Coreografia come espressione di un pensiero inconscio che incontra l’emozione
a cura di A.Cusin
Parole chiave: danza, mente, cervello, percezione, pensiero
Ballare è come parlare in silenzio.
È dire molte cose senza dire una parola.
(Yuri Buenaventura)
La danza è una forma spettacolare limitata “nello spazio e nel tempo” che si esaurisce […] “quando si conclude la rappresentazione stessa” ( Giannasca, 2018:325-326). E che proprio per il fatto di essere “effimero” ( Giannasca, 2018) rischia di scomparire dalla nostra memoria cosciente.
Dobbiamo anche chiederci – Rugi (2023:84) lo fa rispetto alla parola – se la visione di una performance di danza, ma forse anche qualsiasi prodotto dell’arte, possa “ridarci la possibilità di entrare in contatto con verità profonde, dimenticate, scisse, forcluse, o più radicalmente assiderate, incarnate, fossilizzate, pietrificate”; può davvero la parola, dice Rugi, e io aggiungo l’opera d’arte, toccare il soma, parlare al corpo? Gli occhi, in diretto contatto con il cervello di cui sono l’organo sensoriale specializzato, vengono toccati dalla visione di un’opera d’arte, gli occhi sono un importante aspetto somatico perché sono creatori di immagini, contribuiscono infatti alla creazione intrecciando la percezione visiva con la percezione interna fatta dalla propria esperienza e storia. Anche il ballerino, nel prepararsi e nel mettere in scena la performance viene “toccato” nel suo corpo dalla coreografia, la percepisce, la vive, la sperimenta anche emozionalmente e ogni movimento parla al suo corpo e il suo corpo risponde con le parole del movimento. Proprio per questo Giannasca parla di corpi-archivio dove il corpo danzante diviene “un archivio a seguito di un processo di sedimentazione di tracce costituito dall’iscrizione sul corpo stesso di tecniche e stili coreografici come deposito attivo di una memoria corporea fondamentale” ma anche un “vero e proprio modello di trasmissione didattica che garantisce una fedele tradizione di pratiche”(2018:342). Un tema intrigante questo di Giannasca a cui rimando il lettore perché parlarne qui ci porterebbe troppo lontano.
È ben chiaro a tutti noi psicoanalisti come un lavoro sul corpo, anche se banalmente da palestra, implichi il coinvolgimento del sistema percettivo. Ed è quasi scontato essere consapevoli che le percezioni siano “illuminate” dal lavoro del nostro inconscio, dalle esperienze della nostra vita.
“La percezione è sempre influenzata dall’ inconscio inaccessibile, dalla personalità e dalla storia di ognuno di noi” ( Rugi, 2023:154).
È stato il neuroscienziato Libet (Libet, 2004 citato da Rugi, 2023:153) a dimostrare l’esistenza di un retroactive refferal time ovvero di una sorta di rimando retroattivo che indica un ritardo neuronale fra evento e coscienza: diventiamo cioè coscienti di una percezione sensoriale con circa mezzo secondo di ritardo. Sempre lo stesso Libet dimostra che può esistere una distorsione del contenuto di ciò che noi percepiamo. Come afferma Rugi dunque (2023:153) “il fatto percettivo è sempre attraversato da una valenza emotiva inconscia in grado di influenzare i contenuti coscienti della percezione”.
Quindi fare palestra, partecipare ad un corso di pilates, di fitness, fino ad essere coinvolti in complesse e impegnative lezioni di danza implica anche un coinvolgimento dell’inconscio che viene chiamato in causa dalla stimolazione percettiva di parti della muscolatura spesso da noi trascurate. Perciò chiunque di noi danzi, chi insegna danza, chi fa un qualsiasi lavoro da palestra, non dovrebbe trascurare questo aspetto quasi assodato invece per noi psicoanalisti.
Per inciso: ricordo due pazienti con due storie di abilità motorie molto caratterizzate: una, da bambina aveva imparato, si era appassionata ed era stata inserita in una squadra di rugby femminile.
L’altra aveva fatto molti anni di ginnastica artistica esibendosi, da ragazzina, anche in piccole e brevi performance. Entrambe, per diversi motivi, avevano iniziato un’analisi.
