Cultura e Società

Santi di Bergamo&Pizzigoni

21/11/11

Spazio
HQ_HeadQuarter, Alzaia
Naviglio Pavese, 50 Milano

11 novembre – 4 dicembre 2011

 

I Santi
dei giorni nostri

 

Introduzione di Pietro
Roberto Goisis

So
perfettamente che scrivendo queste righe di commento e presentazione mi espongo
a un duplice rischio. Da un lato quello di presunzione, a scriver d’arte, io,
che di artistico al massimo ho la capacità di andar per mostre e di saper dire
“bello” o “brutto” di fronte ad una rappresentazione artistica; dall’altro
quello di un evidente conflitto di interessi, dato che del pittore sono amico e
ammiratore (collezionista è nuovamente ambizioso…).

In
realtà, il secondo piano della contraddizione permette di esplicarsi all’altro.

Proprio
essendogli amico, posso permettermi di parlarne un poco…

Mi
farebbe proprio piacere, ne sarei contento, se da questa segnalazione nascesse
in qualcuno dei lettori la voglia di andare a vedere e “vivere” questa mostra.
Ho scritto “vivere”, perché nella mia esperienza è stato importante percorrere
e ripercorrere gli spazi, belli e ariosi, ma non eccessivi, che ospitano le
grandi tele dell’esposizione.

Nel
progetto si incontrano due creativi, Fabrizio Bergamo, un fotografo, e Davide
Pizzigoni, un architetto, designer, illustratore, pittore, un artista, insomma
nel senso più ampio del termine.

Davide,
tra l’altro ottimo fotografo, era reduce da un intenso e, per ora, non ancora
pubblicizzato lavoro sui ritratti prebellici del fotografo tedesco August
Sander, interpretati e rivisitati attraverso una ripittura che, nella
esposizione controluce, permette di recuperare le immagini della foto originale.

In
questo caso i due autori decidono di dividersi i compiti e di partire dal
fotografo, Bergamo, che scatta e compone ritratti ad hoc di persone viventi e
“comuni”, stampati in bianco e nero su tela in grande formato, per passare al
pittore, Pizzigoni, che interviene sulla tela con colori, segni, particolari,
dettagli, accessori, tutto quanto permette una reinterpretazione e definizione
del soggetto nella direzione dell’espressione della sua “santità”.

Il
risultato finale è di grande impatto visivo, emotivo, simbolico e percettivo.

Da parte
mia voglio solo segnalare due suggestioni che, come è ovvio, rimandano alla mia
unica e reale competenza, quella di psicoanalista. La prima è una questione,
che attraversa tutta la mostra e che accompagna chiunque ci si avvicini,
facilmente sintetizzabile nella domanda: “chi sono i Santi ai giorni nostri?”.
La risposta che si è formulata nella mia mente ha preso spunto dalla percezione
duplice della grande fatica e dal grande impegno, ma anche della grande
soddisfazione, che accompagnano il lavoro di analista e paziente durante tutto
il corso del trattamento psicoanalitico. Ci vuole sofferenza (e conoscenza
della stessa), coraggio (e un po’ di incoscienza), impegno (ai confini
dell’attitudine masochistica), fiducia (quasi fideistica), tempo e pazienza
(oltre a tante risorse interne e esterne) per creare quel giusto mix che
permetta ad una analisi di iniziare, svolgersi e giungere alla fine (ancora
vivi, come si auspicava Winnicott).

I
“Santi” siamo anche noi e i nostri pazienti, quindi!

La
seconda osservazione si riconduce nuovamente alla coppia analitica. Nei lavori in
mostra i due autori hanno operato come una coppia creativa, uno fotografava (in
bianco e nero), l’altro dipingeva (con colori, dettagli e accessori). Non mi è
difficile immaginare tensioni e conflitti nel loro lavoro, gelosie e invidie, rifiuti,
sentimenti di sopraffazione, mancati riconoscimenti reciproci. Il pensiero immaginativo
sulla loro coppia al lavoro mi ha fatto pensare metaforicamente all’incontro
tra paziente e analista. In qualche modo anche noi riceviamo dai nostri
pazienti delle fotografie in bianco e nero, alle quali cerchiamo di dare un
senso emozionale attraverso colori e attributi, pensieri e ipotesi, discussioni
e confronti. Così come nelle opere di cui stiamo parlando, così nel lavoro
analitico a me piace pensare che, alla fine del percorso, rimane perfettamente
riconoscibile l’essenza del protagonista (la foto in bianco e nero, la
personalità del paziente), arricchita e abbellita, meglio rappresentata, si
spera, dal lavoro comune.

