di Erich- Emmanuel Schmitt
Regia di Valerio Binasco
A cura di Daniela Lagrasta e Celestina Pezzola
Non è facile riuscire a trovare i biglietti per assistere alla rappresentazione de Il visitatore di Eric-Emmanuel Schmitt, con adattamento e regia di Valerio Binasco, riproposto in questa stagione teatrale italiana, dopo il grande successo di pubblico e di critica decretatogli durante la scorsa tournè (spettacolo segnalato anche dalla collega Guadagno su spiweb). Ma già si comprende il “tutto esaurito” che si registra ad ogni replica, all’affievolirsi delle luci in sala, quando subito ci si trova proiettati nello spazio ed atmosfera delle crescenti emozioni che fino al termine suscita questo atto unico appassionante, commovente, sapiente, pervaso di acuta ironia tipicamente legata al witz ebraico. Complici l’intensità del testo del drammaturgo belga che con questa pièce ha vinto tre Premi Molière e la profonda sinergia ed empatia sulla scena dei maggiori protagonisti, Alessandro Haber, nei panni di Freud, ed Alessio Boni in quelli del Visitatore. E complice la scelta scenografica così evocativa che sdoppia il palcoscenico in luce e buio: una parte immersa nell’oscurità e penombre dei fondali e meandri del retro del palcoscenico, un’altra che mostra lo studio di Freud a Vienna, in Bergasse Strasse, 19. In questo lato il presente, la realtà, la storia, nell’altro il tempo della notte, del sogno, del perturbante: “questo tempo che non passa” eppure è stato ed è già nell’avvenire, il tempo dell’inconscio, il tempo della seduta.
In una metà del palco è dunque il 22 aprile 1938, da un mese l’Austria è annessa al Terzo Reich (Nota 1) dalla finestra dello studio, confine tra mondo esterno-interno, giunge l’eco oppressiva del marciare dei nazisti sui selciati di Vienna, al ritmo trionfante dei loro inni e canti dell’odio. Freud è con la diletta figlia Anna, tormentato dal suo cancro alla gola come dal doloroso dilemma se lasciare la sua città amata e tutti i suoi affetti, purché ceda alla richiesta di firmare un documento che avalli una vergognosa pretesa di equità da parte delle autorità tedesche e della Gestapo. Nello studio, come ormai più non appartenesse al suo legittimo proprietario, irrompe un ufficiale che al colmo dello sprezzo e prepotenza, trascina fuori Anna per un interrogatorio alla Gestapo.
Ed è allora, proprio a quel Freud rimasto solo, all’uomo, al padre, allo psicoanalista, allo studioso, allo scienziato, tremante, barcollante, travolto da dolore e cedimento delle proprie coordinate e sicurezze, che appare dalla zona del buio, sul confine tra illusione e realtà, il Visitatore misterioso, lo Sconosciuto, che viceversa dimostra di conoscere le intimità del passato di Freud e già il suo futuro, che riesce ad entrare in ciò che è più recondito ed intimo, nel segreto dei suoi pensieri, dei suoi desideri, delle sue paure. Un inatteso Ospite che sa svelare le ambizioni e che pure sa vivere e comprendere sentimenti di dolore e di speranza; che sa disquisire abilmente sulle teorie dello psicoanalista, sulla disciplina scientifica, sul suo scritto in fieri, l’uomo Mosè e la religione monoteistica, che argomenta su fede e ragione, e che sa instillargli convinzione e dubbio, come soltanto un alter ego saprebbe fare, o come un folle, …o come Dio. Ed anche se fosse Dio, il Visitatore come un Uomo, come Freud, racconta le proprie debolezze e paure, conosce la solitudine, l’esilio: non ho né inizio, né fine, non ho né padre, né madre, ha bisogno dell’Altro e del suo sguardo: “ I pazzi sono sempre dei bambini che nessuno ha mai guardato”,“tutta la vita è un tradimento, come la madre che prima ti culla e poi ti abbandona” sussurra il perturbante Visitatore, come chi lo ha davvero vissuto.
Il contraddittorio fra i due protagonisti sulla scena si fa così serrato, vivace ed incalzante, ben visibile la profondità del reciproco ascolto, è così evidente l’onestà, ma anche il piacere di ognuno di sapersi mettere anche dalla parte dell’altro, che allo spettatore appare chiara quanto l’unica possibilità di uscita per “ognuno che sta solo sul cuore della terra, trafitto da un raggio di sole” (Quasimodo), possano essere soltanto la parola, la parola che tocca (Quinodoz, 2004), la parola che cura e l’incontro di uomini che parlano, comunicano, che hanno una specie di devozione per l’umana dote del dialogo e che soltanto in questo modo sanno di poter cambiare se stessi e il mondo, come dicono gli stessi attori ed il regista durante l’incontro con il pubblico che ha preceduto lo spettacolo. <Perfino Dio, che a volte si pone come un povero diavolo, si racconta come un Dio “sempre solo, che ha creato tutto e tutti ma non ha nessuno, che prova una noia e una solitudine atroce” e ringrazia Freud di averlo “ascoltato” .