Sono passati tantissimi anni e sono venuta a sapere che la giocatrice di rugby partecipa a corsi di danza moderna e si esibisce con grande soddisfazione e l’altra, la ginnasta, da un anno se la spassa a fare kickboxing!
Anche qui sembra che l’analisi, come un buon corso di pilates ad esempio, abbia saputo mettere in moto parti corporeo-mentali trascurate dando espressione a capacità e piaceri somatopsichici che “spingevano” per essere accolti, ma che la mente si impediva di portare alla coscienza.
Credo dunque che una maestra di danza, una coreografa, nel formare degli allievi e nel dare vita ad una coreografia crei di fatto un’opera d’arte. Anche i suoi allievi possono rappresentare come gruppo, un’opera d’arte. L’artista esprime infatti qualcosa che non è progettato, “pensato” solo razionalmente, ma è un prodotto dalla sua esperienza, dalle sue capacità tecniche e soprattutto della sua creatività: è una creazione che gli scappa dalle mani.
Penso a Jackson Pollock che ad un certo punto ha avuto bisogno di far colare del colore su una tela facendolo “sgocciolare” (dripping) fino a far divenire questo “gesto” le basi del movimento dell’action painting: rinunciò a dipingere dei soggetti per tentare, con il gesto che produce la macchia, di esprimere, di far “parlare” movimenti ed energie. Mi ricorda il mio nipotino di quattro anni che quando disegna il mare copre tutto… “perché il mare con le onde travolge ogni cosa!” Il suo …disegnare è un essere il mare. Forse anche Pollock “era il colore”.
Penso a grandi ballerini (non sono esperta in materia) i quali, nel sentire una musica la sanno trasformare in un movimento e a volte, come fa Liubov Koneva[1], addirittura lavorano sulla musica per trasformarla grazie agli attuali strumenti tecnologici. E così un frame musicale si trasforma in quei milioni di micro-movimenti che costruiscono una coreografia, arrivando al nostro sistema percettivo. E in quel mezzo secondo di ritardo neuronale la coreografiasi intreccia, risvegliandoli, con aspetti di noi fino a quel momento silenti. Per questo forse ci piace un’opera d’arte (pittorica, scultorea, musicale, motoria…): porta alla luce un pensiero, non rendendolo necessariamente un pensiero razionalmente cosciente, ma facendo di quel pensiero qualcosa di emotivamente vivo, qualcosa che ci permette di pensare.
È l’arte – con i suoi stili che si esprimono in infinite forme diverse – a creare emozione, a smuovere in noi aspetti sconosciuti al punto, a volte, di scompensare il nostro equilibrio psichico. La famosa sindrome di Stendhal di cui ci parla Graziella Magherini (2003) ha descritto molto bene questo vissuto perturbante.
Così con la sua coreografia, che aveva per tema “Nel Museo delle scienze: la stanza della Psicologia”, Liubov Koneva sembra aver messo in scena, in modo perturbante – durante i pochi minuti che le erano stati concessi per il suo gruppo – la realtà e la deformazione inconscia dei fatti percettivi. Nel corpo delle ballerine, sue allieve, si susseguivano dei movimenti armonici, ben calibrati, ma anche necessariamente caotici. Perché cervello e mente sono un insieme paradossale di ordine e caos.
Purtroppo non conosco il linguaggio appropriato, ma ho osservato, partecipando come spettatrice a questa performance, come al comune ripetersi di alcuni movimenti coreografici ben conosciuti, si inseriscono, quasi improvvisamente, come in una perturbante incursione dell’inconscio – inconscio della coreaografa o di noi spettatori che guardiamo e veniamo turbati e inquietati da ciò che è improvvisamente nuovo e inaspettato? – dei movimenti che sembravano uscire dalla ripetitività di una musica iniziale quasi ossessiva, per transitare in un’armonia che descrive la nascita di un’idea. Forse cosi è sembrato a me. E credo che questo sia ciò che conta: siamo noi spettatori di un’opera d’arte, pittorica, musicale, architettonica, dinamica a creare il profondo significato della medesima, significato che forse l’autore, pittore, musicista, coreografo neanche ha pensato ma era un pensiero in attesa di esprimersi (non solo nel singolo artista, ma nel gruppo sociale che lo circonda di cui l’artista è l’emergente gruppale) e a cui la creazione della coreografia ha dato forma.
