Dario Fo –
regista, attore, scenografo, drammaturgo, nel 1997 Premio Nobel per la
letteratura – ha 84 anni.
84 anni che
tutti interi dimostra nelle cose che scrive e recita, perché dense di storia,
di esperienza, della saggezza dei grandi vecchi che molto hanno visto e molto
hanno da insegnare.
Ma non li
dimostra affatto nel suo impetuoso affabulare, nel suo spendersi generoso per
ricordarci che è vietato calpestare i sogni, nel suo non darsi per vinto
rispetto al desiderio che ci sia modo di dare più spazio a etica, estetica,
autenticità, coraggio, oltre che a sapienza: è stato lui, infatti, a "reinventare"
il grammelot, una vera e propria
lingua frutto dell’ibridazione dei dialetti dell’Italia Settentrionale.
Si tratta di
un linguaggio teatrale che affonda le sue radici nella tradizione della
Commedia dell’Arte, ed è costituito da suoni che imitano il ritmo e l’intonazione
di una lingua reale.
Ma le radici
del suo sapere sono a loro volta frutto di ibridazione: diplomatosi all’Accademia
di Belle Arti di Brera, a Milano, ha poi lavorato per la radio, per il cinema,
per il teatro e per la televisione.
Ma il suo
teatro era di strada. Dario Fo, con Franca Rame e la compagnia Nuova scena, recitava nelle piazze,
nelle case del popolo, nelle fabbriche. E nei manicomi, collaborando alla loro
chiusura.
Nel 2005 gli
viene attribuita la laurea honoris causa
dall’Università della Sorbona di Parigi, nel 2006 la riceverà dall’Università
La Sapienza di Roma, che l’aveva data in precedenza solo a Luigi Pirandello e a
Eduardo De Filippo.Nel lavoro
di Dario Fo, sono molte le assonanze con quello dello psicoanalista.
Ad esempio, i suoi spettacoli si articolano
spesso in una struttura a matrioscha, in cui una storia esterna ne contiene un’altra,
che è in relazione con la prima e con la prima interloquisce mentre ne è
contenuta.
Un po’, mutatis mutandis, il rapporto che lega
il processo primario al processo secondario, o, anche, un po’ come le storie
che possono dipanarsi nella seduta psicoanalitica nelle direzioni più
impreviste, ostiche, ardue, secondo il metodo delle libere associazioni.
D’altronde, come ricorda
Petrella (1985), fin dai suoi esordi la psicoanalisi ha visto nel teatro un
luogo privilegiato per l’osservazione dell’interazione umana. La tragedia
infatti è la rappresentazione antica di conflitti sempre presenti e attuali:
quelli tra scelta e destino, tra libertà e caso, tra noto e ignoto
In L’Io e l’Es (1923), poi, Freud lavora sul "come" del meccanismo
rappresentativo, facendo dell’Edipo una struttura dinamica che inaugura il
processo di civilizzazione in quanto "funziona
come una macchina teatrale che ‘mette in scena’ il bambino: la ‘macchinazione’
coglie il figlio nella sua posizione originaria di oggetto, in quanto vissuto
dal desiderio parentale, e lo accompagna sino al suo insediamento, come
soggetto, al posto del padre" (Vegetti Finzi S., 1974).
Inoltre, è proprio Freud, in Personaggi psicopatici sulla scena
(1905), a indicare la finalità metapsicologica dell’interesse da parte della
psicoanalisi per il teatro: "comprendere
come il dramma riesca a far scaturire fonti di piacere e di godimento dalla
nostra vita affettiva, allo stesso modo che il comico, il motto di spirito e
simili lo fanno sgorgare dalla nostra attività intellettuale la quale, per
altro verso, aveva reso inaccessibili molte di queste fonti".
E ancora: spesso nel teatro di Fo è il matto che fa uscire scomodi cadaveri
dagli armadi, in modi paradossali, farseschi, imprevedibili, come accade nella
vita quotidiuana con i lapsus e nei
sogni, nei quali è impossibile barare. Non a caso Freud, invitato a portare la
Psicoanalisi in America, commentò che essi non sapevano che avrebbe portato
loro la peste!
