Cultura e Società

S. Steinberg Milano New York. A cura di A, Battistini

29/11/21
Saul Steinberg Milano New York. A cura di Angelo Battistini

SAUL STEINBERG, 1951

Saul Steinberg Milano New York              

(Triennale di Milano  15 ottobre 2021 – 13 marzo 2022)

A cura di Angelo Battistini

Lo confesso, ho una “fissa” per Saul Steimberg. Chi mi ha frequentato anche solo qualche volta, è molto probabile mi abbia sentito pronunciarne il nome con ammirazione, enfasi, invito a compulsarne l’opera, in questo caso i pochi album di disegni reperibili sul mercato librario del nuovo o dell’usato. E’ quindi con massimo piacere che mi accingo a segnalare la grande mostra antologica in corso in questo periodo alla Triennale di Milano. Una mostra importante per più ragioni. Innanzitutto perché è la prima volta che ad “uno degli artisti più noti e insieme sconosciuti dell’arte del XX secolo” (quarta di copertina, Riga 43, Quodlibet, 2021) viene dedicata una mostra di ampio respiro capace di farlo conoscere al grande pubblico, poi perché l’imponente apparato critico che correda il ricchissimo catalogo, 580 pagine di cui più di cento di riproduzioni, consente a chi ne abbia il desiderio di approfondire le molteplici facce di una produzione artistica poliedrica, affascinante e, in prima istanza, “enigmatica”. Già, perché Steinberg è tutt’altro che ovvio, di facile lettura o collocabile all’interno di un quasiasi movimento artistico del ‘900. Steinberg è Steinberg. Originalissimo e inconfondibile ma al primo sguardo indefinibile e ostico. Come ha detto il critico d’arte Harold Rosenberg, – citato dai curatori della mostra – prima o poi la Storia dell’Arte dovrà fare i conti con la propria incapacità d’assegnare un posto a questo artista. Eppure che si tratti di uno dei più grandi  artisti del secolo scorso  è fuori discussione. Per averne un’idea basterebbe leggere i saggi o le testimonianze di personaggi del calibro di Cesare Zavattini, Italo Calvino, Roland Barthes, Federico Fellini, Robert Hughes, Ernst H. Gombrich, Federico Zeri, John Updike, Saul Bellow e tanti altri, reperibili, per lo più come citazioni, sia nelle “schede” dello stesso catalogo sia soprattutto, per intero, nei due volumi monografici della Rivista “Riga” (n.24 del 2005 e n.43 del 2021, editi da Quodlibet). Inoltre, volendo dar ascolto al parere di un altro artista, Tullio Pericoli, non possiamo non essere intrigati dal giudizio che egli esprime nelle pagine del suo recente volume “Arte a Parte” (Adelphi, 2021, p.57) in cui senza mezzi termini sostiene che i più grandi “seminatori di forme artistiche del secolo passato” sono Picasso, Klee e Steinberg. Il che non sorprende dato che nell’opera di Pericoli, in particolare dei primi anni, risulta evidente la sua influenza. Ma chi era Saul Steinberg? E’ necessario dirne qualcosa proprio perché la mostra di Milano, una panoramica dell’intera opera, prende lo spunto dal particolarissimo rapporto che il nostro intrattenne con Milano. Nato nel 1914 in una piccola città della Romania, di lì a poco si trasferì a Bucarest dove studiò senza riuscire, a suo tempo, a iscriversi ad architettura. Decise quindi di farlo al Politecnico di Milano, dove si laureò e strinse amicizie che l’avrebbero accompagnato per tutta la vita, segnatamente con Aldo Buzzi e Alberto Lattuada. Per mantenersi, iniziò a collaborare col giornale satirico Il Bertoldo e in seguito col Settebello diretto da Cesare Zavattini. Disegnava vignette umoristiche surreali di singolare eleganza. Ma in quanto ebreo, per le leggi razziali, dovette espatriare negli Stati Uniti dove in breve divenne una delle colonne del New Yorker, la Rivista della borghesia colta americana famosa per unire qualità letteraria, umorismo e raffinatezza delle copertine illustrate dai migliori disegnatori del tempo. Steinberg ne fece molte, che spesso divennero poster, tra cui la celeberrima View of the World from 9th Avenue del 29 marzo 1976. Morì nel 1999 lasciando migliaia di disegni per la maggior parte custoditi nella Fondazione che porta il suo nome.

