Con Rossana Rossanda
Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, lo sguardo dritto e ironico e una pelle di porcellana, ha scelto di vivere a Parigi, dove, come abbiamo letto nell’intervista rilasciata ad Antonio Gnoli su Repubblica, non le dispiace «non essere nessuno». La incontro nella sua casa, luogo di vita e di affetti, circondata da amici, fra mille telefonate e interviste. Da qui, dalla Francia, il racconto di un incontro speciale e unico, come succede sempre ascoltandola.
Il rimanere qualcuno non essendo nessuno, per una donna come te, che ha sempre vissuto pubblicamente, ha attraversato la storia, intrecciato e incontrato destini forti e significativi della vita sociale, rappresenta una bella sfida, vinta senza darlo a vedere e perciò, contemporaneamente, è il segno di una grande forza .
«Dopo essere stata, a torto o a ragione, qualcuno nel proprio Paese, non essere nessuno all’estero dà una grande tranquillità, soprattutto in una fase di grande confusione nelle idee. Del resto, il mio ideale quando ero giovane era di vivere zitta nello studio in una biblioteca! Poi ho tenuto centinaia di comizi, ma mai senza una certa angoscia e senza leggere l’esitazione anche sui visi degli ascoltatori. Di questi episodi è seminata tutta la mia Lombardia, anche se pian piano si impara una certa sfacciataggine. In verità, credevo che si potesse cambiare la società e quindi la situazione del Paese. E questo avevo scelto di tentare, il che mi ha permesso di andare abbastanza baldanzosamente a parlare a destra e a sinistra. Ma gli anni della speranza si sono chiusi nel decennio Ottanta, via via diminuendo, e adesso non saprei onestamente come dire, alle piccole folle di operai o contadini che mi verrebbero forse a sentire, che non è possibile migliorare il mondo senza un grande sforzo di analisi e di cambiamento. Quindi ripararsi nell’essere nessuno è anche una facilitazione».
Parlare di politica sarà forse difficile. Ma rispetto all’amore e alla vita hai tanto da dire. «Ho avuto una vita d’amore fortunata!» mi hai raccontato l’altra sera…
«Ho avuto due uomini un po’ speciali che mi hanno non solo lasciato fare quello che volevo, ma che si aspettavano lo facessi… Il che non capita a tutte le donne! In genere, ho avuto una vita fortunata, ricca di occasioni e di incontri come quello con te; e di questo credo di dover ringraziare il Partito che mi ha scatenata in giro per l’Italia e per il mondo. Questo partito è oggi ricordato da chi ne ha fatto parte come una galera; io non ho questo ricordo, anche se di scontri ce ne sono stati, senza mai però esagerare. Quando mi hanno escluso, non avevano torto: non ero d’accordo su niente».
C’è una cosa che mi ha dato da pensare: la scelta di rimanere a Parigi risale a quando Karol ha avuto problemi con la vista, per non sradicarlo dalle voci, dai suoni, dagli odori, dalle sensazioni di questa casa.
«Ho scelto sì e no: non è che mi rimanessero molte alternative. Penso che quando si incontra un’altra persona con qualche impegno di vita comune non si può abbandonarla quando è nei guai. Ho dunque accompagnato Karol (nota 1), che è stato un delizioso compagno molto sfortunato; e non potevo che raggiungerlo a Parigi, luogo per altro ricco di stimoli e tutt’altro che simile a un romitaggio; tanto più che io potevo conservare via e-mail molti dei miei rapporti italiani, mentre lui era bloccato nella vista e nei movimenti».
Be’, c’era la possibilità di Roma. Però ricordo la tua risposta decisa di allora: «Non posso, non posso sradicarlo!».
«Eravamo in situazioni diverse, la sua molto più sciagurata della mia. In qualche modo siamo riusciti a ridurre di un poco il danno. Dico in qualche modo perché granché non si poteva fare; la cosa più triste è che spesso gli veniva da dirmi (mi chiamava Topo): “Topo, je suis très malheureux”. La vista non si può dare a nessuno e la sua perdita da anziani non è rimediabile; i più giovani riescono in qualche modo a supplire. Karol non poteva riuscirci».
