Sono in scena in questi giorni nello scenario del teatro
greco di Siracusa, nell’ambito del XLVI Ciclo di Rappresentazioni Classiche, le
tragedie "Aiace" di Sofocle e "Fedra" di Euripide, due formidabili vicende che
narrano di personaggi di grande statura drammatica.
In un luogo che ancora oggi conserva la dimensione del tragico i grandi
classici portano in scena le passioni umane in un modo che ci coinvolge sempre
nonostante l’apparente inattualità dell’ambientazione e a volte delle
argomentazioni.
Qui si tratta dell’insana passione di Fedra per il
figliastro Ippolito ( e Ippolito portatore di corona recita il sottotitolo
euripideo) e della casta passione di questi per la caccia, protetta da Artemide
e della violenta ira di Aiace per non aver ricevuto dai compagni greci il
trofeo delle armi di Achille dei vinti troiani.
In realtà, ci dice Euripide, Ippolito ha sfidato Afrodite
recandole grave affronto nel disdegnare i letti e le nozze per onorare la
vergine Artemide, dea della caccia, della selvaggina e dei boschi.
Per questo l’offesa Afrodite infiamma Fedra di passione per
il giovane e la spinge nel baratro della vergogna e poi del suicidio.
L’incolpevole Ippolito, novello Edipo suo malgrado, inorridito dai sentimenti
di Fedra, sarà comunque trascinato da questa nel disonore e poi nella morte,
attraverso la maledizione del padre Teseo.
Nel bellissimo prologo alla tragedia, tradotta da Edoardo
Sanguineti, è Afrodite stessa a spiegare di quale peccato si sia macchiato
Ippolito. Si tratta del grave peccato di Hýbris, la superbia, la
tracotanza, l’eccesso, l’orgoglio dei mortali verso gli dei.
Anche Sofocle ci parla di un peccato simile commesso da
Aiace, di una Hýbris, una smisuratezza,
nell’ira per non essere riconosciuto come il miglior guerriero dai propri compagni
greci che lo porterebbe ad ucciderli se Atena non gli provocasse una
transitoria follia. Con arti illusorie essa gli fa scambiare i greci per un
branco di buoi e di porci che Aiace truciderà al loro posto. Quando ritorna in
sé Aiace è travolto dalla vergogna.
La rottura della hybris provoca vergogna.
Vergogna del ridicolo e dello scherno, di precipitare nel disonore quando ci si
sentiva potenti e invincibili.
La
vergogna è una ferita nella timè, la reputazione, l’onore, e per lavarla non si
può più vivere alla luce del giorno. Non ci sono legami con figure parentali
che tengono di fronte a questa "tentazione del nulla" che salverà l’onore.
Aiace si uccide dicendo " ombra che sei la mia luce", aspirando all’ade alla
ricerca di quella gloria imperitura dopo la morte che gli antichi greci
chiamavano cleos.
Come
non pensare alle rotture narcisistiche dei nostri giovani, alla rovina
dell’onnipotenza infranta sulla prosaica e limitante realtà che li cimenta?
Declinazioni diverse della hybris dei tragici che
sollecitano il dirimente intervento delle divinità chiamate a correggere
l’elemento irrazionale, la deroga dal
cammino tracciato, che noi chiameremmo irruzioni dell’inconscio nel teatro
dell’Io. Si esce dal teatro, dopo aver applaudito Elisabetta Pozzi (Fedra e
Tecmessa), Maurizio Donadoni ( Teseo ed Aiace), Massimo Nicolini ( Ippolito e
Messaggero) e il Coro, pensando che le intuizioni di questi straordinari autori
ci indicano ancora una volta le invarianti della psiche umana, la lotta delle
passioni con il controllo della ragione e di come ci affascina questo.
Gabriella Russo