Pubblichiamo il racconto dei fatti che hanno portato alla realizzazione del film-documentario “Boez-andiamo via”
Perché “Boez-andiamo via” è importante
Tito Baldini
Fra tutti i campi di applicazione della psicoanalisi, nessuno ha suscitato tanto interesse, ispirato tante speranze ed attirato tanti valenti ricercatori, quanto la teoria e la pratica dell’educazione (…). Il mio contributo personale a questa applicazione è stato assai limitato (…). Ciò non vuol dire però che io non apprezzi il grande valore sociale dell’opera che attira tanti miei collaboratori nel campo pedagogico (Sigmund Freud).
L’evento serale dell’ultimo Congresso b/a (novembre 2019), per volere dell’Esecutivo nazionale, è stato dedicato al programma RAIFiction “Boez-andiamo via”: dieci puntate per entrare nel cammino, lungo 910 chilometri, effettuato a piedi da sei giovani condannati. I ragazzi erano accompagnati da registi, una troupe televisiva, una guida escursionistica e un’educatrice di comunità (coordinatrice dei gruppi in cammino). Il progetto ha visto la collaborazione tra il Ministero di Giustizia e RAIFiction e si è realizzato con il sostegno attivo di SPI.
Ma Boez origina da lontano. Nel quartiere romano di San Lorenzo, un posto difficile, soggetto a degrado e recentemente anche luogo di stupro e morte (ricordiamo tutti il drammatico caso di Desirée avvenuto a San Lorenzo nel 2018), da molti anni a cadenza mensile, prima nelle librerie e ora anche in istituzioni pubbliche, conduco incontri gratuiti di sensibilizzazione alla psicoanalisi applicata alle professioni d’aiuto. Gli incontri sono aperti a tutta la cittadinanza. Nel tempo, salendo e scendendo come da un autobus, a questi appuntamenti hanno partecipato educatori professionali, assistenti sociali del pubblico e del privato, giudici del tribunale per i minorenni, magistrati, accademici, intellettuali, giornalisti, gli abitanti di San Lorenzo e anche di altri quartieri e tanti studenti universitari della zona, spesso “psi” di vario orientamento e così via. Tra di loro vi erano anche le funzionarie RAI; Paola Pannicelli e Monica Paolini che presero parte agli incontri al San Lorenzo dopo aver partecipato, negli anni precedenti , a due annate seminariali su “Freud e gli stati limite della psiche”. Quando alle due funzionarie fu proposto di realizzare un lavoro su “ detenuti e cammino”, secondo un format televisivo sperimentato altrove, Panicelli e Paolini ritennero di mettere come condizione alla realizzazione dell’opera , la possibilità di avvalersi della consulenza di psicoanalisti. Ritenevano, infatti, che la Televisione di Stato per svolgere una nuova funzione educativa e sociale non potesse prescindere dalla possibilità di lettura dei fenomeni psichici offerta dalla psicoanalisi, nello specifico per il recupero e la riabilitazione dei condannati.