Come quando si ha a che fare con l’inconscio, anche nel teatro di Dario Fo è a
personaggi "da sottobosco" che spetta far emergere verità fastidiose e
inquietanti: prostitute, avvinazzati, matti. Infatti, il suo lavoro è stato
anche letto in chiave pirandelliana, dal momento che i protagonisti delle opere
di entrambi gli autori annaspano in contesti deumanizzanti, costretti, per
sopravvivere, a cercare di smascherare false verità calate dall’alto.
Alla stessa
stregua di Sciascia, Totò, Don Milani, Saviano, Dario Fo nel nostro paese ha svolto
un’opera di disvelamento del linguaggio ambiguo, eufemistico, accattivante e
seduttivo di cui si avvale il potere, mettendo in evidenza le connivenze che
caratterizzano molti degli equilibri politici.
Intervista
●1 DSdF:
È risaputo che Lei è stato avversato tanto dalla Chiesa quanto dal Partito
Comunista, che Le hanno creato molte difficoltà a trovare ambiti teatrali
adatti al suo lavoro. Ritiene che questa Sua inusuale capacità di collezionare
ostracismi e opposizioni tanto a destra quanto a sinistra – capacità che lei
condivide con Roberto Saviano – sia da riferirsi al fatto che messaggi come i
suoi destabilizzano equilibri ideologici e politici fondamentalmente ambigui,
solo in apparenza contrapposti, che rendono scomode e inquietanti
presenze come la sua?
Dario Fo: Ritengo l’espressione non del
tutto corretta.
Diciamo che sono
stato avversato, in certi momenti, non tanto dalla Chiesa quanto da alcuni
personaggi della Chiesa, in particolare in certe zone.
Infatti,
come ho verificato, in alcuni spazi e in certe province, ci sono persone –
vescovi, ma anche preti – aperti, che si divertono a vedere satira.
Ce ne sono,
viceversa, altri storicamente un po’ più ‘sgrinfi’, aggrappati solennemente
alla ritualità, alle tradizioni…
Questo
accade non solo nella Chiesa ma dappertutto, anche nei partiti, che in alcune
zone (per esempio, alcuni anni fa soprattutto, in Veneto o, in Lombardia, a
Brescia, Bergamo) si ripete in modo ossessivo.
Si tratta di
zone dove è stato impossibile per noi ottenere spazi per gli spettacoli, in
funzione di una sequenza partiti-chiesa dove tutti erano unanimi nell’opporsi
al nostro teatro e nel censurarci completamente, cancellando la possibilità di
mettere in scena i nostri lavori.
Probabilmente
il fatto di collezionare ostracismi e opposizioni tanto a destra quanto a
sinistra è in qualche misura in rapporto al fatto che la satira, quella vera,
condotta con sapienza, con conoscenza, fa scattare immediatamente: che cosa? La
chiarezza. Scopre l’ipocrisia.
Certo, ho
incontrato anche fedeli aperti e, soprattutto, ben disposti ad accettare
critiche o ironia, persone che ho visto godere moltissimo nel ridere, veri
cattolici apostolici capaci però di albergare dentro di sé il dubbio –
espressione, non lo dimentichiamo, di intelligenza -, che esplodono nella
risata in modo straordinario, e diventano sempre più attenti al nostro lavoro,
addirittura non ci abbandonano più, perché si sono sentiti da noi aiutati a
capire il significato o il doppio valore di certi aspetti, di
certe cose.
●2 DSdF: Quando, nel 1997, Le è stato
assegnato il Premio Nobel per la letteratura, tale scelta è stata motivata dal
fatto che Lei, «seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il
potere restituendo dignità agli oppressi».
Lei ritiene
che si possa parlare del nostro tempo come di un medio-evo, un’epoca di passaggio tra momenti storici diversi, un
tempo di Mutazioni antropologiche ? (1)
Dario Fo: Certo!
DSdF: Le chiedo questo per due ragioni.
Innanzi
tutto, potrebbe dirci perché è d’accordo sul fatto che si possa parlare del
nostro come di un tempo di Mutazioni
antropologiche?
Dario Fo: Per via della mutazione di due gruppi,
quello dei giovani e quello degli operai.