Come nel nastro di Möbius: l’artista che crea e lo spettatore che guarda sono appunto delle prospettive reversibili, sono un intreccio di cui alla fine uno sfuma nell’altro ottenendo il risultato che magari appare sul palco e viene filmato. Ma il filmato, per quanto possa essere professionale, mai riesce ad esprimere del tutto questo misterioso e affascinante intreccio.
Bion dice che “quando secerniamo un’idea, oppure quando produciamo una teoria sembra che contemporaneamente emettiamo del materiale calcareo, diventiamo calcificati, l’idea diventa calcificata” (W.R. Bion, 1983:18).
Nella dinamica dei corpi sul palco, grazie alla coreografia, a me sembrava di vedere – io con il mio vissuto personale davo questo significato che mi emozionava – l’idea nascente che cercava di trasmettersi, ma che dopo un breve risveglio si perdeva, si “taceva” in un nuovo riprecipitarsi al suolo nell’immobilità. Quasi un rifiuto della mente a far evolvere l’idea per costringerla alla paralisi. Alla “calcificazione”. Ma la nuova idea, il pensiero non si arrende: le mani di Liubov Koneva, sulla scena, smuovevano corpi di ballerine che come neuroni pigri, calcificati, forse congelati erano costretti a sciogliersi in un via via sempre più intenso di coinvolgimento. Il crescendo delle note musicali segnalava questo risveglio che lentamente chiamava in causa tutto l’apparato neuronale. Tutto sembrava mettersi in moto armonicamente. Ma questa armonia veniva soppiantata da una musica ritmata, nuovamente ripetitiva. Questa alternanza tra ripetizione, ossessività e armonia creativa sembrava un passaggio necessario. Il bambino per imparare deve ripetere. La nuova idea necessita del confronto con ciò che ha risvegliato, scongelato, fatto uscire dall’immobilità. Sul palco si attivavano nuove figure, come nuovi impulsi nervosi che sembravano far partire neurotrasmettitori, membrane post- sinaptiche concrete e psichiche: la dinamica della danza diventava un susseguirsi di dopamina, serotonina, acetilcolina! Strani personaggi che danzando e si mescolavano tra loro.
“Il corpo danzante si presenta, si offre e si rappresenta nell’hic et nunc dell’atto performativo. Tuttavia tale presenza implica necessariamente un’assenza. La danza è presenza, ma diviene subito assenza. L’assenza è il frutto di una presenza che scompare senza lasciare – apparentemente – delle tracce” (Giannasca, 2018:326-327).
Come dice U.Volli (2001, p. 29 citato in Giannasca, 2018:326, nota 12). Continua Giannasca, “il corpo presentato dalla danza è infatti anche il corpo di un certo presente, di un qui-e-ora, che conta proprio per la sua capacità di interpretare quel presente, di renderlo concreto ed evidente”.
L’ “oggetto della danza tende inevitabilmente a scomparire “(ibidem, p. 327). È “un oggetto che da un punto di vista ontologico è assente e come tale è impossibilitato a generare discorsi, a produrre storia e a determinare una cultura”(ibidem, p. 328).
Il movimento della performance a cui assisto e, che proprio perché effimero sento meriti la mia attenzione, ora è confusione di corpi che si aggirano eccitati sul proscenio per evidenziare l’attivazione delle sinapsi, il passaggio frenetico di effimeri impulsi nervosi/gesti, di incerti equilibri propri di un pensiero motorio… ideativo… nascente – che è anche un insieme di sostanze chimiche – che sta saggiando sé stesso. Corpi che creeranno quadrati, triangoli, figure geometriche piene di spigoli, di quelle spigolature della mente imprevedibili e inevitabili. Aspetti puntuti che nel “perpetual motion” ovvero “danza senza sforzo e senza fine insieme”[2] sembrano rendere presente l’enormità dell’attività cerebrale.
