"Datemi una barca, disse l’uomo.
E voi, a che scopo volete una
barca, si può sapere, domandò il re.
Per andare alla ricerca dell’isola
sconosciuta, rispose l’uomo.
Sciocchezze, isole sconosciute non
ce ne sono più. Sono tutte sulle carte.
Sulle carte geografiche ci sono
soltanto le isole conosciute.
E qual è quest’isola sconosciuta
di cui volete andare in cerca.
Se ve lo potessi dire allora non
sarebbe sconosciuta". (J.Saramago)
Che cosa ha visto il Poeta
che ha voluto raccontarci?
Gli scritti di Saramago non
si risolvono in una mera condizione metaforica, di più, a mio avviso, egli è
dotato di una condizione mentale immaginativa attraverso la quale comunica ciò
che già "è". La sua capacità e insieme il
coraggio di riflettere sulle cose della realtà non ancora visibili, non
delineate, definite, realisticamente hanno il potere di agganciare, nel
lettore, una condizione di non consapevolezza dove tuttavia insistono elementi
bizzarri, sconvolgenti e arcaici.
Saramago sembra andare oltre ciò
che è immaginabile, anzi invita a
credere che la mente sia capace di dilatarsi nell’inimmaginabile attribuendole un’ estensibilità che, forse,
spesso sottovalutiamo per far fede ad uno statuto di stabilità, laddove si prevede il prevedibile.
Sorprende il contenuto dei
suoi libri, così apocalittico da risuonare come fantasioso se non
fantascientifico, eppure, simile ad una rèverie, visto che sempre di più i
fatti a cui assistiamo nella realtà si accostano drammaticamente alle sue storie. E così, il disastro ecologico provocato
dalla nave Louisiana o il black out delle comunicazioni recentemente causato
dalle polveri del vulcano irlandese piuttosto che la catena di disastri
tellurici e le loro conseguenze sulle popolazioni, fanno pensare alle trame della "Zattera di pietra" piuttosto che
quelle de "Il racconto dell’isola sconosciuta".
E’ possibile l’incredibile?
Leggere le sue pagine dà la sensazione di entrare in un sogno, in una
dimensione onirica, ma insieme, ed è questa la peculiarità, la demarcazione con
la realtà è proprio sottile, sottilissima, se si può dire.
Ho conosciuto Saramago per
caso con "Cecità", libro sconvolgente e impossibile; abbiamo fatto anche un
gruppo di studio sotto la guida dell’indimenticabile Francesco Siracusano. Una
storia così crudele e realistica che
allarma e conforta nello stesso tempo. Allarma la crudezza e, ancora, il
realismo con cui l’autore descrive aspetti deteriori dell’uomo capace di atti
di rara ferocia e meschinità, tanto che per sopravvivere a sé stesso deve solo
poter dimenticare. Nel contempo affiora un messaggio di piètas, di fiducia
nella capacità di riparazione dell’individuo che può affrancarsi anche dalla
condizione più distruttiva. Suggestivo il raffronto tra la "moglie del medico" e l’analista. Quante volte, nella nostra
stanza d’analisi abbiamo "visto" il nostro paziente andare verso l’abbrutimento
di sé, scegliere strade impraticabili, rischiare la morte mentale, e restare in
fiduciosa attesa senza troppo intervenire ma insieme accompagnandolo con cura e
attenzione aspettando che tutto si compia, mantenendoci saldi nella nostra
poltrona: il setting aspetta l’evolversi dei fatti mentali del paziente oltre
che contenerli. La "moglie del medico" sembra rappresentare l’occhio analitico capace
di sconcertarsi ma vigile e premuroso, resistente all’orrore di certe
rivelazioni e capace di andare avanti
verso l’atto creativo. E che dire dell’affetto? Della delicatezza, della grazia richiesta difronte all’evolversi volontario
o involontario della tragedia ri- rappresentata dai nostri pazienti nel corso
del tempo dell’analisi?
Cos’è che non vediamo? Cos’è
che ci illudiamo di vedere? Il paradosso che bisogna essere ciechi per riuscire
a vedere ci fa riflettere e risuona come un invito ad avere più occhi o occhi
non abituati a vedere sempre le stesse cose. La citazione riportata nel
frontespizio sembra riferibile all’instancabile lavoro di scoperta e di
conoscenza dell’analista, cercare nuove e sconosciute "isole-sacche" di
funzionamento, non visibili nelle "carte", che sono tuttavia in attesa di
riconoscimento e d’espressione.
Saramago sembra volerci dire
che siamo vivi se riusciamo a
confrontarci col dolore e abbiamo potuto superarlo solo attraverso la presa di
coscienza, siamo morti se restiamo nella cecità della mattanza nevrotica che
continua ad attraversarci la vita senza opporci, anzi, spesso, restando
conniventi e colludendo con tutte le forme di chiusura esistenziale che sono
state decise per noi prima ancora che ne avessimo contezza, diventando, alla
fine, responsabili del perpetuarsi e dell’allargarsi di una condizione
traumatofilica.
Mancherà il suo invito a "sognare" la realtà o a trasformare ciò che riteniamo onirico in
realtà fruibile e condivisa. E non è roba da poco, forse è lo sforzo e la capacità più grande che ci viene
richiesta, mentre risulta facile essere interpretativi!
Nei suoi romanzi c’è un sottile invito ad allenare la mente ad
inoltrarci nella concretezza del sogno,
della fantasia, come, del resto, ci insegna il lavoro con i bambini e i pazienti gravi, quelli che chiamiamo
psicotici a cui dovremmo essere grati per farci entrare in una condizione che
abbiamo dimenticata in funzione di un adattamento, di un equilibrio. Recentemente,
a Siracusa, visitando un bagno ebraico, ho letto questa frase "Resque quod non
est" (respingi ciò che non è). E mi domando quanto abbiamo confuso, per
debolezza o conformismo, "ciò che è" in "ciò che non è"?
Mancheranno le sue evolute e coraggiose visioni della natura
umana, delle debolezze dell’individuo, ma anche della sua forza e della
vivacità impressa nel concepire l’impossibile e l’improbabile in qualcosa con
cui doversi misurare e superare, costantemente.
Un modernista, a volte
scomodo, recentemente aveva aperto un blog (!!!) dove si possono leggere e
commentare le sue opinioni sulla situazione politica e sociale non risparmiando
considerazioni sulla condizione degli italiani in cui si resta colpiti dai suoi
toni, delicati e violenti nello stesso tempo.
Rimane un elemento di approfondimento
l’intreccio tra la dimensione della fantasia e quello della realtà; la loro
pregnanza nel destino dell’individuo e del suo funzionamento fa pensare che le due cose sono più vicine
di quanto sembra e se avessimo il
coraggio di addentrarci nell’inverosimile forse saremmo convincenti e
drammaticamente "veri" e potremmo trovare, passando attraverso il tormento e la
paura, l’espansione di un origine personale che altrimenti non avrebbe l’agio
di apparire ed imporsi.
Donatella Lisciotto