La fedeltà non è una categoria della psicoanalisi né un suo privilegiato oggetto di studio, ma lo psicoanalista è costantemente impegnato in questa dimensione. E’impegnato nella fedeltà alla psicoanalisi come tradizione di ricerca, come metodo e come istituzione; nella fedeltà al paziente e a se stesso. Inoltre, si muove all’interno di un sistema di teorie imperniate sulle oscillazioni fra narcisismo (amore per sé) e relazione di oggetto (amore per l’altro): è portato a riflettere sui modi nei quali l’amore nasce e si declina. Come persona comune sa che nel mondo occidentale i costumi sessuali sono profondamente cambiati, anche per influenza della psicoanalisi; sa che in questo mondo i matrimoni sono diminuiti, le separazioni aumentate, le nascite rarefatte, le famiglie ricomposte e allargate oppure ristrette a un genitore e un figlio. Come professionista è sempre più spesso chiamato ad assistere individui o coppie alle prese con dolorose vicende sentimentali e coniugali. Sul tema della fedeltà dunque uno psicoanalista può avere molte cose da dire, in molte direzioni. Mi limiterò a offrire alcuni spunti, ricordando che Freud raccomandava di cedere il passo ai poeti quando si parla d’amore.
Fedeltà e tempo. “Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quarantacinque chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Porto di nuovo in fondo al petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio riempie” (Gorz, 2006, 19). Con lo pseudonimo di André Gorz, Gherhard Hirsch, intellettuale francese di origine ebraica, pubblica nel 2006 Lettera a D. dove ripercorre l’intensa storia d’amore con sua moglie Dorine. Il piccolo libro ha un successo di pubblico straordinario. A distanza di circa un anno dalla prima edizione, Gorz, 84 anni, e sua moglie Dorine, da tempo affetta da una grave malattia degenerativa, muoiono suicidi nella loro casa di Vosnon. Se le storie d’amore sono tante, poche sono quelle che raccontano di amori che durano. Abbiamo tutti, mi pare, un grande bisogno di ascoltarle. Nella primavera del 2011, milioni di telespettatori hanno seguito in diretta il matrimonio dei principi reali inglesi.
L’ultimo film di Mike Leigh, Another Year, racconta la storia di due coniugi che coltivano un orto nel fine settimana. Sono una coppia solidissima: mentre le vite degli amici vanno all’aria, loro resistono, una stagione dopo l’altra, una semina dopo un raccolto. Another Year; “Sono cinquantotto anni” scrive Gorz, “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” (montale 1984, 309) scrive Eugenio Montale per sua moglie “Mosca”: la fedeltà in amore è fatta di giorni, si dispiega nel tempo. Il tempo la mette alla prova. Non si può prescindere dal tempo quando si parla di fedeltà.
Ma di che cosa parliamo quando parliamo di fedeltà?
Per questa domanda non ci può essere una risposta secca, al di là della definizione linguistica: questa edizione di Comodamente è in fondo un tentativo di fornire risposte diversificate e di sollevare domande attorno al tema. E’il tentativo di restituirlo alleggerito da un approfondimento.
Riferendomi alla fedeltà nel rapporto amoroso, cercherò intanto di esplorarla dal versante del tempo dove rivela una sua natura elusiva. Nei sonetti dedicati al matrimonio, Shakespeare individua nella fedeltà l’essenza dell’amore e nella immutabilità del sentire l’essenza della fedeltà. Amore “è termine fisso” che, come “la stella” dei naviganti, “non vacilla mai” nella tempesta. Amore non muta “quando nell’altro scorge mutamenti” o “quando l’altro si allontana”. Nella capacità di restare fermo e indifferente ai mutamenti esteriori, sta la forza dell’amore e il suo trionfo sul Tempo:
Amore non soggiace al Tempo, anche se labbra e rosee guance cadranno sotto la sua arcuata falce.
Amore non muta in brevi ore e settimane,
ma impavido resiste sino al giorno del Giudizio.
(Shakespeare, Sonetto 116, 119)
Tuttavia si potrebbe sostenere che la fedeltà, mentre sembra sfidare il tempo garantendo immutabilità, in realtà lo sfida e ne ha ragione proprio scendendo sul suo terreno. Nonostante le promesse di eternità esibite nel programma, la fedeltà non sembra possibile al di sopra o a dispetto del tempo: è possibile solo nel commercio con il tempo, con i continui mutamenti dell’altro e di noi stessi. Mentre sembra un vascello severo e maestoso, è in realtà un legno leggero, capace di imbarcare molta acqua, scomparire tra i flutti e perdere la rotta. Per durare, un amore deve cambiare.