Entrambi
questi soggetti hanno cambiato registro.
Entrambi si
sono resi conto del fatto che il Potere li ha messi al muro.
Prima il
Potere li blandiva, dava loro riconoscimenti, aiuti, agli operai ad esempio
scuole legate alla fabbrica, ai loro bambini vacanze al mare, organizzava
passeggiate culturali.
Si è
trattato di un lungo periodo di paternalismo, durante il quale il Potere si costituiva
per loro come una nuova Madre, una nuova scuola, come un’organizzazione
superiore allo Stato, più importante, più viva, perché entrava nelle famiglie.
Si è trattato
di un atteggiamento che si è protratto fino a quando non ne è subentrato, a
causa della crisi economica, un altro, di completo sfruttamento, totale, che ha
portato allo scoperto il volto autentico del Potere, e allora si è andati giù
pesanti, il diktat esplicito è stato: "O fai quello che ti diciamo noi, dal
momento che tu – giovane, operaio – non hai più diritti tuoi, quelli classici,
della storia del movimento operaio, perché noi te ne imponiamo altri, prendere
o lasciare, oppure raccogliamo tutte le nostre carabattole e andiamo a far
macchine in Ungheria, in Arabia Saudita, in Messico o non so dove…".
Sono
cambiamenti epocali, vere mutazioni, che ci spiazzano…
Ad esempio, è
sparito il Partito Comunista poiché ha cessato di essere il Partito della
classe operaia.
Con la
conseguenza che è stato cancellato un fatto culturale fondamentale, cioè la
coscienza di un’alta dignità morale radicata nella sicurezza di avere il
Partito e il Sindacato (che è l’espressione del Partito, non lo dovremmo mai
dimenticare), alle spalle.
Questo ha
spiazzato le persone, tant’è vero che la Lega ha trovato dei buchi enormi nei
quali si è infilata, catturando proseliti e affiliati anche tra gli
operai.
DSdF: Infatti…
Tornando
alla motivazione in base alla quale le è stato assegnato il Premio Nobel per la
letteratura, e cioè il fatto che Lei, «seguendo la tradizione dei giullari
medioevali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi», mi
interessa chiederLe se Lei condivide l’idea che si possa "restituire" dignità agli oppressi: ne hanno mai avuta?
A mio
parere, Lei non restituisce ma apre l’oppresso alla dimensione della
dignità, un po’ come Don Milani con Lettera
a una Professoressa. Entrambi dando vita a un fatto inaudito, ragione,
probabilmente, della inusuale capacità di risultare invisi a destra e a
sinistra….
Dario Fo: No, no, no, no, sono in completo
disaccordo. La dignità… Io ho avuto nonni, zii, parenti stretti, che facevano
gli operai, i contadini, ed erano colmi di dignità….
DSdF: Con la mia domanda intendevo
sottolineare il fatto che non si può restituire qualcosa che non ti è stato
riconosciuta per quanto tu ne abbia…
Dario Fo: Mi viene in mente a questo
proposito una frase, che non dimenticherò mai, una cosa straordinaria …
Eravamo in
Sardegna, e avevamo deciso di devolvere l’incasso della serata alla lotta nella
quale erano in quel momento impegnati alcuni operai che erano venuti a vedere
il nostro spettacolo.
Alla fine,
queste persone ci hanno ringraziato non tanto e non solo per i soldi che
avevamo raccolto per loro, ma, come mi disse uno di loro: "perché mi ha fatto
ricordare che ho una dignità".
Allora ce l’ha!
Che cosa ne
possiamo dedurre? Che il Potere riesce a spegnerti, ti fa sentire mortificato.
Io ho la
dignità, sotto, ma occorre che qualcuno mi dia una fiammata, una
sollecitazione, perché me ne possa
ricordare…
●3 DSdF: Infatti, occorrono fiammate!
Risate come fiammate… A questo proposito, Freud, nello scritto Il motto di spirito (1905), ha come Lei
affermato che "la risata, il
divertimento liberatorio sta proprio nello scoprire che il contrario sta in
piedi meglio del luogo comune, anzi è più vero o, almeno, più credibile", mentre uno slogan del ’68 che mi
era molto caro recitava:"Sarà una risata
che vi seppellirà".
