di Mark
St. Germain, al Marjorie S. Deane Little Theatre, West Side,
New York
City, USA
Commento di Rossella
Valdrè
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E’
in scena fino a novembre al Little Theatre nell’Upper West Side di Manhattan
(un piccolo teatro del circuito off-Broadway di NY, fondato negli anni ’30
dall’amatrice Marjorie Deane), una curiosa opera teatrale in un atto, Freud’s last session.
L’opera
si ispira al libro di uno studioso di Harvard, Armand Nicholi, dal titolo ‘The question of God’ (La quesione di Dio),
dove l’autore immagina che alla fine della sua vita, nel 1939, l’anziano Freud
abbia incontrato, come ultimo visitatore, il giovane romanziere Clive S. Lewis,
la cui opera a noi più nota è Le cronache
di Narnia, ma molto popolare nel mondo anglosassone anche per testi sulla
religione e sulla sua stessa conversione al Cristianesimo (quali ad es. Mere Christianity, Surprised by love e altri). Alle soglie della Seconda Guerra
Mondiale, nello studio londinese di Freud, i due discutono del tema che ha da
sempre impegnato l’umanità, e che torna oggi a farsi particolarmente vivace e
centrale nel dibattito contemporaneo: il conflitto tra Fede e Ragione.
Il
giovane e baldanzoso accademico Dr. Lewis, irlandese di nascita, che davvero
abbandonò la sua posizione di ateo per diventare credente all’eta’ di 33 anni,
va a consultare il padre della psicoanalisi, emigrato a Londra grazie agli
amici inglesi per sfuggire alle leggi razziali, e da quest’incontro immaginario
che fa da spunto narrativo alla piece,
scaturisce una conversazione amabile, ironica, colta, appassionata, divertente,
ricca di humour e umanità. Eterna.
Metafora del dialogo sempre aperto, irrisolto ed inesausto tra Bene e Male, tra
Fede e Ragione, tra razionalità e credenza, l’incontro è anche incontro umano
tra un giovane (inorgoglito da tutte quelle certezze che sembrano avere i
giovani), curioso e spigoloso, e un grande vecchio, curvo nella sua magrezza,
nel consueto abito marrone con cui lo conosciamo dall’iconografia, la malattia
avanzata e l’eterno sigaro tra le dita, e tuttavia sempre nobilmente
autorevole, appassionato all’argomentare, portatore di una sorta di saggezza
che l’umiltà e la sobrietà, doti oggi così rare, rendono affascinante.
La
ricostruzione scenica pressochè perfetta, e la forte verosimiglianza che
l’attore (Martin Reyner) è riuscito a rendere senza forzature nè eccessi con la
figura di Freud, trasportano lo spettatore in una sorta di teatro del sogno: siamo
davvero lì, come quando sognamo, appare tutto realistico eppure lo sappiamo
essere finzione, rappresentazione.
Dunque doppia metafora, se vogliamo: del dialogo tra due Veltenshaung, due visioni del mondo, tra due uomini differenti, tra
due generazioni, ma anche metafora
della stessa psicoanalisi, che vive, si genera e si nutre di continue
rappresentazioni, nella seduta analitica e dentro di noi, psicoanalisti e
pazienti.
Perchè
il dr Lewis va a consultare Freud? Cosa va cercando, quali risposte? (Il
lettore mi scuserà se l’assenza di testo scritto e, ovviamente, di traduzione,
mi hanno fatto perdere qualcosa…). Nel giorno in cui l’Inghilterra entra
nella Seconda Guerra Mondiale, 3 settembre del ’39, si fa dolorosamente urgente
capire cosa sta succedendo….perchè gli uomini fanno questo? Perche’ si
distruggono? La conversazione è interrotta solo, a tratti, dagli annunci della
radio. L’attenzione di Freud, sempre immancabile, si sposta e si fa ansiosa al
pensiero di Anna, più volte evocato con apprensione. Anche Martha è fuori con
la governante, ma è ad Anna che corre la mente di Freud: dove sarà, cosa le
succederà.
La
fede nella Ragione ha di che essere duramente messa in crisi; la follia nazista
sta trascinando l’Europa in una devastazione, senza che se ne comprenda il
senso, la motivazione e lo stesso Freud, come è noto, ebbe quasi a
sottovalutare la portata dell’avvento nazista in Austria, tale era l’assurdità
di ciò che si stava compiendo.