La retrospettiva alla Triennale di Milano, curata da Italo Lupi e Marco Belpoliti, con la collaborazione di Francesca Pellicciari, oltre ad essere probabilmente la più ampia dopo quella del ’77 al Whitney Museum di New York, rappresenta un omaggio della città a questo artista poliedrico che mantenne sempre un solido affettuoso legame con Milano e con l’Italia. Nel percorso espositivo molti disegni hanno per oggetto vie e caffè di Milano, grevi palazzi monumentali, come il Tribunale, rappresentativi di un’architettura volta a testimoniare la grandeur del Fascismo, ma anche palazzi “modernisti” dallo stile geometrico e asciutto o luoghi iconici come Galleria Vittorio Emanuele. Ma se allarghiamo lo sguardo all’Italia troviamo disegni riguardanti Venezia o Napoli, stazioni ferroviarie, edifici, facciate, interni, oppure persone che passano, discutono, magari con un tipico gesticolare. Nell’allestimento della mostra i curatori hanno scelto un criterio cronologico/biografico.  Alle foto di famiglia e a documenti come pagelle scolastiche, diplomi, lettere giovanili, si accompagnano le prime vignette e via via i disegni che in  buona parte ritroveremo nei suoi album, a partire dal primo, All in line, del 1945, che raccoglie soprattutto i disegni degli anni di guerra, sia quelli che, a prescindere dal contenuto, giocano col dispiegarsi di una linea che, spesso senza soluzione di continuità, inventa prodigiose rappresentazioni grafiche, sia quelli di viaggio che, “richiesti” dall’esercito americano in cui Steinberg era arruolato, costituiscono una sorta di reportage da diversi paesi come Cina, India e paesi del Nord Africa. Reportage che con tratti essenziali ci parlano di quei luoghi in modo assai più suggestivo ed efficace di qualunque reportage giornalistico. Proseguendo, oltre al caleidoscopico rinnovarsi degli stili del disegno e degli acquarelli, ci imbattiamo anche in collage, oggetti, maschere che ci lasciano intendere quanto giustificate siano le suddette parole di Pericoli.

Per concludere cercherò di dare un’idea in poche frasi dell’ “indefinibile” arte di Saul Steinberg, consapevole al contempo dell’impossibilità del compito. Mi avvarrò di definizioni, giudizi, commenti dello stesso Steinberg o che, più di frequente, hanno usato critici di diversa estrazione.  Considerato variamente un artista-scrittore, filosofo, antropologo, aforista, si deve dedurne che la sua arte visiva non si limiti a “rappresentare la realtà” oppure ad inaugurare o seguire una nuova corrente espressiva, come avviene per qual si sia movimento d’avanguardia, ma che si caratterizzi fondamentalmente per il fatto di parlare di qualcosa.  Di cosa? Della società e dei paesaggi di diversi paesi ma soprattutto degli Stati Uniti, sua patria d’adozione, dei loro usi e costumi. Della scrittura, delle parole, delle lettere dell’alfabeto e di come tutto ciò prenda le mille forme necessarie al contratto sociale. Della comunicazione di massa, del vedere ed essere visti, dell’identità, della storia e del destino degli umani e quant’altro. In che modo? Facendoti pensare che l’arte imita la vita e la vita imita l’arte. Che l’opera d’arte convoca il suo fruitore. Che ogni artista “dice” anche dei propri strumenti e materiali. Che ogni oggetto racconta se stesso. Che il mezzo è il messaggio. Che la realtà fattuale è là fuori ma vive nel nostro sguardo. Che vedere, pensare e fantasticare sono strettamente intrecciati. Che la sinestesia ti fa vedere ciò che senti e sentire ciò che vedi, eccetera eccetera eccetera. Eccetera, eccetera, eccetera. Troppo oscuro, frammentario, enigmatico? Lo capisco bene. Si può saperne di più affrontando le 580 pagine del Catalogo della mostra o le 530 di Riga 43 o le 400 di Riga 24. O più semplicemente godersi alla Triennale l’ opera di Saul Steinberg.

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