Aveva anche una storia molto pesante alle spalle. Tutta la sua famiglia deportata…
«La madre e la sorella. E più lui invecchiava, più erano presenti alla sua memoria, anzi al buio della memoria, dal momento che sapeva che erano finite ad Auschwitz, ma nient’altro».
Una volta mi hai detto: «In quel buio, è come se riemergessero i fantasmi del passato che lui tutto sommato aveva abbastanza controllato».
«Non solo controllato, ma credo in parte rimosso. E dal rimosso tornavano con una forza che prima non avevano avuto! Essere sopravvissuti alla guerra, come è successo a lui, riparato in Unione Sovietica dove ha fatto la guerra e qualche tempo di prigionia; insomma l’essere sopravvissuto gli ha procurato un senso irreparabile di colpa».
Ricordo che eri molto arrabbiata con gli analisti francesi in quel periodo.
«Ah sì, molto. Ne ho provati due con lui, il terzo non ha voluto neppure cominciare. È venuto una volta e poi basta. Non ho capito bene per quale motivo, perché in fondo avere Karol come paziente poteva essere interessante. Non era un caso di psicosi e neppure di vera e propria nevrosi; aveva il peso di una vita difficile come molte del Novecento. Oggi non possiamo più nemmeno immaginarla».
Hai avuto anche l’esperienza durissima di Lucio Magri che hai deciso di accompagnare in Svizzera a morire. Anche qui ricordo le tue parole: «Un amico non si lascia andare solo».
«Molti compagni me l’hanno rimproverato dicendo che accompagnarlo significava incoraggiarne la scelta. Non saprei; certo non mi pareva decente lasciarlo solo, e l’esperienza di quei giorni mi ha confermato che il mettere fine alla propria vita è una scelta non facile, ma seria: non era disposto ad accettare una vita qualsiasi, con il cadere di tutto quello che più gli era stato a cuore. Troppi ex comunisti si rassegnano senza difficoltà a diventare ex democristiani o qualcosa di simile. Lucio aveva investito nella scelta politica tutto e quando ha perduto tutto (anche sul piano degli affetti personali) non ha sopportato di vivere in un modo qualunque. E – perché no?- io penso che si possa disporre della propria vita. Ne aveva perduto il senso più di quanto sia successo a me».
Perché più di te?
«Nella mia intervista per Repubblica hanno scritto per errore che ero provata da un fallimento. Parola che non ho pronunciato. Si può essere sconfitti senza aver fatto colpevolmente bancarotta e questo io penso della mia storia e del resto anche della sua. Ma io avevo da pensare a Karol, e di sconfitte avevo una certa pratica. Prima quella addirittura auspicata della guerra: non è normale desiderare che il proprio Paese venga sconfitto. Quando la guerra è finita e all’Italia non restava nessuna giustificazione, intorno a me sul passato c’era un grande deserto. Poco dopo, un’altra Italia ha cominciato a vivere, al contrario non era la stessa cosa. È un’esperienza educativa, sapere che bisogna uscire da un’ipotesi sconfitta, ed è addirittura una fortuna. A dire la verità, l’Italia non sembra aver fatto davvero i conti con gli errori degli anni Venti; mi sembra che la Germania abbia riflettuto e patito di più. E anche riflettuto di più. Il Memoriale degli Ebrei alla porta di Brandeburgo a Berlino è un monumento che mi ha impressionato; da noi non c’è nulla di simile. E abbiamo avuto degli storici come Renzo de Felice che ha gettato la responsabilità di tutte le nostre colpe sui tedeschi».
Nella Ragazza del secolo scorso, lì dove parlavi dell’adolescenza, colpisce il tuo ripetere che coglievi segni del tempo senza possibilità di comprenderli.
«Sì, è vero! Molto spesso gli adulti tengono fuori dalla realtà i figli, di modo che non pesi troppo su di loro. Ma non so se sia una buona scelta».
Secondo te, in che modo i giovani d’oggi sono interessati alla politica?
