Sul falso e vero Sé.
Recensione di Maria Pirillo
È andato in scena al teatro India di Roma (dal 8 al 14 novembre) “A corpo morto”, uno spettacolo teatrale scritto e interpretato da Vittorio Franceschi – uno dei migliori drammaturghi italiani contemporanei, attore di successo, vincitore di numerosi premi nazionali e internazionali, tra cui un IDI per la miglior drammaturgia -, con la regia di Mario Sciaccaluga.
Franceschi ha creato un pezzo di teatro serio, intelligente, a tratti grottesco, fondato su un modello classico: cinque monologhi, preceduti da un prologo, inframezzati da interludi “corali” e seguiti da un epilogo. L’interprete dà voce e corpo a cinque diversi personaggi che si alternano in scena come protagonisti attraverso le maschere di Werner Straub (1), in tal modo confrontandosi con diversi aspetti della morte e della vita: un ragazzotto saluta per sempre la bella ragazza mai stata sua, e morta in un incidente stradale; la vedova di un sarto prende coscienza della sua condizione, ripercorrendo i suoi trent’anni di vita coniugale col marito morto di cancro; uno scrittore demodè tenta invano di restar cinico dinanzi al suicidio del figlio, trovato impiccato alla trave di casa; una problematica adolescente si decide a vendicare la madre uccisa, e il proprio stupro, da parte del padre; un barbone “per vocazione” commemora l’amico Barabba…
I cinque personaggi compongono un affresco attonito e complesso dell’umanità, ma anche di un Sé qualsiasi, un Sé “senza qualità”, senza eroismi, sfaccettato da molteplici fratture interne. Un Sé nel quale la maschera non rappresenta più una condizione di alienazione o di “doppio” – secondo una connotazione classica della psicoanalisi e della sociologia anni ’70 -, ma la condizione di partenza della pièce e quindi della stessa rappresentabilità: nessuno dei personaggi infatti potrebbe essere così “autentico” di fronte al corpo morto di un amante, di un figlio, di un compagno, di un amico, di se stesso, se non con una maschera, se non grazie alla maschera. È questa seconda pelle che permette la rappresentazione del proprio dolore, del proprio vissuto, che altrimenti resterebbe senza parole, resterebbe nenia o lamento, tutt’al più musica o canzoncina, come sembra di poter evincere dalla struttura del prologo, dell’epilogo e degli interludi che, infatti, non “rappresentano” nulla di Sé ma “presentano”, in versi e musica, dei frammenti presimbolici di qualcosa – un’emozione, una sensazione, un’immagine – che ancora non può essere rappresentata oppure che è al di sopra della rappresentazione personale, autentica, propria di se stessi:
C’è un giorno nella vita che il cuore
e le gambe e le braccia e le mani
si spezzano. Vedi le nubi
che passano lontano e non sanno
chi tu sia, né come hai vissuto e se l’odore
del maggio che scende fra la gente
sia per te solo o per tutte
le anime perdute del mondo…
È il giorno matto
che fa volare l’asino sul tetto
e sposta i confini un po’ più in là…
Quel giorno dovrai esser pronto
con verità di cuore. Sarai solo.
Posa il fardello, fermati.
Non vergognarti della tua stanchezza.
Guarda piuttosto
nella vecchia specchiera
lo sapevi da sempre
che sarebbe venuto un messaggero.
Accoglilo. Ti farà vela
con il suo mantello
di seta bruna, chiuderà la ferita.
Prolungando il non-sense del linguaggio dell’assurdo, l’Autore – ma direi l’Inconscio, il “Je” lacaniano – prepara quell’atmosfera liquida, sensoriale, pre-rappresentativa sulla quale la maschera, con la sua funzione winnicottiana di garanzia del vero Sé, permetterà al sogno(2) di organizzare le diverse storie, le diverse narrazioni di sé, dei personaggi e di ciascuno di noi. È infatti dall’indistinto e musicale del prologo e degli interludii che si differenzia, si staglia ciascun monologo; ed è infatti solo dopo la morte, dopo la perdita, après-coup, che ciascuno dei personaggi diventa quella o quell’altra persona, riappropriandosi del senso della propria storia specifica, e potendola raccontare, condividere, contenere.
