Ricordo di Paolo Fabbri
Lorena Preta
Paolo Fabbri era un semiologo famosissimo, internazionale e coltissimo che sapeva giocare con le parole come se fossero leggere e manovrabili, pur sapendo quanto fossero anche consistenti e sempre cariche di senso.
E le mostrava agli altri per farle scoprire e farle ammirare, come si può fare con degli oggetti d’arte. Poteva evocarle e proporle sulla scena qualsiasi argomento indicassero, alto e basso, eccelso e volgare, quotidiano e metafisico, razionale e affettivo, storico e immaginifico perchè sapeva che dentro un vocabolo c’è tutto, il corpo e l’anima, la mente soggettiva e l’immaginario sociale.
Un’estensione di pensiero amplissima, uno sguardo che sapeva sporgersi a trecentosessanta gradi. Aveva frequentato il pensiero di Greimas suo maestro, di Roland Barthes, di Umberto Eco con il quale aveva condiviso anni di amicizia e anche di raffinate divergenze, di Baudrillard suo amico carissimo, Derrida, Deleuze, i pittori Adami e Baruchello e insomma tutti i maggiori pensatori, scrittori e artisti dell’ultimo mezzo secolo.
Non escludeva però dal suo conversare il pescatore che rammendava le sue reti nell’isoletta greca al caldo di una serata estiva, presso il quale si informava attento sulla tecnica della ricucitura. E quando si stava facendo tardi per la cena, lui che era educatissimo, smetteva di domandare contento della ricca pesca di informazioni e collegamenti nuovi che la conversazione aveva generato, ma consapevole che quel discorso interrotto sarebbe potuto continuare all’infinito.
Può sembrare retorica ma chi lo conosceva sa che era esattamente così. La sua capacità di curiosità e di dialogo non era però fine a se stessa, sapeva che di qualsiasi nuova acquisizione avrebbe fatto qualcosa in un altro momento, da un’altra parte ed era solo un’aggiunta che non l’avrebbe distratto dal suo compito principale che era quello di continuare a rinsaldare con i suoi studi, i fondamenti della disciplina semiotica il cui compito per Fabbri era studiare i processi di significazione.
E’ uno dei punti sui quali la sua prospettiva si agganciava con facilità alla psicoanalisi che lui apprezzava e difendeva da qualsiasi forma di riduzionismo o di impoverimento epistemologico. Gli interessava estrarre dal corpus teorico freudiano quegli elementi che potevano dare luce allo studio del linguaggio inteso nella sua funzione di azione sulla realtà: “Il linguaggio non è fatto per rappresentare stati del mondo; esso serve semmai a trasformare quegli stati, modificando al tempo stesso chi lo produce e chi lo comprende” (Fabbri 1998)[1].
Paolo non scriveva molto, anzi come succede a molti eccezionali parlatori privilegiava la comunicazione orale ma i pochissimi libri scritti hanno segnato lo sviluppo della semiotica in Italia e anche all’estero dove era conosciutissimo. Il breve ma fondamentale libro del 1998 La svolta semiotica, da cui è tratta la citazione, oltre che determinare un cambiamento di direzione nello studio del linguaggio, è quello che più si presta ad una correlazione con temi cruciali della psicoanalisi.
La considerazione dell‘affettività come motore centrale della comunicazione infatti per Fabbri cambia in maniera radicale il vecchio modello semiotico che si costituiva su basi cognitive e referenzialiste e “l’entrata pertinente delle dimensione passionale all’interno dell’analisi semiotica altera radicalmente l’intera teoria della significazione” (pg 28)
La collaborazione di Fabbri con Greimas lo aveva portato a considerare che i segni sono connotati passionalmente e quindi soggetti a trasformazioni di tipo relazionale e contingente. Inoltre gli aveva fatto relativizzare il modello basato sull’analisi del codice, che sottende ogni sistema di segni, per portare in rilievo il testo e quindi il racconto.
Ma anche la considerazione del testo per lui aveva una caratteristica precisa che non riguardava solo tutto quello che poteva essere ricavato dalla sua decodificazione o interpretazione.
Il linguaggio infatti più che essere rappresentativo del mondo ha un’efficacia simbolica sul mondo in quanto immerso nel sistema dei segni sociali che gli consentono di dare alla comunicazione una data forma nei vari periodi storici.
I segni quindi fluttuano nel mare del contesto storico, dei codici linguistici, degli affetti che li caratterizzano, designando nuove espressioni
per nuovi oggetti, come accade per le protesi che occupano ormai il nostro apparato comunicativo e che non sono più distinguibili dal soggetto al quale si applicano o che le usa. Ibridazioni uomo-macchina che generano nuovi esseri che ormai occupano la realtà dei nostri corpi e del nostro immaginario.
Attento ad ogni nuova produzione di segni sapeva individuare la continua e nascosta formazione delle attuali icone della globalizzazione rendendo possibile così rintracciarne il significato psicologico e culturale.
Anche solo da questi brevi accenni si può capire come l’avanzamento della semiotica inaugurato da Fabbri racchiuda una serie di prospettive che anche la psicoanalisi ha in vario modo elaborato e arricchito nella sua teoria occupandosi dei vari livelli di trasduzione tra apparati.
E se tante sono state le occasioni in cui è stato possibile per la psicoanalisi un confronto con lui, pure resta il rimpianto per quante ancora se ne sarebbero potute organizzare e quanti stimoli il suo pensiero avrebbe potuto ancora fornire per navigare nel mare dei segni della psiche e della cultura sociale.
Nota
[1] Paolo Fabbri, La svolta semiotica, pag. 27, Laterza 1998