Ecco
come Bergamo e Pizzigoni descrivono il loro processo creativo:

 

“Certo,
bisogna trovare un equilibrio, senza litigare troppo, ma al 90 per cento lo
abbiamo trovato, anche se ogni volta che vedo il risultato del lavoro di
Davide, subito non posso che incazzarmi, ribellarmi, al suo intervento, che
tocca le mie immagini, ma questo è anche naturale. Poi rivedo i risultati, mi
controllo, capisco, accetto, se no non avremmo lavorato a due, ma  è per questo che devo lasciarlo assolutamente
solo, quando perpetra le sue violenze, soffrirei troppo in presenza. Preferisco
aspettare e discutere dopo, se ce n’è bisogno. Ma anche il conflitto è
importante: il confronto, pure se battagliero, aiuta davvero a crescere, a
capire meglio, a trovarci in qualche modo”.

 

Ognuno
dei due membri della coppia, anche di quella analitica, può trovarsi a pensare di
essere il membro più attivo e responsabile, o quello più passivo e dipendente
del percorso. A me piace pensare che ognuno dei due svolga la sua parte,
attraverso le proprie competenze e capacità, uniti da una sola e unica certezza
che l’uno senza l’altro non sarebbero arrivati dove sono arrivati insieme.

Nuovamente
“Santi”, senza essere martiri o beati…

Testo liberamente tratto da
scritti di Fabrizio Bergamo, Tiziana Galimberti, Mario Giusti, Davide
Pizzigoni, Marco Vallora

Diciamocelo confidenzialmente, e un poco
vergognosi, se oggi gettiamo lì, nel nostro parlare, la parola ‘santi’: “i
santi”, “ai santi” “per i santi”, non è che onestamente pensiamo
automaticamente a un qualsiasi San Sebastiano piagato o a un San Francesco con
le stimmate. Semmai il riflesso condizionato ci porta subito a visualizzare
luoghi esotici, viaggi low cost e temperature alterne e alternative, già
indossando subito gli scarponi ai piedi o a snaftalinizzare cassetti intieri di
parei, insomma, il bla bla caffettiero: ‘e tu che cosa fai ai Santi?’ ‘no, io
parto ai Morti’, ‘molto meglio fare la settimana bianca ai Santi, non trovi,
invece che a Natale, meno gente…’, ecc. Eccoli i nostri Santi, in questo
mondo scoronato e desacralizzato, ove è la metafora, a vincere: il traslato. E
chi si ricorda mai che abbiamo avuto dei Santi veri, autorevoli, severi. Tra
l’altro se di santi ancora si parla, oggi, e se ne parla molto, sopitamente, e
in via acceleratissima, sono quasi sempre dei santi ultimi, veloci, “subito”,
non stratificati nel tempo, dissepolti da letti immemorabili di torture e
martiri, piviali e cilici, scrostati da secoli d’oblio, macché: santi visibili
e plasticati, quasi mediatici, come il Papa Buono, radiofonico e democratico,
“date una carezza ai vostri figli”, od il fulmineo Papa Luciani, morto di
sospetti, mentre scriveva ligio al “Carissimo Pinocchio”, oppure il flash
invasivo dell’operaio-alpinista polacco, dal sorriso schietto e l’audience
televisiva perennemente alle costole.

