Entro e, oltre all’opera di Cattelan, di cui dirò tra poco, mi colpisce una madre con il suo bambino. Sono ammutoliti entrambi, come tutti i visitatori al primo sguardo; la mamma però subito si riprende e concitatamente dice al suo bambino di 6 o 7 anni che giocheranno a trovare gli oggetti e se li indicheranno.
Gli propone un gioco, inventato al momento, ma è un po’ troppo affrettata, ha alzato il tono della voce, come fosse in cerca di una scappatoia per proteggerlo da qualcosa che teme potesse inquietarlo.
E in effetti c’è qualcosa di inquietante nella installazione "All", che capovolge letteralmente l’idea che abbiamo della retrospettiva in un museo.
Le opere sono sospese dall’alto in una massa, che riempie il centro della rotonda disegnata da Frank Lloyd Wright, facendone così il contenitore di questo conglomerato di oggetti bizzarri, provocatori, ironici, buffi, testimonianza del nostro tempo e della mancanza di ortodossia dell’artista.
La scelta di fare pendere dall’alto in quello che diviene una specie di pozzo suggerisce già di per sé, un’idea di precarietà; ciò che è appeso, non poggia, non può raggiungere la base, è come se contraddicesse la legge di gravità. Fa pensare agli impiccati e subito si coglie il senso di macabro, di funereo, confermato dall’uso della tassidermia che Cattelan ha sempre fatto e che qui ripropone. Lo stato di vita apparente di questa tecnica sottolinea e conferma l’ esplorazione dell’artista sul tema della morte. Riguardo ad "All" egli ha infatti dichiarato di avere creato "un monumento alla morte", una scultura che dovrebbe commemorare la sua inesorabile presenza nella nostra esistenza.
L’installazione è visibile dal piano terra e poi via via da ogni rampa ascendente, e mette insieme le opere che l’autore ha creato dal 1989, includendo vignette scultoree, dipinti, fotografie, opere su carta, in uno spazio ambiente che la contiene e la fa percepire come un’opera unica, all’interno della quale sono collocati i pezzi più famosi dell’iconoclasta artista padovano: da La rivoluzione siamo noi, dove un piccolo Cattelan pende impiccato ad una intelaiatura di metallo con indosso l’abito grigio dell’artista tedesco Joseph Beuys, all’installazione creata per il Museo Bojimans Van Beuningen di Rotterdam, che rappresenta l’artista che sbuca da un buco nel pavimento di una galleria di dipinti di Antichi Maestri.
Gli occhi del pubblico, al primo impatto con l’opera, (come ho cercato di comunicare descrivendo la scenetta della mamma con il suo bambino) rivelano la sorpresa profonda e certamente non banale che questa opera provocatoria, anarchica ed anche catastrofica suscita nei visitatori..
Il sentimento immediato è di essere di fronte non all’ennesima trovata dell’iconoclasta Cattelan, ma ad una rappresentazione non banale, anzi disperata del nostro tempo.
Le figure umane che vi appaiono sembrano avere attraversato un silenzioso trauma, scrivono i curatori della mostra, emergono da realtà interne inconsce più che consce anche se popolano la nostra quotidianità contemporanea, "come resti di una catastrofe della fiducia e della speranza" che vede il papa Giovanni Paolo II a terra, fulminato da una meteorite, un Hitler piccolo come un ragazzino, inginocchiato in atteggiamento supplice, poliziotti di New York capovolti a sottolineare la loro vulnerabilità di fronte all’attacco terroristico del 2001., un J.F. Kennedy, martire scalzo sul suo letto di morte.
Si ha la percezione di una rappresentazione che non vuole evitare l’angoscia di follia, frammentazione e morte dell’epoca contemporanea, ma anzi ha saputo creare alcune delle più iconoclastiche immagini dell’arte contemporanea.
Vale la pena, se si è a New York, di dedicargli una visita.