«Non mi pare che lo siano molto, a quello che ho visto in Italia e vedo qui. Forse è una reazione di difesa, un po’ come il disinteresse per tutto ciò che riguarda la conoscenza del fascismo. Invece bisognerebbe saper prendere le distanze senza ignorare quello che è stato. Qui in Francia, sento che i più sono sorpresi che il comunismo abbia riempito buona parte del secolo passato, ma nessuno mi sembra fare i conti con quel che è successo nei Paesi comunisti, penso all’Unione Sovietica, alla Cina e a Cuba. Si preferisce considerare che fin dal principio sia stato tutto un errore, cosa che in pratica significa non assumersi la responsabilità di niente. Invece occorre chiedersi- io almeno penso così – dove abbiamo sbagliato e in che cosa. E fino a quando si sarebbe potuto e dovuto rimediare. Ci sono anche responsabilità e colpe sulle quali non è serio passare una spugna. Per quanto riguarda la mia maggiore forza nel non lasciarmi completamente abbattere dal crollo dell’idea stessa di comunismo, lo attribuisco alla mia ostinazione e anche al fatto di essere donna: noi sopportiamo di più, o forse siamo abituate al peggio».
Ripensando ai trentacinquenni che si sentono “giovani”, mi chiedo quanto una società basata sempre di più sul profitto, sulla velocità, con una grossa perdita di idealità, incida sulle nuove generazioni, come se la legge del mercato avesse vinto.
«Ma ha vinto la legge del mercato!».
Percepisci una differenza nel modo in cui maschi e femmine vivono questo cambiamento?
«Non su questo punto. Non posso dire che sul destino o la fine di alcune grandi questioni storiche ci sia una differenza; c’è solo, ripeto, una resistenza epocale delle donne rispetto a una maggiore fragilità degli uomini».
Nel senso che le donne hanno saputo mescolare meglio pubblico e privato?
«Sono state storicamente confinate nel privato, un privato anch’esso configurato sulle priorità maschili. Non mi pare dunque che si possa fare nel loro caso un discorso di responsabilità; sono state messe in un recinto dal quale non era possibile uscire. Ne deduco anche un certo scetticismo su quelli che le mie amiche femministe chiamano “i saperi delle donne”; certo ci sono anche i saperi tipici di chi ha passato molti anni in prigione, ma dubito che siano in qualche modo positivi. Certo, le donne hanno un’esperienza particolare di quella che chiamiamo vita privata, mentre per i maschi la priorità è stata la vita fuori dalla famiglia, fino all’estremo della guerra. Anzi, fa parte della loro ideologia (e della precedenza che danno al proprio benessere) il principio che le donne possono fare a meno di vedere oltre le finestre della famiglia. Rousseau prevedeva che l’educazione femminile dovesse essere limitata ai problemi familiari. Anzi, al benessere del marito e dei bambini. Questo non ha aiutato noi donne a diventare anche socialmente adulte, sappiamo piuttosto piangere che intervenire a cambiare le condizioni della nostra esistenza. Nel secolo scorso, molte di noi hanno avuto vite differenti, penso le mie compagne di scuola: alcune hanno avuto una esperienza politica, molte un’esperienza professionale, altre un’esperienza soltanto familiare. Per quelle che ne so, se ne sono tutte dolute. Credo peraltro che nel secolo scorso nulla sia stato cosi modificato come l’esistenza delle donne, a cominciare dal modo di vestire (via il busto e avanti coi capelli corti dopo la Prima guerra mondiale, mentre grandi cambiamenti anche legislativi sono venuti dopo il secondo conflitto). In tema di lavoro – a parte poche perché molto abbienti o molto disgraziate – lavoriamo tutte. Anche nella politica è cresciuta la partecipazione femminile, anche se le donne potrebbero appropriarsene molto di più. Certo, riguardo al lavoro, sia gli uomini sia le donne sono in parte preda delle vicissitudini economiche, cioè delle scelte del capitale: per molti oggi è difficile anche accedere ad un salario, problema che io per esempio non ho conosciuto».
Non pensi anche che, sotto sotto, ci sia un razzismo strisciante che non riusciamo a debellare?
«Il razzismo di oggi è diverso da quello di un tempo: non è ancora debellato, ma almeno ci si vergogna di essere razzisti».