Dopo cinquantotto anni, sotto i colpi dell’ “arcuata falce” del Tempo, Dorine è più bassa di sei centimetri, è smagrita e sicuramente piena di rughe, per parlare solo dell’aspetto fisico. Anche André probabilmente non è un fiore. Dopo cinquantotto anni sono persone molto diverse dal giorno in cui si sono innamorati l’uno dell’altra. L’amore assomiglia di più a una stella o a un camaleonte?
E’ il momento di citare Freud: “Abbiamo finora lasciato ai poeti il compito di descriverci le ‘condizioni amorose’ secondo le quali gli uomini attuano la loro scelta oggettuale e il modo in cui essi conciliano le esigenze della loro immaginazione con la realtà” (Freud, 1910, 411). Non solo nella scelta dell’oggetto d’amore ma anche, forse soprattutto, nel mantenimento di questa scelta, dobbiamo saper conciliare immaginazione e realtà: nella gracile Dorine di oggi, André vede e fa rivivere la ragazza dalla “folta capigliatura rossobruna, dalla pelle madreperlacea”, “dall’andatura di danzatrice” che un tempo gli apparve: “Eri sovrana, intraducibilmente witty, bella come un sogno” (Gorz, 2006, 20). Anche allora, l’immaginazione lavorava.
Secondo Freud, e secondo la psicoanalisi, l’immaginazione è sempre al lavoro nella scelta dell’oggetto che ripercorre gli antichi sentieri del primo amore: quello per la madre. Fuori dall’infanzia, innamorarsi è ritrovare un oggetto perduto. Sulla realtà dell’altro si proiettano i contorni del passato e del sogno: “Lo so che questa immagine/ Fissa nella mia mente/ Non sei tu, ma è l’ombra/ Dell’amore che è in me” (Cernuda, 1957, 23).
Continuità nella discontinuità. Freud credeva che in ogni delirio fosse nascosto un grano di verità storica. In un saggio intitolato “Il tarlo del dubbio”, Mario Rossi Monti si interroga sul nocciolo di verità contenuto nel delirio di gelosia e suppone che abbia a che fare con la scoperta della inaffidabilità dell’oggetto al quale si è intimamente legati. L’altro, il partner, è comunque infedele. Lo è rispetto all’ illusione o alla pretesa che sia interamente ed esclusivamente nostro. La madre non è tutta del bambino. La gelosia è un risvolto primario e inevitabile dell’amore, anche se può essere più o meno ingombrante, più o meno tormentosa.
Se la crescita è connessa alla scoperta che i primi oggetti d’amore sono comunque infedeli, è anche vero che per crescere questi oggetti vanno comunque abbandonati. Incomplete ci appaiono le vite di quei figli che sono arrivati a tarda età senza staccarsi dai genitori.
L’infedeltà non è solo nell’altro, è in noi. Anche noi, crescendo, abbiamo tradito e non siamo completamente dell’altro. Freud aveva una concezione energetica dell’apparato psichico, pensava che la pulsione amorosa, che chiamava libido, emanasse dall’Io sul mondo esterno ma fosse pronta a ritirarsi di nuovo sull’Io quando questi avesse bisogno di ristoro: nel sonno, per esempio, nella malattia o nell’esecuzione di un compito impegnativo. Oggi quella concezione energetica è in larga parte tramontata, ma resta vero che i nostri investimenti sugli altri sono di carattere ondivago e intermittente. Il cuore, secondo la battuta di Woody Allen, è un muscoletto molto elastico. Si può amare qualcuno per sempre ma non lo si può amare sempre: “La capacità di essere discontinui nella relazione gioca un ruolo centrale nel suo mantenimento” (Kernberg, 1995, 95).
La fedeltà assoluta è un fenomeno puntiforme. Si realizza nella contemplazione degli amanti, quando il tempo sembra fermarsi: “In tregua con la vita,/ Non sapere, voler nulla,/ Né sperare: tu qui/ E il mio amore. Mi basta.// Tu e il mio amore, e guardare il tuo corpo che dorme/ All’alba.” (Cernuda, 1957, 59). Ho citato Cernuda, ma avrei potuto citare un mistico come San Giovanni della Croce.
Una forma di devozione totale è impossibile in modo continuativo anche per i santi. Il legame amoroso, come un bravo funambolo, registra l’equilibrio bilanciando disponibilità e ritiro, presenza e assenza, fedeltà e infedeltà.