Dario Fo: Ah! Questa battuta faceva parte di
un mio spettacolo ma è diventata storica come pronunciata, addirittura, da Mao
Tze Tung… E va bene, ho regalato una battuta a Mao Tze Tung! Perché no? Sono
talmente prolifico che posso permettermelo!
DSdF: Davvero!!! Era sua!! Non lo sapevo…
Proprio a proposito della Sua inesauribile fertilità creativa, distruttiva dei
luoghi comuni e delle ideologie cui questi sono funzionali, Le chiedo se oggi,
purtroppo, più che a risate che seppelliscono non sottostiamo a risate che
consolano… risate buone per più ‘padroni’ e per più stagioni, che ci fanno
apparire tollerabili orrori, ce li fanno digerire senza che ci rendiamo conto,
mentre ridiamo, che stiamo a nostra insaputa supportando forme di
pensiero che non condividiamo affatto. Lei pensa che le cose stiano davvero
così?
Dario Fo: Si. E proprio questo tipo di
risata bisogna combattere.
Ci sono due
cose che dobbiamo combattere.
Prima di
tutto, l’idea che basta farci una risata che va via tutto, tutto si lava e
torna pulito… No. Le cose non stanno così!
E poi, vanno
combattute le cadute nelle trappole dell’illusione.
La risata è
importante perché ti dà la forza di ribellarti, di smascherare, di distruggere
e perdere il rispettoso ossequio verso il Potere. Quell’ossequio che ti
ingessa, ti blocca.
La risata che
seppellisce ti libera dall’ossessivo bisogno di essere protetto, sottoposto. La
risata di cui lei mi chiede, che a nostra insaputa ci fa supportare
forme di pensiero che non condividiamo affatto, è figlia della grande abilità
della tecnica usata dalla televisione,che ti regala uno sghignazzo come da ricco perché ti vedi finalmente addosso, per
esempio, dei sederi splendidi, che nella tua realtà puoi solo sognare, ma
mentre sei davanti allo schermo sono lì, quasi li tocchi, fai anche tu parte di
quel mondo, sei un guardone finalmente felice, che dal buco della serratura,
anzi, anzi, dalla finestra!, vedi tranquillamente cose straordinarie, e queste
cose devono essere sempre vive, per cui è bene che i personaggi litighino tra
di loro, si odino, si insultino, deve apparire tutto vero, una verità tragica
quasi, e poi naturalmente fanno la loro comparsa il sorriso, l’incidente – il
seno che esce dalla scollatura e si proietta fuori dallo schermo…
Soprattutto,
ogni tanto, compare una bella mappata di denaro che ti piomba in casa, ed ecco
che il mondo delle illusioni è perfetto, c’è la fiera, c’è il carnevale, c’è il
contrario della tua realtà, chiunque può diventare ricco, non è vero che la
vita è una cosa bloccata, non è vero che come sei nato morirai, non è vero che sei
fottuto, dal momento che c’è ogni tanto qualcuno che emerge, che ha fortuna…
E poi, in
trasmissioni come il Grande Fratello, riesci ad avvicinare delle belle ragazze,
a fare quattrini, a cambiare mestiere, accade che ti chiamino e puoi arrivare a
fare anche il cinema e poi, chissà, magari sposi una donna stupenda che ha
anche i soldi….
●4 DSdF: Ma infatti io credo che a Lei
il Nobel sia stato dato perché ha scelto di restare nell’altra metà del cielo
dei sogni….
E arrivo
alla domanda successiva.
Da adulti,
chissà perché, sembra che imparare a stare al principio di realtà equivalga
solo a smettere di sperare l’insperabile
(Eraclito), tant’è che al Piccolo
Principe di Saint Exupery tutti gli adulti ripetono di vedere, nell’immagine
che egli mostra loro, nient’altro che un cappello mentre in realtà si tratta
del serpente boa che ha mangiato un
elefante…
Forse tra le
ragioni per cui Le è stato assegnato il Nobel sta il desiderio di premiare il
suo essere rimasto un Piccolo Principe,
che, paradossandoli, sgomina Papi che rappresentano Dio e Papini che rappresentano Dei
e dimostra che si può ancora sperare l’insperabile… Lei che ne pensa? Ritiene
che già in Non si vive di solo pane,
il lavoro che ha scritto con Franco Parenti nel 1956 per la radio, prendesse
forma quello che poi diventerà il Suo particolare teatro, che paradossa le stereotipie?
