IL DOLORE DELLE DONNE E IL FALSO POTERE DEGLI UOMINI
La stagione teatrale 2019 dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa riconferma l’attualità del mito
di Massimo De Mari
Per chi ama il teatro c’è un appuntamento imperdibile, nel periodo Maggio-Luglio, nel meraviglioso teatro greco di Siracusa, dove l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA) mette in scena una rassegna di opere della tradizione classica.
A leggere l’elenco delle opere rappresentate, degli attori e dei registi che hanno calcato questo prestigioso palcoscenico, si ritrova tutta la storia del teatro italiano.
Il tema di quest’anno, di straordinaria attualità, era “Donne e guerra”, attraverso testi che, a distanza di 2500 anni, ribadiscono oggi come allora quanto ogni guerra sia caratterizzata da follia e brutalità.
“Le Troiane” e “Elena”, tragedie di Euripide e “Lisistrata”, commedia di Aristofane, sono lavori portati in scena per la prima volta ad Atene nel giro di pochi anni, fra il 415 e il 411 a.C. e mettono al centro dell’intreccio narrativo tre donne di forte personalità, Ecuba, Elena e Lisistrata, capaci di dare un’impronta significativa alle storie di cui sono protagoniste.
Mentre gli uomini fanno la guerra e gli dei, arroganti e caratteriali peggio degli umani, si divertono a muovere i loro destini con capriccio e sadismo, le donne, che sono le prime vittime di ogni conflitto, resistono alla mancanza dei primi e alle torture dei secondi e riflettono in modo dolente, ironico e sarcastico sulle debolezze umane.
In “Lisistrata” Aristofane mette alla berlina la misoginia degli uomini e fa prendere il comando, per una volta, alle donne che non solo si negano al talamo nuziale ma occupano persino l’Acropoli.
La regia è di Tullio Solenghi, noto attore teatrale e televisivo, per la prima volta impegnato a dirigere e interpretare un testo classico a Siracusa.
In “Elena”, Euripide dà una sua versione visionaria delle vicende all’origine della decennale guerra tra greci e troiani; nel suo testo infatti la regina di Sparta si trova in Egitto, ospite del re Proteo, durante la guerra, mentre a Troia sarebbe andata solo la sua immagine che avrebbe ingannato tutti, il marito Menelao, a cui dunque sarebbe rimasta fedele e persino il suo presunto “amante e rapitore” Paride.
Un concetto ante-litteram del doppio a teatro del tutto sorprendente da ritrovare in un testo così antico, legato alla Sicilia da un legame particolare: Euripide, infatti, trae questa versione del mito dall’idea di un siciliano, Stesicoro di Himera, secondo cui a Troia sarebbe andata solo l’immagine di Elena, rimasta fisicamente in Egitto.
Ne deriva quindi che la guerra di Troia fu inutile, basata sul nulla, su ciò che è apparenza, illusione degli uomini; secondariamente emerge la plasmabilità della figura femminile, l’immagine della donna, modellata dagli uomini, senza che essi riescano però mai a riprodurla per quello che è.
In “Elena” non si muore e si sorride, come nelle tragedie elisabettiane, capaci di far convivere le componenti del tragico e del comico.
In questo testo la verità è talmente improbabile che ci si accosta al mondo del ricordo e al modo in cui ognuno di noi gioca con la vita e la sua rappresentazione.
Il regista Davide Livermore costruisce una scena in cui domina l’elemento acqua, che rappresenta il mare da cui arriva, naufrago e clandestino, Menelao, reduce dalla guerra.
Il suo arrivo sulle sponde dell’Egitto è salutato con diffidenza e la battuta “qui i nostri porti sono tutti chiusi” sembra tratto dalla cronaca di questi giorni e smuove un brivido e un sorriso negli spettatori.
“Le Troiane” è il primo testo tragico realmente anti-bellico, il primo che dia la parola alle donne, il primo che mostri nel prologo vincitori e vinti accumunati da uno stesso destino di morte che, a breve, per capriccio degli dei, toccherà anche ai vincitori, sulla strada del ritorno.
Per tutte le donne, vedove della guerra appena conclusa, il loro destino di schiave sessuali per i vincitori è già deciso, come in ogni guerra, in ogni epoca.
E’ un testo dolente, pieno di orgogliosa sofferenza, rappresentata in primo luogo dalla regina Ecuba, a cui è stato ucciso il marito Priamo e che vedrà l’esordio della pazzia della figlia Cassandra e l’esecuzione fredda e violenta del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, decisa con crudele razionalità da Ulisse per evitare che un giorno, diventato adulto, possa vendicarsi.
La regia di Muriel Mayette-Holtz attualizza il testo basandosi su una scenografia scarna, delineata da una foresta di alberi morti (troncati dalla tempesta che ha colpito il Friuli la primavera scorsa) che alla fine prenderanno fuoco a simboleggiare la distruzione definitiva della città.
La tragedia si apre con una serie di esplosioni e una pioggia di cenere, a ricordare drammi anche recenti, come il crollo delle torri gemelle di New York, che coprono gli abiti e i volti di tutti gli attori, dando il senso della devastazione che segue ogni conflitto.
Tre testi incredibilmente connessi tra loro al punto che le regie sono state coordinate e le scene studiate per permettere non solo il facile passaggio dall’una all’altra ma una comunanza di linguaggio e di sintesi che sembra quasi mettere i testi in sequenza. Ancora una volta bisogna sottolineare l’attualità del teatro classico che, all’interno di un ambiente magico come il teatro greco di Siracusa, attraverso la costanza del rito che fa iniziare gli spettacoli al calar del sole e con allestimenti di grande livello artistico, lascia gli spettatori arricchiti di un pensiero che non ha limiti di tempo e spinge ad una riflessione sui grandi temi che l’umanità non fa che tramandarsi di generazione in generazione.