In questo bellissimo “A corpo morto”, la problematica novecentesca della maschera e del doppio, cosi esplorata dalla psicoanalisi (Freud, Winnicott et al.), ma anche da tutta la tradizione del teatro novecentesco(3), torna a interrogare gli assiomi, le certezze teorizzate della cultura e della morale: è proprio vero che mascherarsi significa mentire? Falsificare? È sempre vero che la maschera è simbolo di scissione? La verità coincide sempre con la totalità di sé? E la verità di sé è rappresentabile nella sua cosità, nella sua “presentatività”? Tutte questioni che le maschere di Straub – e la maschera in generale – ripropongono, soprattutto quando si percepisce che quella seconda pelle non è una difesa ma un confine, un confine poetico, permeabile, che permette di differenziarsi senza escludersi:
“quella semplice maschera mi toglieva la responsabilità
Per così dire di ogni mio gesto. Non ero più me stessa;
potevo essere un’altra; ma sotto quell’altra o dentro quell’altra
restavo me stessa tutta intera, nient’altro che me stessa…”
(G. Ritsos, “Il ritorno di Ifigenia”, in Quarta Dimensione, Crocetti Editore, Milano, 2001)
E d’altro canto, qui l’identificazione all’altro, a ciò che l’altro vuole o coglie di noi, alla maschera, quest’identificazione non è assoluta, non è adesiva: il ragazzo toglie la maschera e torna ad essere il personaggio sconosciuto od osceno che era stato prima della perdita della propria amata; la vedova toglie la maschera e ritorna a essere il personaggio anonimo od osceno che era stato per tutta la sua vita coniugale; e il padre cinico, dopo il confronto col proprio figlio interno, toglie la maschera e torna a essere il personaggio, l’imprenditore o il cinico che era stato, prima del riconoscimento del proprio oggetto-Sé-figlio…
Oggetto-Sé o oggetto transizionale, dal momento che le maschere che l’Autore e interprete (e l’inconscio, e noi stessi…) indossa sono di stoffa, una tela ruvida che se da un lato è anonima, dall’altra permette di condensare nella voce e nel gesto tutta l’immediatezza e l’autenticità del pensiero e dell’emozione provati di fronte alla morte. Attraverso la tela anonima della maschera, l’uomo ritrova la primigenia autenticità, il primigenio contatto con se stesso, quando ancora il viso era liscio, quando le differenze non erano divenute corazze immutabili, o ritrova quella profondità di sé che gli permette di accettare la morte come momento di verità, di risignificazione autentica di una vita spesso vissuta come indifferente, apatica, rinchiusa:
…nella nebbia del tempo si perdono
torti e lusinghe; hai calcolato
quante paia di scarpe
si consumano in una vita
e quante volte hai detto arrivederci;
hai solcato con fatica la dura
crosta terrestre nei tuoi viaggi
hai visto il mare e i vulcani
e oasi che sembravano miraggi…
sai che i bambini fan chiasso
dappertutto, sia che usino
le mani o la forchetta, e sai
che molti di loro, da uomini
commetteranno crimini e questo
è tutto quello che hai capito
e messo da parte nel tuo sacco…
ricordati quando esci
di spegnere la luce,
fà in modo che la tua vita somigli
a quelle poche cose virtuose
robuste e liete che hai immaginato
senza trovarle mai e non temere il fuoco
se ti vuoi salvare:
molto dolore è meglio
di poco amore.
Un via vai coinvolgente di fronte alla morte, quello dei personaggi di “A corpo morto”, un via vai che permette di spostare all’esterno la propria angoscia persecutoria (di esclusione, di abbandono, di colpa…), ma anche di non rimuoverla, di ricontattarla, di risignificarla, in un movimento elicoidale che passa per momenti di silenzio e di racconto, di sensualità e riflessione, di depressione e di sogno. Proprio come in una seduta di analisi.
Note:
1)Collaboratore di Benno Besson, jean-Louis Barrault e Giorgio Strheler, formatosi nella bottega padovana di Sartori:il più celebrato mascheraio d’Europa
2)Nel senso di Bion:sogno della veglia e sogno notturno, sogno come funzione alfabetizzante della mente , come funzione continua che traduce elementi sensoriali, corporei, in elementi rappresentazionali, e questi le organizza in narrazioni proprie di Sè.
3)Brecht,Strheler ,Besson,Barba,Grotowski,Kantor,Wilson, il teatro No giapponese, la tradizione del teatro di Bali,eccetera