È d’accordo sul fatto che spesso è la capacità di sognare a far sì che uomini
come Gramsci non abbiano smesso di credere, in tempi di orrore, nell’ottimismo
della ragione, che gli permetteva, in carcere, di continuare a coltivare, per
sé e per i suoi figli, gli "spazi dell’immaginazione" (Karelli,
1955, 47-48)?
Non si vive di solo pane, inoltre, evoca un altro slogan di
grande impatto emotivo, quello che spingeva a esigere dalla vita non solo pane ma anche rose…
Dario Fo: Sono d’accordo,
rose oltre a pane per me è una costante, e non solo per me ma, addirittura, per
la nostra specie, come ha mostrato la ricerca antropologica.
Pensi che
perfino in periodi molto lontani da noi, all’origine della nostra storia di
esseri umani, quando vivere era davvero molto complicato, l’uomo aveva bisogno
di gioco, come mostrano ad esempio i cacciatori di certe tribù primitive che si
mimetizzavano nelle pelli di alcuni animali e ne imitavano i movimenti, l’attitude, allo scopo di entrare nel loro
branco, in grande prossimità con essi, e, abbracciandoli, portarne fuori dal
branco alcuni esemplari. Esprimendo, in tal modo, un grande senso di ironia e il
grande piacere di far qualcosa che è il contrario della logica.
Alla stessa
stregua, sempre studi antropologici hanno mostrato che in molte culture
arcaiche si riteneva il bambino nato,
divenuto essere umano, quando la
comunità riusciva a far scoppiare in lui la risata.
C’erano, tra
i primitivi, cerimonie finalizzate proprio a questa sorta di battesimo: la
tribù si raccoglieva intorno al bambino impegnandosi nella produzione di lazzi
e giochi, fino a quando finalmente il bambino si metteva a ridere per la prima
volta.
Allora, la Dea
del Parto si poteva allontanare dal bambino, se ne poteva andare perché non era
più necessario stargli accanto: era ‘nato’ un uomo.
Si tratta di
esempi che mostrano che nella cultura, anche nella più arcaica, nella più elementare,
si riteneva necessaria fin dai primi giorni di vita, per nascere uomo, la comparsa della risata, dello sghignazzo, del
gioco, del paradosso, dell’assurdo, del diverso
vivo. Era una necessità fondamentale.
Già in epoca
preistorica all’essere umano non era
sufficiente cacciare, predare, avere una femmina, o, viceversa, per la femmina
nelle società matriarcali avere un maschio.
Tutti
aspetti oltre modo importanti, ma ridotti a cose inerti, non sufficienti, se
privati di immaginazione, di fantasia: del potere
della fantasia.
●5 DSdF: Coltivare l’immaginazione
equivale alla capacità di trovare la forza di disidentificarsi da
rassicuranti saperi consolidati per condurre esplorazioni imprevedibili
rispetto all’ovvio (Amati Sas, 1997): le mele cadono sotto lo sguardo
dell’uomo da che mondo è mondo, ma "bisogna
essere un po’ folli per porsi delle domande sulle mele che cadono"
(Chasseguet-Smirgel, 2002, 7).
In caso
contrario, può accadere, come a Cristoforo Colombo, di non poter scoprire d’aver
scoperto l’America (2) "Spazi dell’immaginazione" dunque, per
resistere al"la bonaccia indifferente,
densa/" (Karelli, 1955, 47-48) di una mentalità che non sa incuriosirsi, pensare, come se pensare fosse un rischio (Kristeva).
Lei, viceversa,
trasmette in ogni sua comparsa l’importanza della parola, che salva dalla morte
psichica quando tutto pare essersi
esaurito dentro di sé (Ritsos, 1969, 107 (2) ), e svolge per noi questa
funzione. Ma come ha fatto a continuare a credere nell’invisibile agli occhi, a
restare un bambino senza cedere alle lusinghe della compiacenza, dell’adesività?