Tornando ad André Gorz e sua moglie Dorine: in cinquantotto anni, quante sorprese e quante delusioni, quanti pieni e quanti vuoti. L’amore avrà fatto la spola. Ma lo sguardo retrospettivo aggiusta le cose e srotola sulle crepe una passatoia compatta di continuità e perfezione come quella che guida gli sposi nel breve tragitto all’altare:
Guardando noi rimasti all’altra riva,
lontani, da una riva non più verde
risuscita la gioia rediviva
di una vita passata di cui nulla si perde.
(Parronchi, 2001, 33)
In questa sorta di illusione ottica, l’amore non fa salti – come un tempo si diceva della natura – mentre invece li fa. Magari solo molto piccoli. Ma non può non farli. Persino Penelope disfaceva la tela.
In Tolstoj è morto, Vladimir Pozner ricostruisce la storia del matrimonio di Tolstoj: quarantanove anni, tredici figli, molta passione, molta infelicità. A ottantadue anni, nella notte del 27 ottobre 1910, Tolstoj ne ha abbastanza e scappa di casa in treno scortato dal suo segretario. Ma il primo novembre è già fermo alla minuscola stazione di Astapovo dove muore pochi giorni dopo. La moglie Sof’ja, subito accorsa ma tenuta lontana dal letto dell’ammalato, lo piange disperata.
Parafrasando quello che si dice a proposito del borderline, che è stabile nella instabilità, mi sembra che si possa definire la fedeltà come continuità nella discontinuità. La fedeltà ritrova l’altro e riannoda il filo.
Lo spettro della fedeltà. Su questo sfondo, è possibile tratteggiare un ventaglio di declinazioni nel legame amoroso: dalla fedeltà benigna, protettiva della relazione; alla fedeltà destinale che può autoalimentarsi anche quando l’altro non sia più ingaggiato nel rapporto; fino alla fedeltà maligna che si fissa sull’oggetto d’amore e non tollera di perderlo. Passando per molte variazioni intermedie e tenendo conto che uno stesso rapporto può conoscere e praticare diverse forme di fedeltà. Può collocarsi in un punto dello spettro quando inizia e magari finire all’estremo opposto. Credo che sia importante mantenere una prospettiva mobile: anche se alle estreme propaggini dello spettro ci sono manifestazioni di follia e di perversione, conviene considerarle il più possibile all’interno di un rapporto, quello amoroso, ricordando che “l’amore offre al vivere ogni ragione e follia” (Cernuda, 1957, 53). Ricordando che come una relazione si può ammalare allo stesso modo può guarire.
Non ho il tempo per soffermarmi sulle diverse declinazioni che ho prospettato – rimando però al libro di Primo Lorenzi, Il mal d’amore – e mi limito a qualche osservazione.
Quando ho cominciato a raccogliere materiale per questa relazione, gli amici di primo impulso mi suggerivano libri, opere teatrali o film che trattavano dell’infedeltà, della gelosia, del tradimento. Come mai? Scherzare sull’infedeltà sembrava più facile che cimentarsi con la fedeltà. La fedeltà a quanto pare ci inquieta. La parola “spettro” che compare nel titolo è usata nel duplice senso di “misura” e di “fantasma” (si veda il Dizionario Italiano a cura di De Mauro). Rimanda a un fondo ambiguo in quanto da un lato si riferisce allo “spettro” delle declinazioni, a un’ampia gamma di possibilità – dall’amore all’ossessione, dalla dedizione, all’abnegazione, al fanatismo – e dall’altro allude alla paura che suscita comunque l’idea di votarsi incondizionatamente a qualcosa o a qualcuno. Un’ipoteca sul futuro, un battente che si chiude, come di pietra: “L’anima sceglie i suoi compagni/ e poi chiude la porta” (Dickinson, 303).
Un romanziere ha scritto che quasi tutti sono in grado di iniziare un rapporto d’amore, ma solo le persone dotate di senso dell’umorismo sono capaci di lasciarlo finire. Credo che si riferisse alla capacità, implicita nell’umorismo, di guardare alle cose, anche alle più sacre, con un certo distacco, di relativizzarle.
Un rapporto d’amore è in buona salute quando contempla la possibilità della sua fine. Per stare insieme è necessario essere capaci di separarsi. Per quanto l’altro possa essere sentito come unico, deve poter essere sostituibile. Per quanto di vitale importanza, si deve poter pensare che la vita continuerebbe senza di lui: “Cara, se uno di noi due dovesse morire, io andrei volentieri a Parigi”, disse quel tale a sua moglie. E’una battuta riferita da Freud.