Qui è un altro discorso…

Tutto
nasce dal lavoro sulle foto di Sander e dalle rielaborazione cominciata per
gioco delle foto di Tiziana, di Silvia, di Manuela. Due vie: una per così dire
più seria, recuperare gli ormai defunti uomini e donne di Sander, l’altra
all’apparenza più frivola, ma neanche tanto, modificare i visi degli ancora
vivi amici o conoscenti sovrapponendo alla loro identità una identità nuova, di
inventata dall’artista. Entrambe le strade sono strade da demiurgo. Dentro un
universo mentale privo di Dio, di cui si sa con implacabile certezza
l’impossibilità di esistere e di garantire una seconda vita (possibilmente
eterna), a contatto con l’indicibile dolore della morte (delle morti), l’uomo,
l’artista, cerca di arrogarsi la divina prerogativa di infondere nuova vita,
resuscitare, ridare visibilità agli invisibili, a chi invisibile lo è sempre
stato, confuso nella folla dei senza nome, e a chi invece lo è diventato, messo
in un angolo e dimenticato dalla gloria. Fare ciò che stava già facendo, ma su
scala più grande, nel senso proprio di tele di grandi dimensioni, con un
fotografo professionista che è ancora vivo e può fotografare qualsiasi
soggetto, scegliendo tra una gamma potenzialmente infinita di esseri umani.

Invisibili,
santi e maledetti. Potremmo essere noi, spettatori. Si chiamano Guido,
Mariagrazia, Emanuele, Ayako, Claudio,Walter ma potrebbero anche chiamarsi
Anna, Matteo o Daniele.

Sono
persone la cui giornata scorre come le nostre. Il loro sforzo è di restare come
davvero sono e sentono, accarezzare le proprie emozioni anche quando sono
drammatiche, senza farsene sopraffare. E’ un compito eroico, ancor più perché
presuppone l’assenza di un pubblico che li gratifichi.  Sono i santi di oggi. La loro eccezionalità
consiste nella loro invisibilità, nel non essere e non voler essere indicati
come modello da inseguire.

Sono
santi laici, quello che fanno è senza ricompensa, senza la promessa di un
paradiso, mediatico o religioso. I segni che portano sono quelli della
sofferenza, nei tempi sempre uguale.

 

Tutti, in fondo, viviamo i nostri dolori e
quelli degli altri in modo interiore, più o meno pudico, ma è anche importante
leggerlo nobilmente riflesso nella sofferenza, di chi sa soffrire senza
lamenti, senza cerimonie sociali, con
saggezza silenziosa, antica, e dunque a maggior ragione con una forza
dirompente ed esplosiva, che queste tele paiono proprio volerci comunicate. “Di
lì, in effetti, si è come perfezionata l’idea dei Santi, santi laici e moderni,
nostri, martiri tra di noi, quotidiani. La capacità di resistere, d’incassare,
di saper tacere, pur senza vero silenzio o rinuncia”.

“Sia chiaro, non stiamo distribuendo
certificati di buona condotta, e l’aspetto biografico, salvo quello che s’è
appena detto, non è poi così rilevante per noi. Anzi, quello che ci interessava
e che ci ha spronato, è proprio la possibilità di toccare e capire il concetto
inconsueto di santi, oggi, nei volti della nostra quotidianità”. “Non siamo
mica Gesù”, ripetono insistentemente, per significare forse che non s’arrogano il
diritto di dare dei voti (semmai danno dei ‘volti’), di stilare delle patenti o
dei registri di classe, per assolvere o premiare, glorificare i prescelti. “Per
carità, siamo gli ultimi a voler affibbiare dei voti di buona condotta, delle
pagelle, sarebbe pure ridicolo. Non c’è nulla di morale o di moralistico, in
questa nostra ricerca, semmai proprio il contrario”. Ma i loro Santi, forse,
sono proprio quelli più lontani al concetto classico di santità, di martirio,
in odore di monito e merito pubblico. “Sono Santi” spiega Pizzigoni che
“resistono alle lusinghe, alle scorciatoie, alle sirene dell’oggi, che negano
il valore ubiquo dell’apparire, del mostrarsi a tutti i costi. Non si
sottraggono all’obiettivo, ma in parte lo ricacciano”. “E’ ovvio che per noi
colui che vuole apparire a tutti i costi od anche un pochino, non può essere un
santo, certo che non lo è, e se è qualcuno che soffre, soffre senza parere,
senza cercare medaglia”, probabilmente anche, senza bisogno di specchi, per
ammirare il proprio ‘eroismo’. “E’ la dignità nella sofferenza o nella
pazienza, che per noi conta, non la sofferenza e basta, sia chiaro”.  Più che avere dei riflettori puntati addosso,
se si scrutano bene queste figure ingigantite e spesso folgorate, risultano
come possedere e diffondere una luce interiore rabbiosa, una forza combattuta e
dirompente, che quasi cancella l’intorno, lo magnetizza, attorno alla calamita
rovente degli occhi e della bocca.