Dario Fo: È stato uno
psicoanalista, Bruno Bettelheim, a dire che non è importante nascere bambino, la
cosa difficile è rimanere un bambino,
poiché ciò che bisogna imparare è ritornare in ogni momento al candore dell’infanzia,
quello che avevamo da bambini, per non perdere il bambino dentro di noi, non
perderlo mai…. Il candore che ci fa essere quello che siamo…
DSdF: Non fare una scissione, come si
direbbe in psicoanalisi…
Dario Fo: La
scissione che invece vorrebbe quel modo di dire – "Siamo seri!" -, al quale ho sempre risposto: "Ma neanche per idea!"
●6 DSdF: Adesso, una domanda un po’
scomoda.
Durante la seconda guerra mondiale Lei si arruolò volontario tra i
paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate nella Repubblica
Sociale Italiana, né l’ha
mai negato, ricordando a chi non c’era i suoi diciasette anni.
A tale
proposito, Le chiedo se ritiene che nella costruzione della propria moralità il
punto non consista tanto nell’essere stato sempre solo dalla parte giusta
quanto, piuttosto, nel potersi ‘ravvedere’, cambiare idea. Giovanna Giaconia
(1999), un’analista della Società Psicoanalitica Italiana, che ha curato con la
psicoanalisi classica adolescenti rinchiusi nel carcere minorile di Milano Cesare Beccaria per aver commesso gravi
delitti, mostra come ciò che conta è
pensare che "se sono colui che ha ucciso non per questo sarò colui che uccide".
Il che equivale, lei dice, a imparare a pensare
poiché è possibile tollerare il peso di certi ricordi dal momento che si èp
scoperto che si può cambiare.
Lei cosa ne
pensa? E in che termini ritiene che anche esperienze di cui ci pentiamo o delle
quali ci vergogniamo possono paradossalmente stimolare la creatività?
Dario Fo: Devo
specificare che però non ho mai evocato i miei diciassette anni a
giustificazione di quella scelta, non ho mai affermato "Avevo diciassette anni,
non capivo quello che facevo, non avevo in mente che…".
Anche se
senza dubbio, invece, in me c’erano dei buchi di consapevolezza, di conoscenza,
di sapere, c’erano la guerra, bombardamenti ogni giorno, a scuola andavamo
quando si poteva, ma la ragione di quella mia scelta non è dovuta a questi
buchi o a questi eventi.
Il fatto era
che il governo di allora, veramente un governo fantoccio, a un certo punto si
accorse che molto spesso i giovani se ne andavano sulle montagne, alcuni magari
per sconfinare in Svizzera, perché in Italia non trovavano più spazi adatti a
sé, anche così è nata la Resistenza, che non è mica comparsa organizzata, per
così dire, geometricamente.
Quelli erano
giorni di un papocchio tremendo, e il governo fantoccio s’accorse, appunto, che
i giovani sparivano.
Perché?
Perché, a
scaglioni di età – tutti quelli del primo semestre, ad esempio, del 1926, che
quindi avevano come me, allora, diciassette anni – i giovani dovevano andare in
Germania a rimpiazzare i tedeschi che avevano dovuto abbandonare le fabbriche
in cui lavoravano per essere arruolati nell’esercito.
Ma si poteva
evitare di andare in Germania (dalla quale rischiavi di non tornare più perché
nel ’44 le fabbriche erano continuamente bombardate, ne saltavano per aria ogni
settimana a decine), arruolandoti in qualche settore dell’esercito.
Ma dov’era
il trucco? Perché un trucco, naturalmente, c’era.
La
contraerea aveva poche postazioni di artiglieria, se ne facevi parte era
possibile restare nella tua zona, fare insomma l’imboscato, un imboscato della
contraerea che poteva andare a casa tutte le sere.
In questa
macchina sono cascati quasi tutti i giovani di allora.