Ancora non c’è parità.
«Neanche tra donne e uomini. Però nessuno osa dire a chiare lettere che le donne sarebbero inferiori agli uomini: c’è un maschilismo che non si enuncia ma che un uomo su due pratica».
La scelta di essere non qualcuno, della quale dicevamo all’inizio, è anche una risposta alla situazione attuale politica?
«Scusami mi sono espressa male… Il punto è che non conosco la risposta ai grandi interrogativi e penso che questa insufficienza sia grave, non mi lascia tranquilla perché non mi racconto delle storie, non dico che ho delle soluzioni pronte sufficienti. Appartengo davvero alla cultura del secolo scorso, che per altro non considero tutta pessima. È stato il secolo dei fascismi, ma anche quello in cui delle masse hanno messo fuori la testa, fuori per la prima volta».
Senza calcare troppo su questo aspetto, devo dirti che ti ho molto ammirata per come hai affrontato la tua malattia.
«Non mi pare di essere eroica, mi lamento in continuazione e miagolo come un povero gatto…».
Ma l’altro è sempre presente a te.
«Sono dotata di buon senso. Non di eroismo».
Colpisce, invece, questo tuo dare uno spazio all’altro, dalle badanti che hanno problemi a chiunque si avvicina e di cui ti interessi anche nei momenti per te più difficili.
«Ma questa è una cosa che ho imparato dalla infanzia: i miei molto amati genitori sono stati molto sfortunati. Ho capito presto che cosa significa essere lasciati soli».
Mi ha sempre incuriosito la tua partecipazione al gruppo di Monte Giove in amicizia con padre Benedetto Calati, Mario Tronti, Pietro Ingrao, Giuseppe Barbaglio, Filippo Gentiloni Lorenza Carboni, un gruppo di persone in dialogo tra credere e non credere, un grande dialogo tra due mondi, ricco e vivo. Ma qual è il tuo rapporto con la fede, Rossana?
«Io non ho una fede ma penso che il cristianesimo sia un conquista dell’Occidente molto importante e che noi non possiamo pensare senza di esso. La fede l’ho avuta da ragazza e ne ho avvertito il pericolo di affidare ad altri, insomma a un essere supremo, tutte le questioni di cui noi mortali siamo responsabili per azione o omissione. Quindi il dialogo fra credenti e non credenti non mi appassiona. È evidente che chi crede in piena serenità ha una marcia in più, ma penso che non siano molti a credere “in piena serenità”. Il credente è un fenomeno a parte, è qualcuno che possiede una marcia in più, ma dentro al mio cuore penso che sia anche qualcuno che ha un’illusione in più».
Questo te l’ho sentito ripetere più volte… Hai sempre parlato della trascendenza come di una marcia in più. Mi sono spesso chiesta se sia la trascendenza quello che hai vissuto nell’idealità politica.
«Non è una trascendenza: l’idealità politica dovrebbe essere una assoluta aderenza al reale. Per questo mi pesa tanto non essere riuscita a convincere chi mi era attorno o almeno troppo pochi ».
Fa effetto sentirlo dire da te, una donna che ha avuto una vita piena, incontrato tante persone, alla quale tanti hanno voluto bene…
«È vero, e di questo non mi lamento perché so che è cosi malgrado tutti i miei limiti. Prima di andare – come si usa dire – “all’altro mondo”, vorrei avere la possibilità di scrivere una parola a tutti quelli che ho incontrato, una parola di ringraziamento perché sono quelli a cui ognuno di noi deve di più, e sono moltissimi. Non posso dire che non ho conosciuto anche quelli che ti mollano e voltano gabbana, ma non sono l’essenziale».
Sarà che io ti ho sempre sperimentata dentro rapporti molto belli e diretti, ricchi. Penso anche al tuo rapporto con padre Benedetto, il generale dei padri camaldolesi, legatissimo a te.
«Eravamo innamoratissimi tutte due l’una dell’altro. Lui era straordinariamente aperto, mi ricordo una volta che, nei meandri di Monte Giove, arrivai all’improvviso in un corridoio imbattendomi in Benedetto che dava una solenne sgridata ad Innocenzo: «Perché non avete il coraggio di affrontare i problemi del lavoro che pone Rossana?». Si riferiva all’ingiustizia nel lavoro.
