In una riflessione sulla
psicoanalisi in Giappone, il pensiero corre dapprima a Lacan, affascinato dal paese del Sol Levante, mentre
Freud era maggiormente attratto
dall’India. Più di un osservatore occidentale si è soffermato sull’alone
di impenetrabilità che avvolge la cultura nipponica e Lacan nei suoi
viaggi in Oriente tentò di definire la "chose japonaise". Nei
suoi studi sull’ "assoluto" volle dare
corpo ad una rappresentazione formalizzata del legame sociale tipico di questa
cultura millenaria, illuminata dal respiro buddista e legata al primato del
"collettivo". Come studioso del linguaggio, Lacan sosteneva che l’intrinseca
raffinatezza del Giappone e ciò che vi era di ineffabile trovassero nella
calligrafia la loro massima espressione. Concepì quindi l’idea poetica di
trascrivere, attraverso il semplice trattino orizzontale da lui battezzato col
nome di "littoral"- novello "ideogramma lacaniano"- un simbolo che esprimesse l’enigmaticità
e nel contempo la purezza della lingua giapponese.
Se la psicoanalisi in Giappone è innanzitutto un
"affaire de lettres" per poi sviluppare le radici nel complesso retroterra
storico, culturale-antropologico e religioso di questa parte del mondo asiatico,
è d’obbligo citare il numero 1 della rivista "Psiche" del 2008 "Geografie della
psicoanalisi". Penso all’articolo di Jhuma Basak e al suo sguardo sulla
dimensione psicoanalitica indiana; ho avuto la fortuna di incontrare questa autrice
nel Congresso IPA 2009 a
Chicago nell’ambito di un Panel sulla psicoanalisi giapponese a proposito del
tema della vergogna. Nello stesso numero di Psiche, Masahisa Nishizono ci
introduce alla psicoanalisi in Giappone mentre Ranier Lanselle si sofferma a
riflettere sulla psicoanalisi in Cina. Lanselle ricorda come nella lingua cinese manchi un
corpo di lettere a vantaggio di un corpo di segni e come i cinesi siano commentatori
più che traduttori, poiché, egli scrive: "nella
storia cinese della scrittura la lingua straniera non esiste" (2008,106).
Dunque, a proposito della diffusione delle opere di Freud in Cina, l’aspetto
della "traduzione" si e ci confronta con quello della "interpretazione"
e, mentre Lanselle segnala l’installarsi
di possibili dissonanze e fraintendimenti,
sottolinea come inevitabilmente nella lingua cinese qualcosa "possa rimanere indecifrabile" (2008,104). Potremo estendere considerazioni simili
all’area giapponese.
Probabilmente, la dimensione
interpretante, dai confini più sfumati di quella della traduzione e che si modella
sul retroterra giapponese, quasi in una sorta di "predigestione", potrebbe
suggerirci una via di approccio a questo mondo. Del resto, in questo momento drammatico che il
Giappone attraversa, la reazione della sua popolazione suscita in noi
sentimenti complessi: ammirazione per la compostezza e la dignità delle persone,
soggezione e infine una punta di inquietudine per qualcosa che sfugge alla
comprensione e si sottrae alla nostra capacità di identificazione. E’ forse in gioco lo straordinario legame
invisibile che tiene insieme la struttura del gruppo? Il gruppo, ancestrale
organizzatore antropologico di questa terra d’Oriente. Se la psicoanalisi è il
frutto della cultura giudaico cristiana che si fonda sulla centralità dell’individuo il quale,
secondariamente, concorre a generare il gruppo, in Oriente è soprattutto il
gruppo a legittimare l’individuo. Nei suoi studi sul Giappone, Maurice Pinguet
sottolinea come il Super Io giapponese esprima la coscienza del legame mentre
il Super Io occidentale esprima la
Legge (Roudinesco, Plon, 1997)
La psicoanalisi arriva presto in Giappone innestandosi su un terreno
fecondato da una solida cultura psichiatrica che si è diffusa sulla scia delle
idee di Emil Kraeplin intorno al 1860. Dobbiamo a Kenji Otsuki, letterato e traduttore tedesco,
la prima citazione del nome di Freud, già nel 1912, in un articolo che
verrà consegnato all’oblio. Ma è in seguito all’incontro di K. Marui con
Sigmund Freud che si addiviene, nel 1933, al riconoscimento ufficiale della
psicoanalisi giapponese con la fondazione di un ramo dell’IPA a Sendai.
Il destino e lo sviluppo
delle scienze psicologiche in Giappone si intrecciano con la profonda crisi
interna che travaglia il paese nella seconda metà dell’Ottocento. Il Giappone
non ha conosciuto la colonizzazione. E’ stato, invece, culla di pionieri che
con i loro viaggi nelle altre parti del mondo e la realizzazione di molteplici
scambi, sono partiti alla "conquista" del pensiero occidentale da importare in
Giappone. La mitica figura del samurai, eroe feudale, entra in crisi con il crollo
dell’ultima dinastia imperiale dei MEJII, mentre prendono piede i valori del
capitalismo occidentale e il codice napoleonico. Ecco allora l’inversione di un
segno e la morte di un simbolo: il "seppuko", il secolare suicidio rituale con
sventramento da sinistra a destra ad opera di una sciabola corta, che è
prerogativa del Samurai, da gesto d’onore diventa espressione di una
psicopatologia. Muore il Samurai, nasce la melanconia.