 


Guido (Opera
1) si trova a essere il primo candidato a un concetto di santità che a poco a
poco sta cominciando a farsi strada nella testa, sia perché ha una bella
faccia, con quegli strani occhi di ghiaccio colorato, sia perché non ci si può
astrarre dalla sua storia di martire. (E’ così che si diventa santi, col
martirio, l’altra strada è fare miracoli).

Il
quadro “Guido” che con il vero Guido ha a che fare tanto quanto la Gioconda ha
a che fare con Monna Lisa Gherardini, cioè praticamente nulla, possiede una
forza straordinaria, tale da impressionare chi lo vede tra i primi. Il soggetto
tiene le mani alzate dietro la testa come un uomo che sia stato appena fermato
dalla polizia e arrestato.  Fermato,
arrestato, di più, paralizzato da una forza molto più grande di lui. Un grande
dolore l’ha bloccato dentro un lago di metallo. La sua prigione è solida e
stretta come una corazza. La parte superiore del corpo è libera, ma le mani
sono bloccate dietro la testa e deve essere una forza interna o soprannaturale
che gliele tiene così perché non c’è nessun segno di costrizione visibile.  Ha la potenza dei dannati danteschi, è
Prometeo cementato, anzi metallizzato, invece che incatenato, ha la pelle
colorata, ricorda Hulk, ma, al contrario, questo Hulk non si scatena, non
spacca tutto, ma è in situazione di stallo di fronte al mondo che lo circonda,
impastoiato non tanto dal dolore, quanto dalla responsabilità che la sofferenza
gli ha imposto. Così com’è, con le mani dietro la testa e il busto che
orribilmente spunta da un blocco di argento denso e plumbeo (ci si chiede se la
parte inferiore del corpo c’è ancora o è già stata irrimediabilmente corrosa e
quello che resta è un uomo a metà), Guido sembra urlare. Tutto il quadro urla e
urla in un silenzio terribile perché tanto non c’è nessuno che ascolta. I
colori da sempre usati con straordinaria abilità non bastano più. Ci vogliono
colori nuovi per fare un lago di metallo fuso che si solidifica intorno al
corpo di Guido.

 

Nell’ Opera
2,  se pure qualcuno si è guadagnato
un’aureola che non è soltanto un buco nero, ma è una vera aureola d’oro; ci penserà
l’indifferenza silenziosa del mondo a trasformarla in una bara, trasparente sì,
perché gli occhi di artista non puoi chiuderli mai, devi continuare a
guardare.  Così il grido interiore di
Guido bloccato nella sua corazza-lago, ma ancora terribilmente vivo, trascolora
nella mestizia di Maria Grazia completamente dalla sua stessa santità:
l’aureola, quella vera, d’oro, si allunga e si allarga fino a trasformarsi in
una bara che è anche teca e guardando questo quadro torna in mente l’immagine
di Biancaneve che i nani hanno chiuso in una bara di vetro perché si possa
continuare a guardarne la straordinaria bellezza che non si decompone mai.
Morte contro bellezza, impedire che quest’ultima si decomponga.


Nelle
Opere 4,5,6 (trittico) compare una donna giapponese in tre diverse pose.
Ora
l’Uomo-Artista è invisibile, sofferente, paralizzato e non ci si lasci
ingannare dalle foglioline verde tenero che germogliano da un guanto molto
fashion di pelle nera perché stiamo assistendo in diretta alla trasformazione di
Dafne in albero, d’ora in poi sarà viva sì, ma costretta all’immobilità dalle
sue stesse radici, legami che soffocano, vie di fuga che si chiudono. Ma gli
occhi restano ben aperti, spalancati sulla realtà. E si tratta di occhi che non
si possono chiudere circondati come sono da un doppio giro di filo spinato,
occhi che guardano attraverso il dolore e il dolore è così forte che ha
paralizzato le palpebre.  A che serve
cercare di ripararsi da una pioggia di aghi
con delicate mani femminili? Ci vorrebbe un ombrello di acciaio per non
essere feriti a morte.