E così un pomeriggio d’estate vennero a trovarmi a studio e tutto si mise in moto. Nell’incontro con registi, produzione – Stemal intraitment (cfr il pluripremiato “Cesare deve morire”) – e altri, ero spaesato, non sapevo come portare il mio mondo nel loro, che volevano realizzare un programma di successo. Ma le due signore mi sostennero, parlarono la mia lingua e la loro: riuscimmo ad intenderci! Dal mio canto, io ero un po’ sulla difensiva. Proposi alcune condizioni : avrei accettato di collaborare solo se tutta la squadra avesse partecipato a una lunga esperienza gruppale presso il mio studio una volta alla settimana, e se una persona con una salda formazione psicoanalitica avesse potuto essere inclusa nel loro gruppo, e partire con esso e i detenuti per lavorare sui gruppi in cammino. Accettarono! I lunedì sera, dopo il lavoro, ci incontrammo regolarmente , mettendo insieme provenienze geografiche e mentali differenti e avviando così un percorso in cui un gruppo di professionisti entrò con l’idea di realizzare una fiction e usci con quella di salvare vite (tra le quali, in parte, anche la propria). L’altra condizione era la presenza di Ilaria: l’educatrice professionale che volli nel progetto. “Ilaria è cresciuta a pane e Freud, Winnicott e Bion”, dissi presentando Boez al Congresso, per anni ha gestito come residente una comunità per bambini e adolescenti difficili, psicoanaliticamente orientata, ove tutti potevano fruire di formazione, supervisione sui casi e di lavoro di gruppo col gruppo degli operatori. Il concetto di Controtransfert – a cui, oltre ai francesi (Pontalis, col suo “Vivo e il morto intrecciati”), anche la tradizione italiana ha tanto contribuito (tra altri Russo con cui mi formai) – era, dato il suo training, profondamente radicato in lei. Mi pare significativo, a questo proposito, ciò che disse a tutti, una sera, quando raccontò che lei in cammino, per aiutare Francesco, arrivò a sentirsi “incarnata” con lui, pur sempre rimanendo sé stessa, mentre noi abbiamo potuto ‘videosservare’ che Francesco, la vera e più strutturata “mente criminale” del gruppo condannati, usava, per aiutare gli altri come lui (gradualmente divenne un affidabile collaboratore dell’operatrice), il pensiero di Ilaria, assunto, da allora in poi (ho notizie di lui), come proprio. A farla breve, di fatto, lui non pensa più come pensava prima, e questo perché sul proprio cammino ha incontrato – tramite Ilaria, Paola e Monica, i Registi, la guida escursionistica e la troupe – la psicoanalisi applicata al recupero del funzionamento dello psichismo dei condannati, nel senso della restituzione ad essi della possibilità di pensare i propri pensieri. E, come quel gruppo in formazione nel percorso insieme considerava, nessuno, che possa pensare liberamente, sceglierebbe soluzioni come la delinquenza che, statisticamente, porta “a vivere male, a vivere meno e a vivere poveri”. Quello divenne lo slogan del gruppo di lavoro, misto, integrato e pronto all’azione d’aiuto, sotto l’egida della psicoanalisi. Omar, il ragazzo “al limite” del gruppo condannati, non sta ancora bene: se continuiamo, come facciamo, la collaborazione delle istituzioni che lo hanno in custodia anche lui potrà essere aiutato per tramite della psicoanalisi applicata.
Ora, è più semplice: la nostra Presidente Nicolò e la Presidente RAIFiction Andreatta, insieme, dialoganti, curiose e disponibili considerano Boez una “esperienza-prototipo” da poter declinare in tanti altri ambiti, e avviare collaborazioni SPI-RAI utili alle persone.
La divulgazione dell’ottica psicoanalitica come un’importante chiave di lettura della realtà, della salute, della condotta e della malattia è difficile, ma è il punto di vista che produce i migliori risultati per rendere armoniose le esistenze. La difficoltà è vincere i pregiudizi. Prima di tutto quelli interni alla psicoanalisi, e coinvolgersi in opere di divulgazione di detto sguardo sulle vicende umane nel mondo lontano dalle sicurezza rappresentate dallo studio, dai nostri libri, dai nostri orari, dai nostri amici, e raggiungere territori di frontiera della mente e delle Società, come le carceri, le curve degli stadi, le periferie degradate. Qui nascono vivono e muoiono persone senza esserne mai uscite, ove il pensiero si fa rudimentale fino al branco, la visione prospettica scende fino ad azzerarsi, il tempo cosificato allo scorrere degli istanti senza sequenzialità. Le nostre teorie spiegano tutto ciò ma noi fatichiamo a portarci con esse là e operare, come “psicoanalisti senza frontiere”, a imparare che se vuoi diffondere la tua “fede “devi innanzi tutto apprendere la lingua e la “fede” di