di Giuseppe Saraò
Parlare di Franco Basaglia a distanza di 30 anni dalla sua morte ci impegna al
confronto con un significativo tratto di storia della società italiana. La
legge 180 e il pensiero di Basaglia hanno rappresentato una rottura dalla quale
è nata un’ esperienza complessa, fatta di luci e di ombre. Una profonda
trasformazione non solo della assistenza psichiatrica ma anche della cultura
della società dove si manifesta il disagio mentale: qualcosa di profondamente
nuovo che oggi, da psicoanalisti, possiamo indicare come itinerari della e sulla soggettività.
Ho avuto la fortuna di far parte di quella generazione di psichiatri che si
formava a cavallo tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80. Ricordo
che frequentare l’ospedale psichiatrico di quei tempi fu una esperienza
incredibile: un mondo a parte, un misto di violenza, esperienze di vita
abortite, esistenze che si erano interrotte e che poi avevano ritrovato nel
mondo asilare un posto, una sorta di adozione istituzionale: penso, per
esempio, a quei ricoverati che fungevano da aiutanti degli infermieri a
complemento delle funzioni logistiche della piccola città manicomiale. Altri
pazienti invece raccontavano, con la deformazione del corpo, con le stereotipie
del comportamento, l’annichilimento istituzionale: una sorta di resa disperata,
un gridare che rimaneva inascoltato, un linguaggio alieno che nessuno riusciva
a decifrare. Ricordo l’insopportabile odore degli escrementi, persone incollate
ai muri e ai radiatori in una sospensione del tempo e della vita. E ancora,
tanti pazienti insieme. Una umanità dolente: le visite con il direttore erano
un tour nella pancia del manicomio con i tanfi e le inevitabili visioni di
mostruosità, un chiudere e aprire di porte, uno sferragliare di chiavi. Caposala
ossequianti, infermieri che si affaccendavano per mettere ordine, nel tentativo
vano di riportare una parvenza di cura. Era impossibile fare una raccolta delle
urine, difficilissimo ottenere un vitto speciale, arduo persino misurare la
pressione arteriosa: si era perso il senso del curare. Ma accanto a tutto
questo c’erano operatori che lavoravano con passione: il manicomio era una sorta
di fabbrica disarticolata non priva di gesti di solidarietà. C’erano medici e
operatori che inventavano atelier, che si
adoperavano per osservare i comportamenti dei pazienti e che mettevano in
relazione il manifestarsi della psicopatologia con le visite dei parenti, che non attendevano semplicemente gli
effetti degli psicofarmaci. C’era una comunità di operatori che mi sembrò molto
confusa ma anche piena di vita. Alcuni di questi operatori tentavano proiezioni
territoriali: c’era una netta scissione e pesanti scontri fra chi si batteva
per “andar fuori” e chi si ostinava a preservare il fortino nell’attesa di una
imminente controriforma. Tutto questo contrastava con le desolanti e spesso
ingiallite note delle cartelle cliniche, dove l’accento era sul peso, sulla temperatura,
sulla terapia farmacologica, sugli esiti degli elettroshok. Difficilissimo in
quel contesto mettere insieme la storia di un paziente, se era da tempo
istituzionalizzato, anche perché c’era in troppi operatori una insopportabile
rassegnazione, un accettare la delega sociale del custodire e del controllo
sociale rispetto al curare e conoscere l’altro.
Scene e passioni forti: per questo motivo la 180 si presta a un esame della realtà
italiana di questi 30 anni. Sappiamo come sono andate le cose: una riforma male
applicata, a macchia di leopardo, tante esperienze, alcune eccelse, molte altre
da dimenticare.
Nel pensiero di Basaglia c’erano radicalità che oggi sono incomprensibili se non si
tiene conto del periodo nel quale sono nate; c’erano delle forzature, per
esempio quando si diceva che la malattia mentale era prodotta fondamentalmente
dal manicomio e dall’esclusione sociale e ancora che la rivoluzione
psichiatrica avrebbe conquistato il resto della medicina (qualcuno osava dire
della società!).
La rivoluzione vera invece è stata sul tema della soggettività; dei pazienti,
delle famiglie, degli operatori. Per gli operatori “andar fuori” in maniera
cosi traumatica e poco protetta dall’istituzione comportò un violento confronto
con la realtà psichica dei pazienti: non bastava essere disponibili. La psicosi
aveva bisogno di una funzione istituzionale moderna, non solo
nell’organizzazione dei servizi ma soprattutto nella formazione degli
operatori. Affrontare il dolore mentale del paziente, fuori dalle mura del
manicomio, comportava una vicinanza emotiva non sempre sopportabile attraverso i
generosi vissuti di familiarità; né poteva bastare una brutale medicalizzazione
dei sintomi (psicofarmaci). Da tutto questo derivava l’avvicendarsi di
riduzionismi di poco spessore ma al momento rassicuranti: tra questi, quello
psicologistico talora espresso in dialetto “psicoanalese”.