 


Invece
nell’Opera 3 compare quella donna giapponese che vorrebbe, quanto vorrebbe,
volare via, ma è trafitta da tutte quelle frecce che non sembrano tanto farla
dolorare, quanto privarla della possibilità di volare. Le frecce la inchiodano
letteralmente a terra, è Icaro a cui non è permesso provare l’ebbrezza del
volo.

 

 


Maledetti,
maledetti! (Opera 9)

Anche i
Santi possono essere tirati fuori dalla grazia di Dio ed esplodere come quel
dio barbuto, quello Zeus incazzato nero che finalmente erutta frecce rosso
fuoco dalla bocca (mai visto un santo tanto irato…). Vano sfoggio di potenza
neanche tanto divina se già si sa che le frecce scagliate, le parole che non si
dovevano dire, gli ricadranno in testa e infatti eccolo con le braccia alzate
in posizione di difesa cercare di proteggersi dalla caduta di qualcosa di
spaventoso.  Ma chi sono i maledetti?
Quelli che soffrono e vivono una vita maledetta? O quelli che non sanno né
vogliono sapere che l’Artista (maledetto?) patisce sofferenze da martire?
Quelli che passano e sono troppo storditi dal rumore per sentire l’urlo
silenzioso dei santi o quelli che fanno così tanto rumore, che riempiono il
mondo di così alte ed inutili strida che la voce dei santi non può più farsi
udire?

“In effetti, io ho un’immagine che mi
perseguita, da sempre, di quando sono andato una volta a New York, e sono sceso
nella metropolitana. Ebbene, quelle scale mobili che sono lunghe chilometri,
che sprofondano nel nulla animato, e nel frattempo incrociano tutti quelli,
anonimi, che salgono, lentamente, non è vero che sono anonimi, tu ti confronti
per pochi istanti con delle facce magnifiche nella loro non bellezza,  impressionanti comunque, che hanno tutte
della storie bellissime da raccontarti, ma non c’è tempo e tu stai scendendo e
le perdi, e vorresti conoscerle, hai davvero la percezione fisica che hai di
fronte dei romanzi che stanno passando e non li potrai leggere, ahimè,
recuperare, mai: storia smarrite” (Pizzigoni). Ottanta, novanta metri di non
conoscenza, ma carica di densità narrativa, di potenza romanzesca, che finisce
di sprofondare nel buio della tua d’insoddisfazione. Ed è un simile tipo di
‘buio’, che questi grandi teleri della resistenza placcata, paion forare, con
la forza del gesto incisivo, della stabilità centrata, nella solida asimmetria
dell’accidente, che si fa fatale e immutabile icona fotografica ‘rubata’.
Bergamo&Pizzigoni, quasi all’unisono: “Se già tu attraversi la strada, hai
come l’impressione che ognuno abbia una storia meravigliosa da riservarti,
tutta per te, anche se al 90 per cento sarà una storia di sofferenza, di
sconfitta, e in effetti anche questa, della relativa casualità d’incontro, è
stata per noi occasione importante, perché le persone che abbiamo ‘incontrate’
nel nostro lavoro, non le siamo certo andate a trovare, non le abbiamo
richiamate con degli annunci sui giornali, venite a noi, i più santi, no, li
abbiamo incrociati via via, dopo ch’è nata questa idea forte di fotografare
secondo una certa idea”, una categoria dello spirito, quasi.

 


Ed ecco
la tentazione del Male (Opera 8), Nosferatu chiama a sé con quella mano adunca,
artigliante, come satana, forse, attira con lusinghe di vita eterna, ma poi lo
vedi enorme, demoniaco, schiacciante, ma ha un’espressione sardonica, non le
manterrà le sue promesse di eternità, glielo si legge in faccia, ti sta
prendendo in giro.

