Cultura e Società

Sudhir Kakar (1938 – 2024) e l’immaginazione culturale, di L. Preta

23/04/24
Sudhir Kakar e l’immaginazione culturale, di L. Preta

Sudhir Kakar (1938-2024)

Parole chiave: Psicoanalisi, India, Sudhir Kakar

Sudhir Kakar
(1938-2024)

Sudhir Kakar e l’immaginazione culturale.

di L. Preta

Una casa elegantissima e quindi discreta, ai bordi di quella che credo sia una parte ‘addomesticata’ della giungla di Goa in India.

Ci si trova immersi immediatamente in un immaginario mitico, fatto di animali selvaggi, piante rigogliose, odori e colori accesissimi oppure confusi nel buio profondo della foresta, lontano da tutto quello che si è abituati a vedere e sentire. Per una sorta di regressione si ha la sensazione di trovarsi in una zona isolata da tutto il resto, in un tempo speciale forse come quello dell’infanzia pieno di evocazioni favolistiche.

Quando Sudhir Kakar mi accoglie nel patio della sua casa e mi mostra il tavolo su cui lavora, ho un senso di incredulità. Sembra quasi impossibile scrivere all’aperto, con la giungla alle spalle, su un tavolo di pietra vicino ad una fontana che sprizza acqua e fa da magica colonna sonora ai pensieri! Per me che vengo dall’Europa, da Roma, città piena di rovine e allo stesso tempo di modernità male interpretate, è come entrare in una dimensione onirica.

I richiami e le suggestioni di Roma sono quelle della “città eterna” come dicono le vulgate turistiche che colgono il sapore della storia nell’immobilità della “fondazione”. 

Ma lì il tempo ha un’altra dimensione. In quell’angolo di mondo, non si percepisce il senso dell’eternità in senso metafisico quanto piuttosto quello dell’incessante avvicendamento della materia, dalle forme di vita biologica sul pianeta alle vicende dell’evoluzione cosmica.

Quante volte si può attivare davvero, in profondità, la percezione precisa che ci siano altre modalità di esistenza e anche differenti sensazioni corporee plasmate dall’ambiente?

In quella casa che richiamava l’eleganza del pensiero, la sua compostezza, perché originale e validato allo stesso tempo, pure era difficile per un occidentale superare la inquietudine richiamata dallo sfondo “selvaggio”, anche se per la cultura indiana la foresta in realtà è qualcosa di riposante, a cui tornare lontano dagli affanni e dalla confusione della città.

Eppure Kakar sapeva miscelare tutto questo senza tralasciare nulla nel suo pensiero e nella sua complessa vita.

Veniva da studi scientifici ma era un cultore del sapere umanistico, era uno scrittore famoso di narrativa, uno studioso di religioni, uno psicoanalista importante e maestro di tanti psicoanalisti non solo indiani.

Aveva insegnato in parti diverse del mondo, dagli Stati uniti alla Germania. Conosceva, come si dice, usi e costumi di diversi Paesi.

D’altronde avevo contattato e poi conosciuto direttamente Sudhir Kakar grazie alla pubblicazione di un suo lavoro su Psiche, proprio per coinvolgerlo nel progetto di Geografie della Psicoanalisi per approfondire tramite lui il problema del rapporto tra culture, della contaminazione tra differenti mitologie umane.

I miti per lui erano della trasformazioni narrative del materiale psichico e culturale non degli oggetti sedimentati e quindi potevano essere confrontati, ibridati, messi al lavoro all’interno delle culture stesse di appartenenza e “tra” le varie culture.

Chi meglio di lui quindi poteva trattare di questi argomenti dandogli in aggiunta quello sfondo immaginifico che colorava ogni sua teoria sia psicoanalitica che antropologica. Ed era sempre pronto a confrontarsi cercando di approfondire la portata e l’influenza della psicoanalisi sul pensiero, segnalandone allo stesso tempo la difficoltà a tenere conto fino in fondo dell’importanza di quella che chiamava “l’immaginazione culturale” nel determinare anche gli assunti teorici della psicoanalisi stessa.

Secondo Kakar il mancato incontro con quella che Freud definiva la “Giungla Indiana” era dovuto proprio alla mole di preconcetti che assegnavano comunque alla cultura occidentale la priorità intellettuale su quella orientale impedendogli di accogliere alcune idee che forse avrebbero potuto essere elaborate nella teoretica freudiana portando a sviluppi imprevisti.

Per Sudhir Kakar il Sé individuale è un sistema di mondi rappresentativi della sua cultura, delle sue relazioni familiari primarie e delle esperienze corporee. Ognuno modella gli altri durante tutto il processo della vita “nessuno di questi mondi interiori (immaginazioni del corpo, della famiglia e della cultura) sono ‘primari’ o ‘più profondi’; tutti fluiscono nello stesso fiume che chiamiamo psiche.”

Le tante voci che Kakar poteva ascoltare e che era capace di far risuonare unendo la sua cultura induista al suo laicismo di derivazione occidentale, trasportano in una costellazione di pensiero variegata dove anche la vita e la morte trovano una loro inscindibile co-essenzialità.

Per lui esprimeva chiaramente questa inscindibilità il poeta Tagore che Sudhir amava moltissimo e al quale si è ispirato anche nell’ultima relazione in occasione del convegno di Geografie della psicoanalisi Still Life. Ai confini tra il vivere e il morire descrivendo la visione del poeta che considera la morte come l’aspetto negativo della vita, ma non come l’ultima realtà.

Nella parte conclusiva del suo saggio Kakar dice:

“ Come psicoanalista freudiano a volte ho dei sospetti sulla visione di Tagore sulla morte e sull’aldilà, ma come indiano induista da qualche parte nella mia immaginazione culturale ( spesso non cosciente) mi sento in risonanza con tale visione e sono profondamente emozionato dalla rappresentazione da lui proposta della morte che gentilmente trasporta il Sé nel grande silenzio “ come il Gange trasporta un fiore caduto nella sua corrente lavando via ogni macchia per offrirlo in modo appropriato come dono al mare”.

Sarebbe bello poterlo immaginare così in un viaggio fluttuante…

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