Nelle pieghe dei servizi gli operatori si sono dovuti attrezzare, ad esempio facendo
un proprio percorso di cura e riflettendo sulla propria storia personale. Sono
stati costretti a lavorare in equipe, perché affrontare un problema complesso
come la malattia mentale necessitava di un gruppo di cura: non bastava la
competenza del singolo professionista. Inoltre i servizi si sono dovuti confrontare
con i diritti dei pazienti (legge 180) che ha ridotto positivamente il potere
del tecnico e del relativo controllo sociale rispetto alla terapia e al diritto
di essere curati nel proprio ecosistema di vita. Gli operatori hanno dovuto
guadagnare potere ed efficacia terapeutica attraverso le competenze e non
semplicemente per un mandato sociale.
La cultura psicodinamica (insieme a quella
psicopatologica, medica e di comunità) negli anni grazie al lavoro di tanti
colleghi ha conquistato nel panorama italiano un rilievo significativo: un
tempo chi voleva rimanere in un servizio di salute mentale doveva nascondere la passione per la psicoanalisi, ma
oggi non è più così: ne sono testimonianza sia le analisi personali degli
operatori sia le numerose supervisioni di psicoanalisti nei servizi di salute
mentale. Chi ha scelto di lavorare in un servizio può pagare un prezzo alto, ma
può affrontare situazioni cliniche complesse e gravi in un contesto di comunità
ricavandone grandi soddisfazioni: trova una finestra sull’umanità, qualcosa che
è difficilmente comparabile all’attività artigianale del proprio studio.
Negli ultimi anni si sono sviluppate forme di terapie orientate alle famiglie, si
sono evidenziate le grandi possibilità terapeutiche che si possono sviluppare
attraverso un lavoro sistematico con gruppi di pazienti e di familiari. Ma
quella che è cresciuta in trent’anni è la dignità professionale degli operatori,
non sempre premiata da un riconoscimento istituzionale delle aziende sanitarie.
C’è una cultura diffusa, un corpo di conoscenze e una saggezza del saper fare
di grande complessità: ai luoghi della psichiatria non si rivolgono, da tempo,
solo i “poveri” come avveniva in passato; i livelli di violenza istituzionali
sono nettamente ridotti; c’è un’attenzione alla dignità dei pazienti
impensabile 20 o 30 anni fa, si pone cura all’accoglienza istituzionale e a
come articolare i differenti setting terapeutici. Gli operatori hanno imparato
a segnalare i propri limiti terapeutici evitando di assumersi acriticamente la
delega del controllo sociale. Sempre di più affrontano il tema dei legami
familiari e sociali e leggono la sofferenza e i relativi sintomi come una
malattia delle relazioni; operatori che cercano di stare anche nelle relazioni
e nei transfert pesantemente proiettati e attivati con i quali si devono
confrontare.
Altro tema centrale sono le famiglie: dopo tanti anni di polemiche, le famiglie
rappresentano, spesso attraverso specifiche associazioni, una potenzialità di conoscenza per i servizi. Non è stato
sempre così: uno degli orientamenti radicali, fortemente ideologico, del
pensiero di Basaglia era proprio lo schierarsi sempre e comunque dalla parte
del paziente -l’operatore era supporto a una soggettività deficitaria- mentre
la famiglia diventava la controparte, l’avversario. Uno scontro di poteri nel
quale non c’era posto per la sofferenza dei familiari. Negli anni si è maturata
invece una cultura psicologica dello sviluppo della mente umana e dei legami
familiari -che prevede fra l’altro nell’operatore una certa consapevolezza
della propria storia familiare- per la quale non sia necessario schierarsi ora
con uno ora con l’altro, ma si sappia dove fermarsi nella proposta terapeutica
e cosa può sopportare il sistema
familiare del paziente.
Per concludere, si può decisamente affermare che il lavoro e l’esperienza nei
servizi ha evidenziato come nel tempo si è trasformata la psicopatologia dei
pazienti e delle relative famiglie non solo per i naturali cambiamenti
socio-culturali ma anche per la rivoluzionaria organizzazione dei sistemi di
cura: certe espressioni psicopatologiche che prima si osservavano comunemente in
ospedale psichiatrico (basti pensare alla catatonia o agli arresti psicomotori
melanconici) sono eventi molto rari e gli psichiatri che si formano oggi hanno
-per fortuna- difficoltà a fare esperienza di destrutturazioni tanto devastanti
della mente e della condizione umana.
Penso che riconoscere questi profondi cambiamenti possa costituire un omaggio
affettuoso e dovuto al pensiero e all’opera di Franco Basaglia.