 


(Opere
Cere, 19) Poi entrano in scena nuovi materiali, giornali forieri di notizie
belliche, cera (santa anche quella?), chiodi possibilmente arrugginiti. E i
chiodi nel palmo della mano non hanno niente a che vedere con i chiodi che,
dolorosamente conficcati il venerdì nelle mani di Cristo, erano comunque
preludio alla resurrezione della domenica, straordinaria vittoria dell’Uomo-Dio
sul dolore e sulla morte.  No, qui è in
atto uno strano e inquietante processo chimico: ormai la mano in cui sono conficcati
i chiodi e il braccio sono arrugginiti e a poco a poco la ruggine corroderà da
dentro l’intero corpo. Un corpo perciò che non si decompone, ma arrugginisce,
un uomo, (un santo?) che nella speranza di resistere al male di vivere e di
morire si fa metallico. Il lago corazza che paralizzava Guido ora è diventato
un corpo corazza. La corazza difensiva si è attaccata alla pelle, di più, è entrata
sotto la pelle e ha ricoperto di metallo anche i tessuti, i muscoli e gli
organi interni.  Inutilmente però; il
male e la morte non decomporranno la carne, ma il corpo sarà disintegrato dalla
ruggine. L’Uomo-macchina è quasi pronto per la discarica.

“Per questo abbiamo deciso di usare la cera,
una cera vissuta, simbolica del dolore, che è qualcosa di più di un espediente
pittorico”. La cera, che come una cascata improvvisa prorompe fuori dalle
mascelle urlanti d’un personaggio, che tiene disperato le mani fra i capelli,
come per impedire al cervello di esplodere, e par riversare a terra, vomitanto,
tutto l’orrore del mondo  -in questa
eruzione violenta e solida di cera polimaterica, che allaga la tela, la gonfia
e la rende lebbrosa. E certo non si tratta d’un gioco superficiale, solo
cromatico, post-futurista, alla Prampolini. Fabrizio: “Sì, ho avuto quest’idea
di farmi spedire da Gerusalemme, direttamente dal Santo Sepolcro, la cera usata
dai fedeli per chiedere aiuto e miracoli propiziatori, una cera impregnata di
sofferenza e di speranza. Lo trovo un messaggio importante, dirompente, questo,
d’una materia portatrice, impregnata di dolore e di aspettative, una materia
che va al di là della stessa materia, un colore che è più simbolico, che non
cromatico. Ci è parsa un’idea nuova, diversa da quella d’un celebre artista
cinese, che usa la cenere dell’incenso, per realizzare i suoi quadri. Lì è
diverso, l’incenso, il fumo, lo svaporare della fede, la cenere è volatile, è
qualcosa che si dematerializza davanti ai nostri occhi e ci parla d’una
perdita, la nostra cera, invece, è quanto mai presente e tangibile, materica.
Molto mimetica alla nostra idea di non-religione”.

E però
qualcosa è ancora permesso fare. Si può togliersi la cera dalla bocca e
finalmente vomitare, non è piacevole certo, tutta quella roba che risale dallo
stomaco ed esce fuori dalla bocca, e brucia l’esofago, la gola, il palato, ma è
liberatorio, vomitare fuori tutta la paura di non potercela fare ad essere un
santo, neanche un santo dei nostri giorni, uno che non deve fare miracoli, uno
che non ha il gravoso compito di intercedere presso Dio . O vomitare fuori
tutta la rabbia  di essere invisibile in
un mondo in cui la visibilità è riservata ai peggiori. O vomitare fuori il
dolore della solitudine e dell’oblio, la frustrazione della vita che finisce in
nulla.

Poi certo
c‘è la soluzione estrema, ed ecco Walter che, a differenza di San Giovanni
Decollato, la testa dal collo se la stacca da solo. “Dio è necessario e perciò
deve esistere. Ma io so che non esiste e non può esistere. Non capisci che un
uomo con queste due idee non può continuare a vivere?” E infatti Kirilov si
suicida “per mostrare la rivolta e la mia paurosa libertà.” Dopo aver negato
Dio, si uccide in un atto perfettamente coerente di affermazione suprema del
proprio arbitrio e di sostituzione di sé a Dio.