Sergio Zatti ha mostrato come proprio la fedeltà, che sembrerebbe il valore di maggior pregio ne L’Orlando furioso, sia investita dalla prospettiva multipla e reversibile che governa l’intero poema. “Ogni forma di fedeltà – a un oggetto, a un principio, a un codice unico e assoluto – trova il suo rovescio nel fatto di essere il prodotto di una fissazione unilaterale che non ammette dubbi e oscillazioni” e può condurre a esiti fallimentari, come la pazzia di Orlando o la “folle gelosia” di Bradamante ( Zatti, 1990, 99 e cfr.73). Ecco allora che Ludovico Ariosto introduce un contrappeso e un correttivo ironico grazie al cavaliere pagano Mandricardo che vende o scambia la sua donna e non “s’attrista/ se quando una ne perde, una n’acquista” (Ariosto, XXVI, 70).
La capacità di cambiare oggetto è un ingrediente tanto importante nella vita amorosa quanto la capacità di mantenerlo.
Nello spettro della fedeltà si aggirano soluzioni spettrali: chiusura nella solitudine, follia, stalking, vendetta omicida, suicidio. Morire d’amore o impedire all’altro di vivere come reazioni estreme alla rottura del legame. La clinica psichiatrica e psicoanalitica, la letteratura, il teatro, la lirica, il cinema offrono molti esempi e alcuni straordinari approfondimenti di fenomeni che non di rado riempiono le cronache. Se non si coniuga con la libertà – libertà di cambiare e di essere se stessi – se non scende a patti con il Tempo, la fedeltà diventa essa stessa uno spettro e fa paura.
Ma in chiusura di questo contributo, non voglio soffermarmi sui risvolti patologici quanto su quelli sani, forse ancora più misteriosi e certo non meno interessanti. Sull’amore quando va bene invece che sull’amore quando va male.
Vali più tu. “Perlustrare le misteriose strade attraverso le quali un uomo e una donna decidono di rimanere insieme è narrativamente molto più interessante che lavorare intorno al fallimento dei matrimoni, a rotture, tradimenti e altri disastri amorosi su cui è stato raccontato tutto sia nella letteratura che nel cinema” ha dichiarato Abraham Yehoshua intervistato a proposito del successo planetario del matrimonio in diretta dei principi inglesi (La Repubblica, 7/5/2011, 39). Se l’amore è un mistero, l’amore che resiste è un mistero ancora più grande.
Nel romanzo Due, Irene Nemirovsky aveva appunto cercato di esplorare il matrimonio: “Come avveniva, nell’unione coniugale, il passaggio dall’amore all’amicizia? Quando si cessava di tormentarsi l’un l’altro per volersi finalmente bene?” (31). Confortati anche dalle ricerche condotte su ampi campioni di popolazione che mostrano la rarefazione dei rapporti sessuali e il decremento nell’intensità dell’orgasmo nelle coppie di lungo corso, molti attribuiscono questo passaggio al tramonto della passione sessuale: “Di quel poco che resta di quel fuoco/ Resta l’amore quando non si fa”, ha scritto con grazia Patrizia Valduga.
In realtà, come nota lo psicoanalista Otto Kernberg, a dispetto degli studi statistici, gli studi clinici indicano che l’esperienza sessuale resta un aspetto costante e centrale, con “il compito di intensificare, consolidare e rinnovare le relazioni d’amore per tutta la vita e di mantenere l’eccitazione sessuale legandola all’intera esperienza umana della coppia” (Kernberg, 1995, 53).
Sulla fedeltà e sull’amore coniugale, temi ebraici per eccellenza, lo scrittore Yehoshua è tornato più volte. In uno dei suoi libri migliori, L’amante, racconta di un israeliano che va alla ricerca del giovane amante di sua moglie nella speranza che lei torni a sorridere. Questa storia sorprendente coglie dell’amore un punto fondamentale: la tolleranza. Il marito che cerca l’amante è proprietario di un’officina nella quale lavorano degli arabi. La tolleranza per le debolezze dell’altro, che è il rovescio della consapevolezza dei propri limiti, consiglia la rinuncia all’imperialismo. Per Yehoshua il matrimonio è una “sfida” e un “sodalizio”: un uomo e una donna, simili e diversi – e al fondo nemici – quanto un palestinese e un israeliano, praticano la difficile arte di collaborare a un’impresa comune che rispetti e trascenda la singolarità degli individui.
