Notizie dal VI Festival “Comodamente” – Vittorio Veneto, 6-8 settembre 2012
Si è svolta a Vittorio Veneto ( 6-8 settembre) la sesta edizione del festival Comodamente: tre giornate dedicate alla Meraviglia, tema di quest’anno. Tavole rotonde, mostre, spettacoli e laboratori si sono dispiegati nell’ariosa cornice del nucleo storico di Serravalle dove all’ombra dei monti scorre un fiume freddo e lucente come il ferro – nelle sue acque un tempo si tempravano le spade e più tardi si impastava il cemento.
Sono giovani gli organizzatori del Festival: giovani, con gli occhi al futuro e pochi soldi a disposizione. Hanno fatto miracoli e la prima meraviglia è proprio la vitalità, la ricchezza di idee e la freschezza di Comodamente. Le tavole rotonde non sono quelle cose paludate dove ognuno tiene il proprio discorso e va per la sua strada. Tanto per cominciare il tavolo non c’è mai: ci sono le seggiole, comode, fantasiose, vicine al pubblico, quasi mimetizzate. Ogni posto è buono per sedersi a ragionare e scambiarsi idee e affetti. Ma non sono discorsi da bar: il livello è alto. Si torna a casa con molti spunti in tasca, con le certezze scompigliate, con qualche libro da leggere e con “ragionevoli speranze”, come avrebbe detto Paolo Rossi, che il Paese abbia le risorse per uscire dalla stagnazione nella quale sembra versare.
La SPI, che di Comodamente è un interlocutore collaudato grazie alla significativa presenza del Centro Veneto nel contesto culturale della zona, quest’anno era rappresentata da Luigi Boccanegra che ha partecipato alla tavola rotonda “La lingua è un virus meraviglioso” coordinata dal filosofo del linguaggio Luigi Perissinotto. Assieme a Boccanegra intervenivano Luciano Cecchinel, poeta; Arnaldo Colasanti, critico letterario; Gianfranco Marrone, semiologo.
Dicevo che si torna a casa con molti spunti e con la messa in crisi di alcune certezze.
Ho preso appunti durante il dialogo perché era bellissimo e questo mi è stato fatale: “fai un report” mi scrivono l’indomani quelli di SPIweb.
Non sono capace, ma cerco di rendere qualche suggestione, una debole eco.
Luigi Perissinotto, che insegna a Ca’Foscari ed è originario di Vittorio – Jones De Luca me lo aveva detto che era bravo – ha aperto con una citazione da Merleau Ponty: “La lingua si fa dimenticare”. La lingua è un mezzo, uno strumento come il martello di Heidegger in Essere e Tempo: ci poniamo l’attenzione quando si inceppa, quando non funziona. Freud lo sapeva, e Lacan ne ha fatto il perno del suo pensiero, che nei varchi del discorso si rivela l’inconscio e quindi proprio agli inceppamenti bisogna porgere l’orecchio. E’proprio quando si arresta il corso di quel fiume che è il linguaggio, quando scarta, quando salta che la verità balugina.
A proposito di varchi, in un brillante intervento, Arnaldo Colasanti ha raccontato le sue comiche disavventure con i vigili urbani e con la lingua del legislatore. Leggendo in una via di Roma il cartello “Varco attivo” si apprestava a entrare nella zona a traffico limitato quando è stato fermato dal vigile: se il varco è attivo, sosteneva il funzionario, vuol dire che non si può passare! Ma come, si disperava il critico letterario, se un varco è attivo vuol dire proprio il contrario, che lo si può varcare! Un aneddoto che sarebbe piaciuto al padre della psicoanalisi: ogni varco ha il suo tabù, specie se “attivo”.
Ma che cos’è poi il linguaggio? Sono i suoni, le parole, i gesti? Oppure è la facoltà di comunicare? Non hanno un linguaggio anche gli animali? Non è un concetto troppo esteso, al punto da essere diventato inservibile? Non sarebbe meglio parlare di lingua? Sono altre questioni che Perissinotto ha nominato e che Gianfranco Marrone, dell’Università di Palermo, ha ripreso. Dopo aver notato che la lingua genera meraviglia e che la meraviglia genera resistenza (“Non è possibile!”), Marrone ha spiegato con grande chiarezza che le lingue non sono fatte di parole, ma di forme.