Però –
questo era il trucco del governo fantoccio – una volta che eri inquadrato nell’artiglieria,
venivi passato all’artiglieria dei tedeschi, andavi a fare il servente di pezzo, come si diceva, dell’artiglieria
tedesca, della loro contraerea, e lì il numero dei morti era impressionante, una
cosa indescrivibile, di quei ragazzi ne moriva il settanta, ottanta per cento
ogni anno, per salvarsi si doveva mirare molto in alto, dovevi andare al
massimo …
Ecco perché
si scappava.
Anch’io, allora,
prima sono scappato, ma non trovavo un luogo in cui stare, e alcuni amici, già
imboscati nei paracadutisti, mi hanno suggerito di arruolarmi volontario tra i
paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate.
Qui, avevi
il vantaggio di farti una scuola di quaranta giorni: per quaranta giorni (ed
eravamo alla fine della guerra) tu potevi esistere coperto, protetto e
indisturbato.
Certo,
rischiavi di spaccarti una gamba, o che non ti si aprisse il paracadute, però con
i rischi corsi altrove non c’era confronto…
Da lì poi
sono scappato di nuovo, quando ho fatto il mio piccolo primo lancio, un lancio
da ridere rispetto a quelli che si facevano allora, me ne sono tornato dalle
mie parti e mi sono andato a intrippare
in montagna, dove non ho trovato nessuno e mi sono fatto un mese da solo dentro
una stamberga, dove ogni tanto mi portavano da mangiare…
Questa è la
mia storia, che ho descritto in un libro (Fo, 2002), Il paese dei mezarat (i mezzitopo,
cioè, in lombardo, i pipistrelli), non la sto raccontando per la prima volta a
lei. Fu un modo – quello che trovai io – per salvare la pelle…
●7 DSdF: Grazie.
Un’ultimissima
domanda: me la consente?
Dario Fo: Si
DSdF: Di carattere più personale…. Ha incrociato
nella Sua vita e nel Suo lavoro la psicoanalisi? Se si, ha voglia di raccontare
e di dire cosa ne pensa?
Dario Fo: Si, me ne
sono interessato sia perché fa parte della letteratura sia perché è uno
strumento prezioso per capire i significati di molte cose; soprattutto, per
capire i valori.
Per questo,
ho letto, guardato, ma, soprattutto, mi sono fatto coinvolgere da alcuni medici
nel lavoro di apertura dei manicomi, mi sono trovato a fare degli spettacoli in
mezzo ai degenti e ai professori, dove non capivo mai chi erano i degenti e chi
i professori…
Per
concludere, direi che quell’esperienza, la vicinanza ai pazienti, è stata per
me una via per avvicinarmi alla psicoanalisi, per studiarla.
a cura di Daniela Scotto di Fasano
Bibliografia
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Vegetti Finzi S., Il lungo
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1 – Come titolava il numero 2/2008 di Psiche, una delle due riviste della Società Psicoanalitica Italiana.
2 – A
tale proposito Lei, nel 1992, anno della celebrazione dei cinque secoli dalla
scoperta dell’America, ha portato in scena Johan
Padan a la descoverta de le Americhe, dove un povero bergamasco, cercando
di sfuggire all’ Inquisizione, giunge in modo rocambolesco a scoprirle davvero
le Americhe!
3 – Quando esauriva tutto dentro di sé e
attorno/ e gli sembrava di affondare, – allora si ricordava di/ pronunciare/
una parola sola: statua (e, naturalmente, intendeva/ una statua greca, nuda). E
subito intorno a lui/ si aprivano isole-nomi; un ginocchio brillava/ di fronte
al mare; la faretra del giovane arciere/ si scorgeva sepolta sotto una
montagnetta di sabbia fine./ Si vestiva, usciva nell’Agorà. ‘Buongiorno’,
diceva./ Macellerie, negozi di vasi, fruttivendoli. Comprò dell’uva/ liberando
quel gesto profondo, calmo, inesauribile/ di un braccio di marmo amputato."
Questa poesia, intitolata La parola,
risale all’epoca della dittatura dei colonnelli in Grecia, durante i quali
Ghiannis Ritsos era relegato in precarie condizioni di salute nel campo di
concentramento di Partheni, nell’isola di Leros, dove era stato deportato per
la sua fede marxista.