A proposito di suicidio,
seguendo un’associazione letteraria, il mio ricordo corre allo scrittore Yukio Mishima,
moderno samurai della letteratura, che nel 1970 colpì l’Occidente togliendosi
la vita con un suicidio rituale in diretta televisiva.
Dopo Marui, tra gli psicoanalisti
che incontrano Freud, ricordiamo Yabe che disquisì con lui nel 1930 sulla
pulsione di morte e l’insegnamento buddista. Heisaku Kosawa, tuttavia, è
sicuramente la figura più intraprendente e feconda nel divulgare il messaggio
freudiano. Considerato il padre della psicoanalisi giapponese, sottopose a
Freud una rivisitazione del complesso di Edipo che chiamò "Complesso di Ajase".
In questo complesso, che trae origine dalla rielaborazione di un antico mito
indiano, l’ambivalenza materna nei confronti del figlio viene messa
particolarmente in luce rispetto al versante edipico.
La psicoanalisi giapponese
riflette l’enfasi della relazione madre-bambino preedipica coi suoi aspetti
legati all’oralità e all’ambivalenza. La conflittualità tra madre bambino e lo
svilupparsi della colpa in una complessa articolazione costituiscono il cuore
di dinamiche gruppali che animano le società di tipo clanico dove
l’individualità del singolo è legittimata dal legame tra i membri del gruppo.
E’ una psicoanalisi sotto il
segno della dipendenza e del legame con la madre. A differenza che in Occidente, la dipendenza è
considerata un valore e influenza la qualità del legame all’interno del gruppo.
Come ricorda Stefania Nicasi, i giapponesi "hanno il gruppo nel sangue".
A proposito della
conflittualità, Masahisa Nishizono (2008,128) si sofferma sul concetto di misho-on, rancore prenatale, sottolineando come esso sia un "rancore
fondamentale dell’individuo nei confronti della relazione che ha creato con il
sé prima che egli stesso ne fosse capace". Il misho-on rappresenta infine l’angoscia assoluta nei confronti dell’esistenza
in un concetto che potremmo avvicinare a
quello di "O" di Bion.
Non è possibile approfondire
qui gli importanti sviluppi teorici della psicoanalisi giapponese: mi limito a
citare i concetti di "Amae" di Takeo Doi e
del "Tabù del non guardare" di Osamu Kitayama. Negli anni Cinquanta la
psicoanalisi giapponese fu fortemente influenzata da quella americana, in particolar modo dalla corrente della "Ego
Psychology" (H. Hartmann, A. Freud, P. Federn). Si diffusero poi i lavori della
Klein, di Winnicott, di Bion e di molti
altri autori (De Mijolla, 2002).
Giunta al termine di questa
mia breve rassegna, vorrei sottolineare l’importanza di aprirsi a dimensioni
culturali altre che nutrono e fertilizzano la cultura originaria. Il primo congresso IPA che si è
svolto a Pechino nell’autunno del 2010, "Freud in Oriente", è stata una
preziosa occasione di scambio e di confronto. Dovremmo andare al di là delle
resistenze e delle "macchie cieche culturali", come scrive lo statunitense Daniel Freeman, presente al
Panel di Chicago, nel suo articolo "Learning From Each Other-What: Western
Psychoanalyst Can Learn from the Japanese" ("Imparare gli uni dagli altri: cosa
possono imparare gli psicoanalisti occidentali da quelli giapponesi"). Questo
articolo compare in un volumetto molto interessante e di difficile reperibilità:
"Japanese Contributions to Psychoanalysis" vol 2, 2007 edito a Tokyo e distribuito
in omaggio dalla società psicoanalitica giapponese ai partecipanti del Panel. Laura
Montani lo ha recensito nel numero 3 della Rivista di Psicoanalisi del 2009.
A Chicago arrivai al Panel
in ritardo e…non c’erano più copie. La giovane collega giapponese seduta al mio
fianco colse il mio disappunto e mi regalò la sua copia! Le sono ancora
riconoscente e continuo ad apprezzare il contenuto di quest’opera ricca di contributi stimolanti.
In conclusione, sia che si
parta da una psicoanalisi sotto il segno della legge del padre sia che si parta da una psicoanalisi sotto il
segno del legame con la madre,
ricorderei le sagge parole di Masahisa
Nishizono (2008,128) il quale – a proposito di mixage culturale – rinvia a
Bollas (1999): il paziente si augura che l’analista lo ascolti con l’attenzione
di una madre e che intervenga, interpretando, come un padre.
Bibliografia
BASAK JHUMA (2008). La
trasmissione della psicoanalisi in India. Un viaggio dal "Rinascimento
bengalese" all’età contemporanea. Psiche.Vol
I, 33-39.
BOLLAS C. (1999). The
mystery of Things. International Literary Agency, London.
DE MIJOLLA A. (2002). Japon. In:Dictionnaire International de la Psychanalyse.862. Paris, Calmann-Lévy.
FREEMAN D. (2007) Learning From Each Other: Western Psychoanalyst Can Learn from the Japanese. Japanese contributions to psychoanalysis.
Vol 2,129-138.
LANSELLE R. (2008).Quale
posto per l’analista nella modernità cinese? Psiche. Vol.I,103-116.
MASAHISA NISHIZONO (2008).
Dal Giappone, una riflessione su questioni di psicoanalisi nel XXI secolo. Psiche. Vol. I, 125-131.
NICASI S. (2011). Dedicato
al Giappone. www.spiweb.it
ROUDINESCO E., PLON M. (1997) Japon. In : Dictionnaire de la psychanalyse. 539. Paris,
Fayard.
Chiara
Rosso
Bologna
31 marzo 2011