chi vuoi convertire, vita e costumi, e fonderti con loro, rimanendo te stesso, come insegna la migliore teoria del Controtranfert (oltre che la storia delle religioni). Chi lo fa scopre, come me e molti di noi in tanti ambienti sociali, che “loro” non hanno pregiudizi verso di noi, se noi parliamo facile e adattiamo il modello alle loro necessità: gli educatori che seguo conoscono Bion anche se parla difficile perché è stato loro spiegato “passo passo” ed adattato all’uso coi loro ragazzi difficili e difficilissimi. Con alcuni gruppi abbiamo sviluppato una sorta di forma di dipendenza dai seminari su Winnicott, Bion e Freud, e cercando di capire come mai questo accadeva abbiamo compreso che davano talmente appoggio e senso e vie di soluzione e risultati ottenuti, che, per paradosso, si arrivava a subirne la dipendenza per senso di rassicurazione. E parliamo di educatori di comunità, di operatori di centri di aggregazione giovanile, di gente pratica, con le mani nella pasta e nel fango. Io penso che noi psicoanalisti possiamo, nel giusto modo, portare fuori casa le nostre difficoltà, ciò aiuta a risultarci credibili e veri. Trovo che il concetto di operare oltre facesse parte della struttura epistemica di Freud e della tradizione degli psicoanalisti della prima e seconda generazione. Allora non ci si doveva rifugiare nella ricerca, pur comprensibile, dei coefficienti d’efficacia della nostra cura, perché il nostro modo di vedere la vita, la sofferenza e le soluzioni ad essa , era riconosciuto ragionevole, e la sua applicazione del metodo psicoanalitico otteneva cambiamenti senza recidive. Non potete immaginare quante donne e uomini, che furono adolescenti difficili ospitati in strutture che nei decenni ho seguito, sentono con assoluta semplicità che la psicoanalisi applicata salvò loro la vita. Molti di loro ancora ricordano quegli anni difficili, divenuti però, poi anche gli anni dei loro passaggi più belli, quando cioè il pensiero, e con esso l’inclinazione al legame, hanno potuto liberamente svincolarsi dalle pastoie del trauma e delle susseguenti difese.
Io questo pensavo di dire su Boez, e ritengo che nello specifico sia molto ma molto più utile del mio parere leggere il primo testo che sulla propria esperienza ha stilato Ilaria (in uscita adesso su AeP. Adolescenza e Psicoanalisi 2-2019). Là si coglie l’importanza di come il mondo a cui, in quanto psicoanalisti, ci rivolgiamo per aiutare ad aiutare, ci vive e vive le nostre teorie e le loro applicazioni. Esse, una volta conosciute e capite, messe alla prova sul campo con un lavoro difficile con anime “indifferenti” (Russo), ma anche al banco di prova rappresentato dalla stessa vita delle persone che tale lavoro ha intrapreso per scelta inconscia (nei cammini insieme vengono spontaneamente esplorati anche questi territori), sono considerate indispensabili, insostituibili e irrinunciabili, perché fanno stare in armonia con tutto il peso della propria persona completa,con la sofferenza inimmaginabile e con le difese per non sentirla, che uccidono corpo e psiche. Questo è un test che vince e unisce la psicoanalisi di oggi a quella del passato e del futuro .
Vorrei ricordare che ad esempio gli educatori di una comunità di Ancona hanno preso il loro pullmino e sono venuti tutti , di sera, al nostro Congresso (rincasando a notte fonda) per dire a noi che Boez per loro è la norma del proprio lavoro, impostato su assetti psicoanalitici da decenni, e che i risultati che a noi psicoanalisti piacque in tale sede rintracciare loro li registrano da lustri. Ci hanno detto che le loro stesse vite, tramite ciò, sono migliorate, sono più legati ad esse, ai propri affetti e ai propri assistiti, che nel tempo guariscono, quando il sistema di aiuto, globalmente inteso, li lascia lavorare, nel solco scavato da Freud (hanno anche loro scritto un importante resoconto su Boez e la psicoanalisi).
In questo ultimo senso, chiudo come ho aperto: altre parole con cui Freud presentò il libro di August Aichhorn Gioventù traviata; questi era un educatore di comunità per ragazzi difficili, e trovò nella psicoanalisi il riferimento primo per costruire un percorso da tramandare ai suoi allievi. Era il 1926 del secolo scorso, e, per la prima volta nella psicoanalisi, Freud usò, nel contesto della psicoanalisi applicata, l’espressione casi al limite.
Se un educatore ha appreso la psicoanalisi, facendone egli stesso esperienza, ed è capace di applicare la sua conoscenza per completare l’opera che svolge sui casi misti od al limite della nevrosi, gli si deve permettere di praticare l’analisi, senza porgli degli impedimenti che derivino da meschini pregiudizi.