Ora analizziamo un po’ alcuni elementi
iconografici, che non sono trascurabili, nel lavoro di Bergamo & Pizzigoni.
Per esempio questa sorta di fitta pioggia di fuoco, o di apocalittiche
cavallette oroeargento, che investe i vari personaggi, i quali a stento
riescono a difendersene, con barocche gestualità melodrammatiche. O la stellare
caduta di frecce e punzoni, che convergono tutte verso l’afasia vulnerata,
anzi, l’afonicità di tante bocche trafitte e offese? “Hanno la bocca trafitta,
perché i santi di oggi sono impediti di parlare. Non è che non abbiano parole,
per protestare o gridare, ma è come se nessuno li volesse ascoltare”. Non sono
dunque sintonizzati ai cinque minuti di gloria warholiana del ‘passaggio’
televisivo, “alle vuote sirene del video, certo, nessuno li ascolta né li vuole
sentire”. Sono come sepolti dalla tempesta di frecce vulneranti e di
proiettili-insulto ma rilucono della loro caparbia protesta, con l’essere
ancora in scena, non-vinti. “Il lavoro sui Santi deriva infatti dalla
sensazione dell’afasia. Ma il problema non è di non avere parole, ma di esserne
impediti. E’ di nuovo il problema della nostra Chiesa cattolica, in fondo,
diversa da quella orientale, che ti costringe a una parola controllata,
pilotata, vigilata, che deve sempre esser vidimata dalla confessione,
dall’auscultazione continua, dal controllo morale dall’alto. Quasi una
psicoanalisi antelitteram. E poi, alla fine, ti suona il Te Deum e ti
assolve…ma che cosa spaventosa e soffocante, e così ancora una volta tu sei
costretto a confessare e raccontare tutto quello che ti sta nell’interiorità e
passare comunque sotto a queste scomode forche caudine”. Appunto: non è che
stiamo attribuendo eccessiva simbologia, a queste immagini, che dovrebbero
levitare senza troppa grevità interpretante? O la cercate proprio, questa
immediatezza di lettura critico-simbolica? “Una bella domanda. No, in effetti.
Meglio seminar dubbi, che non veicolare messaggi certi, univoci.
L’interpretazione, in realtà, la lasciamo allo spettatore, non vogliamo
condizionarlo con messaggi simbolici troppo evidenti, ma non potevamo fare a
meno di mescolarci con dei simboli che tutti riconoscono, come la croce o le
frecce”.

Santi sì, laici. Ma santi.

 

Chi sono, quindi, i Santi oggi ?

Nella sofferta agiografia della vita quotidiana, Santi
siamo tutti noi, chiamati, in tempi tormentati

e tormentosi, ad assumerci il carico delle nostre
esistenze. Non più pallide icone di individui ridotti a merce, ma
trasfigurazioni di vite dettate da compiti morali e da responsabilità forti nei
confronti di noi stessi. Santi ed eroi, o prima eroi e poi Santi,
impossibilitati ormai a delegare ad altri la nostra eticità e la nostra
dimensione umana.

E il rifiuto della delega comporta finalmente l’assunzione
di responsabilità e rovescia in anatema la celebre frase del Galileo
Brechtiano, che così diventa “maledetto il popolo che ha bisogno di eroi”.

La vertigine della modernità, oggi, sta tutta qui. Nella
possibilità di attingere, per la prima volta nella storia, al sacro. Ed è un
atto del tutto personale, una scelta individuale che si deifica in una sorta di
lavacro iniziatico. Liberi dai lacci delle deleghe e delle codifiche
sacramentali, e liberi di scegliere vite in cui gloria e martirio sono l’uno in
funzione dell’altro.

Figli di un tempo breve e forzato, consapevoli che
ciascuno di noi può finalmente sperimentare la propria dimensione sacra. Perché
la nostra sacralità risiede nel nostro esistere, nella pienezza di noi esseri
umani, e nel sapere che ciò avverrà per un tempo breve.

Accettare la nostra finitezza e la nostra piena umanità.
Questo il senso del sacro, oggi.

Così, possiamo riconoscere e riconoscerci nelle persone qui
raffigurate, messe in effige.

I santi oggi siamo noi.

 

 

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