Se il mito dell’origine racconta che Adamo ha dato i nomi alle cose, la linguistica ci insegna che ci sono subito le frasi e che per dare nomi alle cose abbiamo bisogno di possedere già il linguaggio. Eravamo curiosi si sentire cosa avrebbe detto a questo punto lo psicoanalista.
Avrebbe parlato della “stupita meraviglia” con la quale il bambino si affaccia al mondo? Avrebbe ripreso il tema dei lapsus? Avrebbe parlato di come la psicoanalisi, terapia della parola emersa dalla terapia della suggestione ipnotica, abbia coltivato la strategia di raggiungere il paziente attraverso lo stupore, attraverso la sorpresa che genera un’interpretazione?
Luigi Boccanegra ha riportato con decisione il discorso sulle radici affettive della lingua, sulla compenetrazione fra la parola e il terreno dal quale sgorga. Se si insiste troppo sull’aspetto formale della lingua, il parlare diventa gioco mentre la parola diventa soffio e scappa via dal corpo e dal luogo. Mai dimenticare, mentre si ascolta un altro che parla, che la parola, ogni parola, emerge a fatica da un calderone interno fatto di emozioni e di carne e che veicola un senso peculiare e personale: è un principio di carità quello che ispira e guida l’ascolto. Allo stesso modo, non possiamo dimenticare, mentre parliamo, che ogni parola reca in se stessa la traccia, il volto, il suono, il movimento delle labbra di colei o colui dal quale per la prima volta la abbiamo sentita pronunciare. La lingua è materna, è intrisa delle nostre origini, affiora e ci parla quando fisicamente siamo nei luoghi dell’infanzia: ne fa esperienza chiunque, vivendo lontano dal proprio paese, vi faccia ritorno e senta salire alle labbra le parole del dialetto che ha udito da bambino.
Sul dialetto è intervenuto Luciano Cecchinel che scrive poesie nel dialetto di Revine Lago, in provincia di Treviso. Una lingua aspra, irta di consonanti, incomprensibile per chi sia nato oltre il raggio di pochi chilometri. Il problema del dialetto è la sua chiusura, il suo resistere al contagio del virus che colpisce la lingua nazionale e che la rende aperta a cambiamenti continui. Fare poesia è comunque tentare un’operazione di ravvivare la lingua, mutarla dall’interno: a maggior ragione questo è vero se la lingua è un dialetto. Le poesie di Cecchinel sono straordinarie.
In attesa che il dialogo iniziasse – a Comodamente tutti se la prendono comoda – un amico aveva acquistato per me il libro di Cecchinel Sanjut de stran (Singhiozzi di strame, Marsilio 2011, Prefazione di Cesare Segre). Mentre Cecchinel parlava, l’ho aperto. E’il destino dei poeti: per quanto interessante sia quello che dicono, le loro poesie esercitano un richiamo più forte. Ne ho trovata una bellissima e non so più dirvi come sia proseguito l’intervento di Cecchinel. Ero dentro il mondo dei “depressi” ( quei do de la soa) di Revine Lago, così simili ai depressi di tutto il mondo e così unici, di quell’unicità che Boccanegra ascolta e Cecchinel dice:
paurosi fa de mal no justi
tuti quei che i è do de la soa
i va a stroz come can forèsti
co i os che bala e i picoléea
…
ma lori sa ‘l saor del gnent
e cuzarse a scoltar co i sènt
levarse la voze del vènt
co la sfiada, co la è inzènt
…
par che la mort la é sorela
de tuti quei che i è do de la soa,
lori i sa starghe drio a ela,
i ghe ol ben e ceti la coa
Traduzione: paurosi come di mali ingiusti/ tutti coloro giù d’animo / vagabondano come cani forastici / con le ossa che ballano e pendono //…// ma loro sanno il sapore del nulla / e piegarsi ad ascoltare quando sentono / levarsi la voce del vento / anche quando ansima e brucia //…// perché la morte è sorella di tutti quelli che son giù d’animo, / loro sanno corteggiarla, / le vogliono bene e quieti la covano.
“La lingua si fa dimenticare” come diceva Merleau Ponty. La lingua è indimenticabile quando nella poesia da mezzo diventa fine e ancora mezzo, ponte che si piega con carità sul senso dell’altro.
stefania nicasi
13 settembre 2012