Dieci minuti per illustrare la psicologia sono veramente risicati. Ma qui, nella breve performance, la grande sfida per la maestra, coreografa e ballerina, è l’intreccio, ricco di significati, tra cervello, mente, corpo. I personaggi sembrano essere dei neuroni che ruotano, danzano, appaiono e scompaiono, si ricompongono sulla scena dove uno non si distingue dall’altro. Luci ed ombre si alternano davanti allo sfondo caratterizzato da un enorme neurone blu azzurro quasi persecutorio: sembra volerci imporre che “Io dirigo, io comando, tutto dipende da me!” Le ballerine, come operai di una catena di produzione, danno vita a contrasti interiori inafferrabili.
“L’ analisi dei processi di apprendimento e trasmissione di una tecnica coreica, unitamente alla relazione e pratica tra spettatore danzatore, giustificata dal punto di vista scientifico dall’attività dei neuroni specchio, permetterà di individuare gli aspetti di condivisione sociale necessari a far sì che un gesto danzato diventi un’iscrizione” che nello stile coreografico “assume sempre una valenza idiomatica in grado di connotare singolarmente l’attività di un determinato autore, oltre a definire, da un punto di vista dell’ontologia, l’essenza di ciascuna opera d’arte danzata” (Giannasca, 2018:325).
In definitiva questa breve performance mi sembra aver dato accesso a quella inquietudine e incertezza, all’eccitazione violenta che attraversa i nostri tempi.
La scelta – e rimodellamento – della musica, dei ritmi della danza, dell’apparire e scomparire di alcune ballerine, il muoversi a volte lento e a volte accelerato, rapido, ha smosso in me una sorta di angoscia, di paura che è forse quella in cui viviamo. Quella paura del vivere l’esperienza di un cambiamento catastrofico, come lo chiama Bion (1974), del venire alla luce di un alcunché di nuovo che porterà ad un cambiamento inaspettato. Nell’idea nuova c’è sempre paura e questa breve performance, secondo me, ha saputo metterla in scena.
La danza è una forma spettacolare limitata nello spazio e nel tempo che si esaurisce… “quando si conclude la rappresentazione stessa” ( Giannasca, 2018:325-326)
Quella performance di danza mi è sembrata avere la capacità di portare alla luce una profondità creando un attimo di intimità. “L’intimità è il gioco teso da una profondità che non si trova in nessun altro fondo se non in quello della superficie, dove si gioca e si tende. Ciò che si tende è ancora una volta una passione” (Nancy, 2000:47)
Bibliografia:
Bion W.R.(1983). Seminari italiani. Borla, Roma, 1985.
Giannasca E. (2018). La danza nella prospettiva ontologica di una teoria documentale dell’arte. Danza e ricerca. Laboratorio di studi, scritture e visoni. Anno X, n. 10. In www.danzaericerca.unibo.it https://doi.org/10.6092/issn.2036-1599/8710
Libet B. (2004). Mind Time. Raffaello Cortina, Milano, 2007.
Magherini G. (2003). La sindrome di Stendhal, Ponte delle Grazie ed.,
Nancy J.L. (2000). Il ritratto e il suo sguardo. Raffaello Cortina, Milano, 2002.
Rugi G (2023). Tempo e inconscio. Inattualità e creatività in Wilfred R. Bion, Franco Angeli, Milano.
Volli U. (2001). Il corpo della danza, Vent’anni di Oriente e Occidente, Osiride, Rovereto
[1] Liubov Koneva: nata e formatasi in Russia è atleta agonista di ginnastica ritmica, ballerina di danza classica e contemporanea prima e poi coreografa. Attualmente è Fitness trainer con costante ricerca ed approfondimento nel campo olistico. Presenter ad eventi internazionali e docente di formazione Pilates mat per Cruisin Fitness School. È anche creatrice di programmi di allenamento, metodo Perpetual Motion. Vive e lavora a Trieste.
[2] Un esempio, anche se molto distante da quello proposto da Liubov Koneva si può apprezzare nel video dei 17.500 ballerini della Lettonia in cui il movimento globale viene ripreso dall’alto ed è letteralmente affascinante