La domanda è quasi di rito: ti ho sentita parlare bene di papa Francesco, pensi sia arrivato l’uomo giusto?
«Sì, non parla solo come un sacerdote o un uomo di Chiesa, ma come un cittadino, è di sinistra. Mi sorprende che un sacerdote eletto papa demolisca diversi aspetti della morale cattolica devozionale, comprensibile anche ai più semplici, e si chieda: “ma chi sono io per condannare divorziati o gli omosessuali” ? Non è una scelta facile, implica una idea della morale colta e complessa. E capisco che possa essere preso dal dubbio, che si domandi: “ma che cosa sto facendo? Abolisco una tradizione che semplificava alquanto le cose? Che offriva un terreno di sicurezza, inoltrandomi in acque complicate?”. Non c’è dubbio che la cosiddetta morale comune renda apparentemente più facile la vita della gente che chiamiamo semplice. In questo c’è sicuramente una verità. Penso alle donne e alle ragazze di adesso, cui sono aperte molte più possibilità di un tempo, ma non è detto che siano più felici. La libertà complica le scelte; per esempio la “liberazione sessuale” porta spesso le ragazze a doversi assumere delle responsabilità che un tempo non erano neppur prese in esame, e hanno un posto pesante.
Prendiamo una come me. Mi ero liberata di tutto fuorché dalle forme di inibizione che derivano dalla mia educazione, sessanta anni fa: non sono una di quelle che da giovane sono saltellate da un letto all’altro, come dire sono stata molto “perbene”, ma non penso che sia stata tutta e soltanto una difesa che mi veniva inculcata. Non so, vedo diverse giovinette molto infelici perché intrappolate in situazioni che l’attuale società rende difficili da risolvere. Io appartengo a un tipo di donne che hanno molti difetti, spesso sono insopportabili, ma non passano il tempo gemendo, stupite di non avere “tutto e subito”».
Nonostante l’età e l’ictus, che ti ha tolto alcune possibilità…
«…Mi ha tolto metà del corpo: è un gran fastidio».
Eppure, prima, mentre mi mostravi ombretti e creme per il maquillage necessario per l’intervista televisiva di domani, pur sapendo che non sei una donna «vezzosa», ho pensato che ci fosse una leggerezza, una bella condivisione fra donne, qualcosa di cui è capace solo chi non si piange addosso e, alla fine, ha ancora voglia di truccarsi.
«Anche se fra me e me mi piango addosso, non impongo al mio prossimo una presenza lamentosa. Ma mi sembra di essere stata proprio maltrattata da questo stupido ictus, ho conosciuto molte malattie, guarendo sempre; ecco invece, questa volta, una malattia da cui non si guarisce!».
Però, nonostante questa «stupida cosa» da cui non si guarisce, continuo a sentirti profondamente vitale nella testa, negli affetti, nell’arguzia e nell’ironia.
«È un’abitudine che viene anche dall’età; a 91 anni, o sei così o sei proprio fritta».
Mi vengono in mente alcune tue lamentele su come sono trattate le persone anziane negli ospedali, anche se non sempre e non in tutti.
«Eccome, sono contraria alle istituzioni per vecchi; è chiarissimo che sono pensate per persone per cui si attende a tempo breve la morte, che si levino dai piedi. I vecchi con i vecchi sono una cosa feroce: anche nei migliori ospedali vedono sì e no la domenica i figli che lavorano; oppure ne hanno uno (di solito una) che si occupa tutti i giorni di nutrirli e rincalzare loro le coperte, come in un vero calvario. Penso che i vecchi devono vivere in mezzo alle esistenze normali, fra gente di tutte le età, e curati più o meno come loro: ho provato anch’io a essere una vecchietta ammalata e bisognosa di tutto, ma mi sono sforzata di stabilire con le infermiere un rapporto da giornalista… E me le sono fatte amiche. Almeno credo».
Mi viene una domanda cui mi sollecita il mio lavoro: secondo te, noi psicoanalisti in che modo dovremmo essere più capaci rispetto alla vita ? Come proteggerla, promuoverla?
