Tiezzi ha allestito la sua messa in scena.
Ma prima brevemente la trama della piece, citando dal programma di sala: “Else è una bella fanciulla, percorsa dai primi turbamenti sessuali, che si trova di colpo messa in difficoltà dalla richiesta dei genitori che necessitano di una grossa somma di denaro. È la madre stessa che, con cinismo atroce, in una lettera dal tono mellifluo e patetico, invita la figlia a ‘vendersi’ per salvare l’onore della famiglia. L’unico modo per ottenere il denaro è chiederlo al signor Von Dorsay, un ricco conoscente con lei in vacanza a san martino di Castrozza”.
Tiezzi ha scelto come ‘setting’ lo storico Teatrino Anatomico dell’Ospedale del Ceppo di Pistoia, elegante scrigno settecentesco deputato alla dissezione di corpi privi di vita, dove in una quarantina di metri quadri gli spettatori venivano invitati a prendere posto sui banchi in muratura che circondano un tavolo anatomico di marmo bianco – gelido altare o asettico lettino psicoanalitico, ove verrà officiato il rito di scandagliare i più intimi recessi del corpo e della mente. Grazia lieve e luminosa di pareti delicatamente affrescate in contrasto con l’inquietudine di fantasmi di morte e di corpi straziati: le forze che si scontreranno saranno l’anelito alla vita e la sua brutale mortificazione.
Prima di entrare, al pubblico veniva fatto indossare un camice da chirurgo, come a rivestirlo della perturbante consapevolezza di non potersi facilmente chiamare fuori da ciò a cui avrebbe assistito – diventandone parte come testimone partecipe – rispetto al quale, tuttavia, era invitato a mantenere un ‘chirurgico distacco’. In quanto psicoanalista, mi è venuto in mente Freud che paragonava il trattamento analitico ad un intervento chirurgico, ed era solito utilizzare come metafore dell’atteggiamento analitico di neutralità ed astinenza appunto quella del chirurgo e dello specchio. Tutto questo, prima che la psicoanalisi trovasse il coraggio di riconoscere il controtransfert dell’analista, e trovasse il modo di utilizzare proficuamente – ai fini del trattamento – le complesse reazioni emotivo – affettive che si attivano nel terapeuta come risposta globale all’incontro clinico con il paziente, e che animano il campo condiviso.
Ed anche in quel teatrino anatomico, il distacco era ben difficile da mantenere, di fronte ad un cadavere che a poco a poco riprende vita, o ripercorre in una memoria onirica palpitante di emozioni, sogni, desiderio, il tragico epilogo di una esistenza ancora da compiersi. Difficile anche rimanere impassibili, in quello spazio di intimità fisica forzata con i corpi degli attori, quando la bravissima Lucrezia Guidone recita a pochi centimetri dai tuoi occhi e ti fissa come interpellandoti, si appoggia al tuo scranno e sembra leggere solo a te quella lettera fatale: o si dibatte come una farfalla ferita nel rapido alternarsi di stati emotivi e mentali, invano cercando di trovare un senso che riscatti l’impensabilità della richiesta materna di immolare il suo giovane corpo, e con esso i suoi sogni di fanciulla e la trepidante attesa del futuro. Quella richiesta decreta la morte psichica di Else: sono i suoi stessi genitori a mortificare – a dare morte – al suo Sé, a destituire di ogni valore i suoi desideri e le sue aspettative vitali. Il corpo di Else è per loro pura merce di scambio, dissociato da pulsioni, bisogni, sentimenti e fantasie che lo abitano e che essi mostrano di ignorare.
Solo lacrime di coccodrillo sul cadavere di Else, come sembra suggerire l’enigmatico e spiazzante ‘fermo immagine’ iniziale che accoglie gli spettatori nella piccola sala: un lenzuolo copre un corpo disteso sul tavolo anatomico, e all’estremità, in piedi immobile, un uomo con il capo mostruosamente celato da una nera maschera da coccodrillo.
Lo spettacolo comincia mostrandoci che una catastrofe è già avvenuta, si tratta di ripercorrerla. L’uomo – coccodrillo farà lentamente scivolar via il lenzuolo che copre il corpo morto di Else – corpo merce, corpo oggetto, corpo strumento privato di volontà propria – e quel corpo comincerà a balbettare e a sciogliersi dal gelo della morte, come una Giulietta che si risvegli nel sepolcro o una Molly Bloom che ripercorra in una memoria quasi onirica i turbamenti erotici della giovinezza.
Ogni particolare è attentamente pensato, e denso di possibili rimandi: il lenzuolo è una sorta di sindone, ma laica e ‘scandalosa’: è macchiato da chiazze che abbozzano impronte di membra, di colore blu. Come nelle Antropometrie che l’artista Yves Klein realizzava nelle trasgressive performance degli anni ’60, utilizzando il corpo nudo delle modelle spalmato di colore blu – il blu Klein – come ‘strumento inerte’, ‘pennello’ vivente con cui dipingere la tela.
Uno spettacolo dunque di intense suggestioni emotive e denso di aperture associative a diversi livelli simbolici, che rimane dentro a lungo. Si esce toccati e grati per l’esperienza che la magia teatrale ci ha concesso di vivere, e pieni di ammirazione per la prova di bravura non solo della giovane attrice protagonista, ma anche di Martino D’amico che interpreta Dorsey, che hanno dato corpo e anima alla magistrale operazione di regia di Federico Tiezzi.
Maria Grazia Vassallo Torrigiani