Sembra che il passaggio al legame come terzo sia un passaggio fondamentale, una chiave importante per superare il gioco serrato dell’Io-Tu e accedere al Noi. Possiamo pensare a questo Noi come a un mondo nell’accezione dei fenomenologi oppure come al “Senso del Noi” descritto da George Klein (1976) e ripreso nelle terapie di coppia a orientamento psicoanalitico (rimando al libro di Norsa e Zavattini, Intimità e collusione). Possiamo mettere l’accento sugli aspetti protettivi oppure su quelli vincolanti, sul conforto o sull’impegno. Ma è “matematico” è che uno più uno a un certo punto non fa due ma tre: la coppia diventa un’entità, un personaggio nella storia.
Credo che quando questo senso del Noi, quando questo sentirsi una coppia, e potenzialmente una famiglia, guadagni terreno, la fedeltà guadagni respiro, si allarghi, non si fissi unilateralmente sull’oggetto ma si trasformi in fedeltà al mondo, grande o piccolo, che è nato dall’amore. Non inchiodi l’altro ai comportamenti ma piuttosto lo richiami alle intenzioni di fondo e alla responsabilità nei confronti del legame.
Il tempo può diventare un alleato: “Il tempo non opera soltanto in senso distruttivo… La vita in comune diventa la depositaria dell’amore, una forza potente che dà continuità contro le discontinuità della vita quotidiana” (Kernberg, 1995, 107). Come intuiscono i protagonisti di Due, “La loro salvezza stava in ciò che li riguardava in quanto coppia, e non in quanto individui distinti. Uniti erano invincibili… Separati, erano i più deboli fra gli esseri umani”. (Némirovsky, 219). Lontano da Sof’ja, Tolstoj muore
Nella vecchiaia, al profilarsi della morte, certi coniugi si guardano con rinnovata tenerezza e si amano per la loro fragilità. Si amano con i loro corpi in rovina perché ne ricordano l’integrità e il lento sfiorire nell’usura dei giorni che hanno trascorso insieme. Sperimentano il piacere che si prova quando si ritorna nei luoghi dell’infanzia e si rivede quella macchia di muffa sul muro, quella tazza sbreccata, quel ramo storto al quale ci si appendeva per fare l’altalena: “vali tu coi tuoi piedini/ piatti d’orsacchiotta/ coi tuoi occhi asimmetrici/ col tuo codino d’anatroccola/ che alzo quando bacio la tua nuca, vali più tu con tutti i tuoi malanni…”. Per Nelo Risi, solo una cosa vale più di sua moglie e cioè la cosa sola che formano quando sono insieme: “vali anche più tu con me vicino”. E con questa citazione piena di teneri riferimenti agli animali, concludo il mio intervento al dialogo sulla “fedeltà del piccione”.
NOTA
Questo è il testo che ho in parte utilizzato intervenendo al dialogo “La fedeltà del piccione” nel festival Comodamente che si è tenuto a Vittorio Veneto dal 2 al 4 settembre 2011. Andrea Pilastro, l’etologo, non ha potuto partecipare al dialogo. La mattina di sabato voleva essere presente alla cerimonia funebre per le guide Alberto Bonafede e Aldo Giustina, 43 e 42 anni, caduti nel soccorso di due alpinisti feriti sul monte Pelmo, “fedeli alla scelta – come ci ha scritto – di aiutare altri esseri umani, anche sconosciuti, in difficoltà”. Ha voluto essere là dove la fedeltà parlava attraverso i fatti, rivelando il suo patto con la morte.
Ho dialogato invece con Alessandro Bonino che assieme a Stefano Andreoli ha ideato e cura il blog “Spinoza”. Colto e versatile, Bonino ha svolto il necessario contro canto ironico nella trattazione di un tema serio. E ha posto una domanda spiritosa toccando, come ha sottolineato Anna Ferruta, un nodo centrale: “Alla mia fidanzata non piacciono le mie scarpe preferite: come faccio?”. A chi essere fedeli: a se stessi oppure all’altro?
“Ma insomma, la fedeltà è una cosa buona?” ha chiesto molto opportunamente una signora del pubblico. A Bonino è venuta in mente la fedeltà che si giura alla mafia. Una luce sinistra si è accesa. Avremmo anche potuto ricordare che “Il mio onore si chiama fedeltà” era il motto delle SS di Himmler e che sulla fibbia di ogni soldato nazista era inciso “Dio è con noi”. Dunque, dopo tanto discorrere: dipende, cara Signora. Il problema è che gli oggetti umani non sono mai del tutto puliti, nemmeno i più fulgidi.
Ringrazio Giuseppe Girimonti Greco. Comparatista e squisito traduttore dal francese, sa moltissime cose in tema di letteratura e fedeltà: alcune, per fortuna, me le ha suggerite.
Ringrazio una giovane persona che mi ha regalato Lettera a D. quando i suoi genitori erano sul punto di separarsi.
Bibliografia
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