Il
dibattito esce dunque dal salotto per farsi dramma cogente e ineludibile del XX
secolo, ma tradotto molto amabilmente in un’opera che risulta leggera, lieve,
ricca di ironia, dove sullo sfondo degli annunci radio vengono ripercorsi qua e
là tutti gli assi fondanti della psicoanalisi: la teoria sessuale, il sogno, il
senso della cura. Il secolo che si era aperto con la Traumdeutung, debutto mai visto prima di una ragione altra, quella dell’inconscio, si avvia
ora verso la catastrofe.
Freud
si era già interessato direttamente al fenomeno della guerra nel 1915, quando in Considerazioni attuali sulla guerra e la
morte, dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, osserva con amara
"delusione" come uomini e Nazioni che si dicono civili, si credevano
evolute e non "primitive", non avessero trovato altro modo per
giungere "a risolvere per altre vie i loro malintesi e i loro contrasti di
interesse" (1915, p124). Ma è soprattutto nella Lettera ad Einstein del ’32 (Perchè
la guerra?), dopo che l’esplorazione metapsicologica ha incontrato nel ’20
la svolta della seconda topica e l’irruzione nella scena psichica della
pulsione di morte, che le ragioni interne
per cui gli uomini si distruggono appaiono non solo chiare, ma ineludibili,
tristemente inevitabili, quasi una tragica necessità. All’ancora relativamente
pacata ‘delusione’ del ’15, nel ’33 si sostituisce la dolorosa constatazione per
cui "Sembra dunque che il tentativo di sostuituire la forza reale con la
forza delle idee sia per il momento votato all’insuccesso. E’ un errore di
calcolo non considerare il fatto che il diritto era in origine violenza bruta e
che esso ancor oggi non può fare a meno di
ricorrere alla violenza" (corsivo mio). E prosegue oltre "….non c’è
speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini". (p
297-300).
Ma
perchè mettere in scena, proprio oggi, proprio a NY così duramente provata, questa
piccola opera dal focus così specifico, la guerra, e per certi versi così
infrequentemente accostato a Freud? Io credo che nelle menti degli Autori
albergasse l’idea, forse in parte inconsapevole, di tessere insieme l’oggi con
l’allora, di porre l’accento sull’eternità
del conflitto tra Fede e Ragione, sottraendolo alle pericolose derive in
cui oggi rischia di scivolare. Oggi come allora, pur cambiati i contesti, i
conflitti bellici proseguono, apparentemente motivati da altre
"ragioni" scatenanti; ma è stato proprio il coraggioso pensiero di
Freud a farci riflettere sull’irriducibilità della pulsione di morte, la Toderisch, sull’esistenza del bisogno di
distruggere, di fare dell’Altro un
proiettivo ricettacolo di odio, rendendo necessario identificare dei
"diversi", che la vita sociale sempre presenta. Niente è cambiato,
nel profondo. Avremmo sempre a portata di mano, ovunque, se ne abbiamo bisogno,
una faccia che non ci garba, come
dice Pontalis (1993).
Quale
il rimedio, allora? Il dialogo. La conversazione. La parola. La
rappresentazione teatrale mette in gioco proprio l’unica soluzione umanamente possibile all’irrisolvibile problema
dell’aggressività umana: la mediazione del linguaggio, il fatto di poterne
parlare, l’area transizionale della cultura. I due personaggi hanno idee
divesrse, sono ciascuno un oppositore irriducibile per l’altro, l’uno invoca la
fede, l’altro ha costruito un impero della ragione, ma non agiscono la
differenza, non la mettono in atto: ne conversano.
Con
ironia, persino; con capacità di sciogliere l’antagonismo in un sorriso, in un
motto di spirito.
Il
vivace scambio sembra produrre un certo mutamento in entrambi, pur saldamente
radicati nelle loro identità: Lewis si ammordisce, un pò della saggezza del
maestro si è insinuata in lui; se ne esce forse con qualche dubbio in più.
Freud ha un accesso del suo male, la gola sanguina….chissà se il richiamo
alla fede (una fede privata, non
urlata, intima e personale) è davvero qualcosa che è venuto a fargli visita,
alla fine. L’ultima seduta.
Riferimenti
bibliografici e approfondimenti
–
Freud S. (1915): Considerazioni attuali
sulla guerra e sulla morte, O.S.F., 7
–
Freud S. (1932): Perchè la guerra?, O.S.F, 11
–
Ponatilis J.B. (1993): Perdere di vista,
Borla, Milano
–
http://www.FreudsLastSession.com