Domenica 4 settembre
– ore 12.30 – Serravalle di Vittorio Veneto-
Intervento di Anna
Ferruta
Freud sin dagli Studi sull’isteria aveva
parlato della sua terapia come di una talking cure, una cura di parole.
Aveva indicato l’inizio della civiltà proprio nel momento in cui il primo
essere umano aveva pensato di lanciare
contro un nemico odiato, invece che un sasso, un insulto, operando un lavoro
umano di simbolizzazione.
Tuttavia, nel nostro tempo, le
parole talvolta sono diventate così logore ed esangui da non riuscire più ad
avere la portanza degli affetti, delle idee, dell’individualità di chi le
pronuncia e possono suscitare il desiderio/necessità di ritornare alle pietre,
intese come azioni, o come blocchi, mutismi anoressie, isolamenti,
‘pietrificazioni’ alla Niobe.
Come e perché le parole curano?
Per la loro ‘fedeltà’ o per la loro
liberatoria infedeltà al dato concreto?
Agli inizi della psicoanalisi
Freud aveva proposto il suo metodo di
cura in alternativa alla suggestione e all’ipnosi, che proponevano una
relazione tra due persone profondamente
asimmetrica, in cui la mente del terapeuta si sostituiva a quella del paziente, mettendolo
in una condizione di debole autonomia e soggettività, sospendendo le capacità di
maturazione psichica intorno a eventuali zone conflittuali e problematiche. Il
metodo psicoanalitico propone invece una relazione tra due soggetti che ha
l’intento di creare legami, di cui le parole sono un tramite fondamentale, che
permettano di fare crescere il soggetto, di allargare l’apparato psichico
attraverso l’incontro con un altro soggetto che alfabetizza le emozioni-pietre
e le rende rappresentabili e fruibili nella relazione terapeutica stessa .
Al polo opposto, oggi vediamo
nascere scuole di terapia filosofica, in cui i filosofi si propongono come
curanti tramite la chiarificazione conoscitiva relativa alle questioni
esistenziali, cortocircuitando relazione ed affettività. Ma conoscere le cose
serve? Serve leggere libri di psicoanalisi? E le emozioni, i desideri? ‘Veggo
il miglior ed al peggior m’appiglio’, diceva il poeta. La filosofia come cura
rischia di proporre una convinzione aprioristica o una costrizione intellettuale.
Allora torniamo alla funzione
curante della terapia di parola.
La parola presenta una duplice
natura, espressiva e comunicativa: implica sempre l’altro.
Pensiamo all’insalata di parole
del linguaggio schizofrenico, che adotta una espressione- comunicazione
incomprensibile, che non media con il linguaggio dell’altro, ma comunque lo
evoca e lo convoca come desiderato interlocutore.
Pensiamo alla originalità del
linguaggio del poeta, che crea solitario nel suo studio e reinventa il
linguaggio conosciuto, ma, come dice André Green, ha sempre in mente un
interlocutore che leggerà le sue parole,
in uno stato di relazione ‘transnarcisistica’.
In entrambi i casi il carattere
espressivo della parola si trova al polo opposto del carattere comunicativo.
Pasolini, a chi lo accusava di
essere incomprensibile per il popolo, difendeva il valore comunicativo della
poesia come emozione che raggiunge l’altro, oltre la comprensione cognitiva del
contenuto.
Così sosteneva anche Carmelo
Bene, quando recitando il Manfred, spogliava il linguaggio del contenuto
semantico e lo restituiva alla musica
della voce umana.
La parola nasce dalle vicende
delle prime relazioni madre-bambino, costituisce il bambino come soggetto
potenziale. Rappresenta l’ingresso nella comunità umana, non creata
dall’onnipotenza del pensiero, ma già organizzata in un linguaggio con le sue
regole e i suoi significati, e al tempo stesso permette una codificazione e
creazione personale, l’invenzione di una forma di espressione unica. La
parola crea uno spazio per sé e per
l’altro. Le recenti ricerche sulle prime interazioni non verbali madre-bambino
ritengono che pensiero e linguaggio siano embodied, incarnati, emergano
da una mappa implicita di metafore visive e gestuali che rappresentano le prime
forme di relazione: essere attaccati a un’idea richiama il bisogno di attaccamento
e di essere aggrappati a un oggetto che
rappresenti qualcosa di sicuro, un holding che consenta di
fluttuare nelle emozioni e nei pensieri, senza l’angoscia di doversi tenere (su
e insieme) da soli.
E allora, perché le parole
curano?
Bollas descrive la funzione
dell’analista come una tela parlante che mette in scena dal vivo quelle
situazioni che hanno organizzato il pensiero e il linguaggio del paziente nelle
prime relazioni e ne permettono un cambiamento, sulla base della riattivazione
di sensazioni emozioni rappresentazioni profonde che si ripetono e si
trasformano. Si tratta di rivivere la natura emotivo sensoriale che sta alla
base della formazione del linguaggio: parole che toccano come amanti, parole
che penetrano corazze, che contengono la radice cognitivo-emozionale che le ha
generate e che testimoniano l’identificazione inconscia dell’analista con
quello stato emotivo. Tornare alle pietre, ma insieme con un altro.
Le parole rappresentano e sono
legate in una rete di suoni e significati che ne rende possibile la
trasformazione associativa, per raggiungere dalla ripetizione una certa libertà
di funzionamento psichico relazionale. Le parole indicano territori della mente
e delle emozioni in attesa di essere raggiunti e detti con l’aiuto della parola
di un altro, per diventare ponte condiviso tra due soggetti differenti.