(o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro)
Un’idea di Fabrizio Gifuni (da Carlo Emilio Gadda e William Shakespeare)
Con Fabrizio Gifuni; regia di Giuseppe Bertolucci
Teatro Vascello. Roma
Una scena vuota, spoglia essenziale.
Sul fondo, una sedia desolata, come un lettino, lasciato come suggerimento della condizione attraverso la quale poter ricordare e delirare. Una sedia sulla scena, tutt’intorno il silenzio, tagliato da una luce fredda, elettrica, che delimita l’area interna ed esterna nella quale rappresentare la propria vita, e al di fuori della quale non v’è che il gesto incomprensibile, o l’identificazione folle a un altro da Sé, amletico.
E’ questa l’ambientazione nella quale si svolge la catabasi interiore di Carlo Emilio Gadda (rappresentato sulfureamente, splendidamente da Fabrizio Gifuni al Teatro Vascello di Roma), "l’ingegnere milanese che va alla guerra"(1) , che ritorna in guerra con i propri ricordi, i propri commilitoni, contro i nemici austriaci, i superiori, i politici e i personaggi storici di quella Prima Guerra mondiale alla quale egli partecipò come sottotenente, sulla linea difensiva dell’Isonzo: guerra interiore con i propri fantasmi, con le proprie emozioni, le proprie resistenze. Con se stesso.
E’ una discesa agli inferi, questa del "Gaddus", un’analisi coatta di quelle speranze, di quei lutti e di quei progetti che la Prima Guerra mondiale (come qualunque "guerra totale" farebbe) ha siderato e rimosso, e che ora ritornano alla coscienza a causa di quell’indolenza, di quel lago interiore immobile che il protagonista denuncia come propria condizione esistenziale. Non la condizione che residua dal conflitto (anche doloroso, ineluttabile) di Amleto, dal "dibattito" tra vivere, agire, combattere oppure lasciarsi sopraffare dai dardi della fortuna, ma quella che residua quando tutta la vita emozionale, la ricchezza potenziale, di un uomo s’è ridotta e svuotata in parole, in nenia incomprensibile, nel silenzio.
Su questo silenzio, sulla sua piatta superficie riaffiorano dal fondo della rimozione lo struggimento e la nostalgia per i propri ideali traditi, per la Patria dileggiata e sconfitta a Caporetto, per i commilitoni generosi, mandati a morire da "duci e generaloni" inetti e colpevoli, per la morte dell’amato fratello Enrico, e per se stesso, ridotto ad ombra, ad "amleto pirobutirrico", costretto negli anni avvenire ad avere sempre viva la "cognizione del dolore", dal quale – se la scena iniziale, primaria, è quella di una guerra che lascia un mondo in macerie – non si può uscire, né scegliere, o volere, o potere.
Al meglio, si può raccontare, rappresentare.
E’ ciò che succede, nello scarto continuo tra coscienza e sogno, tra passato e presente, tra parole e gesto.
Il gesto dell’attore, teso, tesissimo fino allo spasmo, allo scatto, alla caduta repentina, all’opistotono: scarica motoria che fa da contrappunto vitale all’inedia interiore che il giovane/vecchio Gadda denuncia, ma che è anche il persistente segno della vita che continua, nonostante la scissione che lo rende insensato e disarmonico: isteria o stereotipia.
E poi la scena. Cruda, scarna, essenziale. Una sedia, s’è detto, immersa nella penombra, talvolta tagliata da una luce che ne delimita un’area. In questa area-altra, sospesa, la voce dell’attore cambia, diventa straniata, sintomo di compromesso tra la vita delle emozioni non rimosse e quella delle istanze che un tempo, "da giovane, mi facevano diverso".
Il dolore non è mai fatto privato.
Non lo è nella sua "origine" – così suscettibile alla distanza dell’Altro – e non lo è nelle sue infiltrazioni pubbliche. Così, lo spettatore e l’analista sono chiamati a farsene carico, a dargli significato, a restituire un affetto che possa modificarlo, attenuarlo, sublimarlo.
E’ il destino del dolore di Gadda come di ciascuno di noi: capitare in un momento storico, in una possibilità espressiva, in una condizione di ascolto propizii che impediscano la desertificazione dell’anima, la maschera di Ifigenia, la maledizione di vivere di passato, soltanto di passato.
In questa lunga seduta di analisi, in cui Gifuni, e ogni soggetto, si mette a nudo di fronte o di schiena al proprio giudice, analista, spettatore, in questa lenta risalita attraverso le perdite, l’atto di conoscenza "con che nu’ dobbiamo riscattarci – dice Gadda in Eros e Priapo – prelude la resurrezione, se una resurrezione è tentabile da così spaventosa macerie".
(1) C.E.Gadda , giornale di guerra e di prigionia , Garzanti, Milano,1999