«Secondo me, la maggior parte di voi non se la cava male e fate bene a occuparvi soprattutto degli adolescenti. È un momento delicato nel quale si formano i parametri di giudizio: nell’adolescenza succedono cose abbastanza decisive per la mente. Conoscere alcuni dei propri meccanismi interiori è una salvaguardia. Aggiungo poi che c’è una difficoltà da parte di molti a parlare di sé, in modo particolare da parte degli uomini Capisco che questo possa anche fare arretrare molti di voi».
Tu hai avuto molti amici psicoanalisti francesi, anche di un certo valore culturale.
«Uno di essi in modo particolare, era molto affettuoso con me, mi ha sempre mandato i suoi libri, però di Karol non si è voluto occupare; e quando gli ho chiesto aiuto per me, fra i cinquanta e i sessant’anni, mi ha risposto: “Non tentare un’analisi, sei una persona equilibrata, hai in buona parte risolto la tua vita, perché devi aprire degli interrogativi che ti faranno male? Non farlo!”. Non sono sicura che abbia avuto ragione».
L’analisi non significa solo aprire interrogativi, ma fare un pezzo di strada insieme. Si cresce insieme. Quando tu dici nell’intervista di Gnoli “la nostalgia deve rimanere un ricordo” lasci percepire una tua tenuta, una solidità rispetto al consentire al bisogno e al desiderio di dilagare irrisolti.
« Io e questo mio amico psicoanalista siamo stati molto vicini, ma l’idea che potessi fare un percorso insieme lui l’ha tolta di mezzo subito. Forse aveva ragione, c’era molta più gente di me sofferente davvero. A conti fatti mi è andata bene! Non sbatto la testa al muro, salvo che per questo maledetto ictus che sbatterei al muro».
Due eventi dolorosi hanno segnato questi anni: la morte di Lucio Magri e l’uscita dal Manifesto.
«Credo che un dolore ti indebolisca anche fisicamente, per cui puoi essere più facilmente preda di una malattia. Come ti ho detto, la risoluzione di Lucio per me è stata decisiva, non potevo che rispettarlo e non condivido che molti dei suoi amici abbiano pensato loro dovere opporsi o quanto meno “non esserci”. Anche se rispetto l’idea di chi mi ha obbiettato: “non si vive mai soli, e interrompere la propria vita significa tagliare molti fili compartiti con altri”. È un’altra idea della vita e della responsabilità personale. E per quanto abbia affrontato questa scelta con molto stile, il fatto che prima di bere la pozione che l’ha mandato all’altro mondo mi abbia abbracciato dicendomi addio vecchia… Insomma, è importante che qualcuno fosse lì con lui. Mi è parso di aver adempiuto a un dovere».
Sono delle esperienze talmente private, personali che fatico a entrarci dentro. Ma, per quanto io sia per la vita, se Magri ha scelto così, mi sembra di doverlo rispettare.
«È quello che penso anche io! È una scelta definitiva, ma ritengo che si debba rispettare chi la fa».
Ti ringrazio infinitamente.
«Siamo riuscite a fare quello che volevi!».
Ancora una cosa. Forse tuo malgrado, sei una testimone importante del secolo: che ne dici? Aspetta, non guardarmi male! E non fare grrr!
Parigi, 8 aprile 2015
L’intervista è pubblicata nel sito del Centro di Psicoanalisi Romano
Nota
1) Karol Kewes, nato a Łódź, in Polonia, nel secolo scorso e scomparso nell’aprile 2014. E’ stato un giornalista e scrittore tra i fondatori de Le Nouvel Observateur e firma storica del Manifesto
Molti i suoi libri scritti in polacco.
Tra i suoi libri tradotti in italiano: “La Polonia da Pilsudski a Gomulka” (1959); “La Cina di Mao; “L’altro comunismo” (1967); “La guerriglia al potere”; “Itinerari politici della Rivoluzione cubana” (1971); “La seconda rivoluzione cinese” (1974); “Solik. Peripezie di un giovane polacco nella Russia in guerra” (1985).