Come pure ci colpisce sulla scena la comunicazione “fisica”, quella fra corpi: quello del Visitatore-Dio che si muove con la leggiadria di un elfo, con agilità e destrezza, quasi non avesse peso, non fosse materia, in contrasto con il corpo greve di Freud sulle gambe appesantite dal carico degli anni e del dolore, incurvate e instabili per la malattia e la morte ormai prossima. Quasi Haber si rifacesse a quanto scrive di Freud Virginia Woolf nel suo diario dopo l’unica volta che i due si incontrarono nel 1939: “Un uomo vecchissimo, contratto e rinsecchito: con un lampo di furbizia negli occhi, movimenti spasmodici paralizzati, difficoltà a esprimersi: ma vigile. Un potenziale immenso, un fuoco antico che si sta spegnendo”. Ma ci sembra che Haber così sia riuscito a personificare la lotta fra la caducità e l’agilità e dinamicità intellettiva di Freud che regge le “acrobazie” filosofiche e scientifiche che gli propone quel Dio –Visitatore.
Lo spettacolo accompagna intensamente lo spettatore nei meandri del dubbio, tra fede e ragione, ragione-follia, estraneità-familiarità, caducità ed ironia così ben espressi anche nella vignetta del soldato della Gestapo, che alla fine fuggirà davanti a quella foto del nonno di Freud, così simile a lui “come due gocce d’acqua” e dove ancora una volta il tema del doppio perturbante si affaccia sulla scena tanto da indurci a concludere con l’ultima frase con la quale il Visitatore si congeda da Freud e dal pubblico, uscendo da quella finestra dello studio (finestra sul mondo esterno-interno). “Fino a stasera pensavi che la vita fosse assurda. D’ora in avanti sai che è misteriosa”.
Difficile non condividere a fine spettacolo questa frase, così come l’entusiasmo espresso dal pubblico che ha applaudito gli attori con una intensità veramente commovente per più di dieci minuti. Tutti gli spettatori se ne sono andati arricchiti da questa opera portandosi dentro una sensazione speciale di pienezza. E noi ancor di più, ricordando le parole di encomio alla psicoanalisi che A.Boni ha espresso durante l’incontro con il pubblico, affermando che leggendo” IL Mosè e la religione monoteistica” ed altri scritti su Freud aveva potuto percepire e comprendere quanto sia importante la dimensione etica in psicoanalisi.
Nota 1 : Questa stessa collocazione biografica scelta da Schmitt della realtà storica e biografia ci ha riportato alla mente un altro intenso e commovente lavoro teatrale, portato in scena nel 2006 al Teatro Goldoni di Venezia, grazie alla originale iniziativa di Alberto Semi, allora anche neo Presidente dell’Ateneo Veneto, per celebrare il 150esimo anniversario della nascita di Sigmund Freud.Nel testo di Gerard Huber, “Vienna 1938-Finis Austriae”, recitato dalla compagnia del Teatro Stabile del Veneto, avevamo pure visto rappresentato il padre della psicoanalisi Freud ormai già in procinto di lasciare forzatamente Vienna per trasferirsi a Londra, veniva analizzato il senso che ebbe per Freud, per i suoi familiari, gli amici e colleghi, quella difficile circostanza. Il tema Si sviluppa a partire dall’incontro con un giovane fotografo che avrebbe voluto fare un servizio fotografico degli ultimi giorni di Freud a Vienna e che, invece, si ritrova “fotografato interiormente” da Freud, che lo introduce così a quella scienza non tollerata dal regime che già nel 1933 a Berlino, in Bebelplatz, aveva messo al rogo i libri di Freud.
Nota 2 : concetti ben sviluppati nel libro”La ferita dello sguardo ”, a cura di P. Cuppelloni
Bibliografia
Cuppelloni, P.(a cura di ) (2002) La ferita dello sguardo, Franco Angeli.
Freud ,S. L’uomo Mosè e la religione monoteistica : tre saggi 1934-38 , vol 11 Boringhieri 1979
Olivier Bell, A. (a cura di ) (1985) The Diary of Virginia Wolff, vol .5 ,1936-1941
Quasimodo, S.. (1994 ) Acque e terre. Tutte le poesie, Ed Mondadori,
Quinodoz, D. (2004) Le parole che toccano, Borla
Vedi anche: