Mitt namn var Sabina Spielrein di Elisabeth Màrton (Svezia, 2002)
Prendimi l’anima di Roberto Faenza
(Italia, 2003)
Sono trascorsi quasi 100 anni da quando
Sabina Spielrein varcò contro la sua volontà le porte del Boerghezli, una di
quelle "sliding doors" che cambiò non solo la vita dei due protagonisti di
questa vicenda di malattia, cura e amore, ma contribuì direttamente o
indirettamente a scrivere un capitolo non ancora concluso della storia della
psicoanalisi e della ricerca psicoanalitica, quello appunto del
transfert/controtransfert amoroso.
Sono passati ormai anche un sufficiente
numero di anni, perché l’interesse rinato per questa storia così
intrinsecamente legata a quella del pensiero psicoanalitico possa attingere ad
una verità storica meno offuscata da preconcetti e pregiudizi.
Quando Jung incontra Sabina per la
prima volta è il 1904: egli è un giovane psichiatra innamorato della
psicoanalisi, il nuovo metodo terapeutico che ha appreso da Freud e che usa per
curare Sabina, una giovane paziente russa affetta da psicosi isterica.
In quegli anni, la conoscenza del
transfert era quella del transfert paterno edipico, in un quadro di isteria. Il
concetto di "transfert" era stato per la prima volta nominato da Freud nel
1905. Poco dopo la rottura con Jung, nelle prime pagine del suo "Note sull’amore
di transfert"(1914b), Freud fa riferimento alle sue note scritte nello stesso
anno sulla discrezione. Parlando dell’infatuazione di pazienti donne per i loro
terapeuti uomini, egli afferma che, a causa del problema della discrezione,
questa situazione transferale aveva ritardato lo sviluppo della terapia
psicoanalitica nei suoi primi dieci anni e scrive le famose parole "La cura
deve essere condotta in stato di astinenza" ( 1914, pag. 367).
Poche righe sopra aveva scritto che il
trattamento psicoanalitico si fonda sulla sincerità. Astinenza e sincerità sono
per Freud due capisaldi della terapia psicoanalitica e, come è tristemente
noto, entrambi verranno meno nel rapporto tra Jung e Sabina Spielrein.
In quelle stesse pagine Freud aveva
anche scritto parole che testimoniano della sua precoce e profonda
consapevolezza che l’analista deve avere "di lavorare con forze altamente
esplosive e di dover procedere con le stesse cautele e la stessa coscienziosità
del chimico." (pag. 367).
Nel centenario del ricovero della
Spielrein al Boerghezli, due registi, l’italiano Roberto Faenza e la svedese
Elisabeth Marton le hanno dedicato due film molto diversi tra loro..
Entrambi i registi si pongono in una
linea riparativo/restitutiva verso questa affascinante donna e studiosa, che
dimenticata per moltissimi anni è stata riscoperta grazie alla pubblicazione
del suo epistolario, ad opera dello psicoanalista italiano di formazione
junghiana Aldo Carotenuto (1980).
Il film di Faenza, che pure attinge a
materiale storico documentario, è basato su una sceneggiatura originale, frutto
della sensibilità, delle fantasie consce e inconsce del regista e del suo mondo
affettivo interno, mentre quello della Marton è più vicino alla tecnica del
documentario, il suo intento dichiarato essendo quello di testimoniare la vera
storia di Sabina Spielrein.
Iniziamo la nostra analisi dal film di
E. Marton, che sceglie di raccontare la vicenda inframmezzando il testo delle
lettere scritte da Sabina alla famiglia, a Freud e soprattutto a Jung, con
scene girate da attori professionisti, e con documenti e filmati d’epoca. Una
voce fuori campo narra gli eventi, mentre i protagonisti restano muti e spesso
immobili.
La Marton, come farà anche Faenza,
sceglie di iniziare il suo film con una scena che ritrae Sabina regredita e
folle in una stanza d’ospedale, in preda a ricordi traumatici della sua
infanzia. Intanto le inquadrature dei libri di Freud ci calano nell’atmosfera e
nello spirito in cui si iscrive la sua storia di malattia e di cura, sulla
quale la regista non si sofferma troppo, preferendo narrarci la storia di
Sabina attraverso la sua passione amorosa per Jung, a cominciare dalla prima
lettera che la giovane russa scrive alla madre il 6 agosto 1905.
Inquadrando una sequenza ravvicinata di
lettere, la Marton ci fa sapere che, dimessa il 5 giugno 1905, dopo soli dieci
mesi di terapia, a settembre la Spielrein, che continua intanto la terapia
analitica con Jung, va a vivere in una casa sua e inizia gli studi di medicina.
Di lì a pochi anni, ritornerà da
psichiatra nell’ospedale in cui era entrata paziente e vi applicherà il metodo
di Freud, che Jung aveva sperimentato con lei.
La passione per il suo medico la
accompagnerà tutta la vita ed è ragionevole supporre che la Spielrein esercitò
su Jung un’influenza unica sia nel determinare il suo allontanamento da Freud
che nella conseguente cristallizzazione delle sue idee. Tale passione conoscerà
momenti di intensità diversa fino al delirio erotico, nella fantasia più volte
ripresa di avere da Jung il figlio semidio Sigfrido, e a quello paranoide,
quando si sente da lui derubata delle sue idee più creative.
Questo del furto di idee è uno degli
elementi più penosi e ambigui del suo rapporto con Jung, su cui la Marton
insiste nel tentativo di riabilitare Sabina, mostrandocela come la vittima di
Jung e di Freud, che in un primo tempo l’aveva definita pazza, non potendo
tollerare l’idea di un Jung meschino e mentitore.
Freud le riconoscerà la paternità delle
sue idee molti anni dopo in una nota di "Al di là del principio del piacere"
(1920): "A considerable portion of these speculations have been anticipated by
Sabina Spielrein (1912) in an instructive and interesting paper which, however,
is unfortunately not entirely clear to me" (p.50).
Le idee contese sono quelle
sull’istinto di morte che compaiono nel lavoro più noto e significativo di
Sabina "Destruction as a cause of coming into being"(1912), che doveva essere
pubblicato contemporaneamente al lavoro di Jung e comparve invece solo in
seguito.
Sempre attraverso l’epistolario la
Marton ricostruisce in parte la vita che Sabina cerca di vivere a lato della
sua tormentata passione per Jung.
Ella si sposa a Ginevra con il fisico
Paul Scheftel e ha una prima figlia Renate.
Il tentativo di Jung e Sabina di
distaccarsi sembra in realtà deprimere entrambi: da una parte Jung lamenta che
chi non crea è morto, dall’altra Sabina comincia ad avere dubbi sulla sua
professione di psicoanalista, dipinge, scrive un romanzo e infine riprende
l’epistolario con Jung per scoprire che sono entrambi infelici.
Nel frattempo gli sconvolgenti avvenimenti
storici del 900 hanno preso l’avvio con lo scoppio della prima guerra mondiale
e subito dopo della rivoluzione russa.
Ritrovato il legame affettivo con Jung
ricompare nelle lettere di Sabina, Sigfried, a metà tra uomo e dio, forse
simbolo per lei della creatività della loro unione. Ella ricomincia ad occuparsi di psicoanalisi, in
particolare delle origini del pensiero nei bambini e dello sviluppo del
linguaggio umano.
Solo a contatto con Jung ella può
riprendere a pensare e a parlare?
ma la componente maniacale si intravede
nel progressivo allontanamento dalla realtà: il suo matrimonio va in crisi,
lavora gratis, incurante dei problemi economici suoi e della figlia, abbandona
tutti i suoi documenti e libri a Ginevra, e infine lascia il marito per tornare
a Mosca nel 1923, a 37 anni, insieme alla figlioletta. Dopo alterne vicende si
riappacifica con il marito ed ha una seconda figlia, Eva.
Per due anni, lavora nell’asilo di Vera
Schmidt che però nel 1925 viene chiuso per ordine di Stalin. La repressione
stalinista infuria, i tre fratelli di Sabina, tutti famosi scienziati, vengono
uccisi, la psicoanalisi viene proibita nel 1936.
Allo scoppio della seconda guerra
mondiale Sabina ha diverse opportunità di fuggire, ma non può credere che "i
tedeschi potranno farle del male" così nell’agosto del ‘42 decide di tornare a
Rostov, sua città natale nella quale troverà la morte insieme alle figlie
nell’eccidio della Sinagoga: un movimento paradossale sembra averla guidata
verso una coatta ricerca delle origini, verso il luogo di un trauma originario
non sanato dalla sua esperienza analitica.
Alla luce di ciò il titolo del suo
lavoro più famoso "Destruction as a cause of coming into being" acquista una
valenza negativa più nella direzione della morte che della vita.
Elisabeth Marton usa una pellicola in
bianco e nero, più vicina ai filmati d’epoca, dedicando molta attenzione alla
ricostruzione ambientale (interni, arredi, tendaggi: la creatura che ne esce
protagonista è una figura muta, i cui moti dell’animo trapelano in qualche
brusco movimento, in qualche oggetto che cade, una creatura che sembra
aspettare di essere svelata, spesso ripresa accanto a fonti, zampilli, acque,
tende, veli, quasi a sottolineare la sua natura fragile, mutevole, umorale,
piuttosto che quella forte, volitiva, appassionata, che la storia le riconosce.
Proprio dalle lettere e dagli
avvenimenti della sua vita professionale e affettiva, mostrati nelle sequenze
scelte dalla Marton, emerge come la cosiddetta guarigione e l’assunzione di identità,
conservi in Sabina un carattere imitativo più che identificatorio e vada di
pari passo con la sua storia d’amore per Jung.
Nei momenti in cui si sente tradita,
derubata, abbandonata da lui, regredisce e perde l’elemento strutturante
rappresentato per lei dalla passione per la psicoanalisi e dall’amore per Jung.
Non appena ristabilisce un contatto esterno e
interno con lui ritrova una maggiore coesione del Sé.
La Sabina della Marton si avvicina di
più alla categoria diagnostica di una psicosi isterica, proprio quella che Jung
le aveva assegnato. Insistendo sulla durata del loro attaccamento, la regista
ne fa una figura patetica gravemente sofferente e infantilizzata, a momenti
minacciata, a momenti blandita, in nome di interessi superiori alla sua persona
e alla sua malattia, proprio laddove avrebbe voluto restituirle dignità e
giustizia.
Quasi che per lei restasse l’infelice,
violata negli affetti e nella mente, mentre il racconto della regista non
risparmia allo spettatore la meschinità e gli interessi concreti dei genitori
da una parte e degli psicoanalisti dall’altra, che per motivi diversi, sembrano
tutti cavalcare la sua sofferenza, e la sua straordinaria intelligenza.
Per comprendere "The soul keeper"
(Prendimi l’anima) di Roberto Faenza è di cruciale importanza mettersi in
sintonia con il particolare interesse del regista per le persone di
Sabina Spielrein e Carl Gustav Jung, interesse ed entusiasmo per le loro storie
e per la passione che vissero e condivisero.
Anche Faenza fa un’accurata ricostruzione
dell’ambiente storico a cominciare dall’ospedale nel quale, nelle prime scene
del film, una giovane Sabina terrorizzata viene trascinata a forza sotto gli
occhi severi del padre e sotto lo sguardo stuporoso e impotente della madre.
Un rigido e insensibile direttore
affida il caso al giovane e affascinante dottor Jung, che sembra considerarla
un soggetto adatto, in quanto "isterica", alla sperimentazione delle nuove
teorie freudiane. Usando questo nuovo metodo con l’entusiasmo di un neofita
Jung affronta la sofferenza e la patologia di Sabina; egli commette anche
errori e fa agiti poco psicoanalitici, ma essenziali per introdurci alla
inevitabilità della conclusione amorosa della relazione.
In una scena del film Jung si sveglia a
causa di un sogno premonitore e tira Sabina fuori dal pozzo nel quale si è
rifugiata, dopo che attraverso le libere associazioni è riuscita a ricordare la
sorella morta e le percosse del padre. Letteralmente la tira fuori dal pozzo
della follia nel quale lei è caduta e pur di salvarla è disposto a cadervi a
sua volta. Pur nell’eccesso di sottolineatura simbolica la scena del pozzo
rimane una scena chiave del film che mette in primo piano la seduzione, il
transfert erotico e il controtransfert agito di Jung.
Per convincerla a mangiare Jung conduce
la sua paziente in una lussuosa pasticceria, la imbocca e, cercando di
distrarla, le racconta fin da subito cose personali, donandole il suo diario.
Richiamato nell’esercito, parte senza avvertirla scatenando una violenta
reazione di angoscia d’abbandono che rende indispensabile il ricorso ai vecchi
strumenti psichiatrici di contenzione. Per recuperare la sua fiducia le dona in
seguito una pietra che conserva fin dall’infanzia e che rappresenta per lui la
sua anima.
Questo suggella definitivamente il
patto terapeutico tra i due, connotandolo tuttavia in maniera seduttiva, e
predisponendo quello che un analista italiano ha definito il "collasso del
transfert" (Semi, 1989?), per indicare la violazione dei confini del setting
(Gabbard, 2000) che porta a scivolare ineluttabilmente verso un transfert
erotizzato agito.
Significativo di questo movimento
transferale è il fatto che, divenuta custode dell’anima di Jung, Sabina va in
stato di eccitamento trascinando l’intero reparto psichiatrico, compreso il
severo direttore, in canti e danze.
Dopo il ballo il film passa da scene di
malattia e disperazione ad uno sbrigativo salto nella guarigione. Dapprima
vediamo Sabina che uscita dall’ospedale si reca dall’analista Jung, ormai impossibilitato
a mantenere il suo assetto terapeutico. Egli finisce per raccontarle un suo
sogno; successivamente, divenuta brillante studentessa di medicina e alloggiata
in una casa sua, ella accoglie la visita del suo analista, intimidito.
Ormai il rovesciamento dei ruoli è
compiuto, Jung si lascia definitivamente sedurre e finisce travolto dalla
passione.
L’intensificarsi della relazione e le
pressanti richieste di Sabina di avere un figlio da lui lo terrorizzano al
punto che, non riuscendo più a controllare la situazione
transferale/controtansferale, chiede aiuto a Freud. Questi d’autorità gli
impone di lasciare Sabina.
La prima parte del film finisce con la
intensa scena di vendetta fantasticata da Sabina durante la quale, irrompendo
in un’ importante riunione scientifica, in presenza della moglie di Jung,
rivela pubblicamente di essere la sua amante.
Nella seconda parte del film ritroviamo
Sabina dopo circa dieci anni a Mosca, sposata, con una figlia. Come direttrice
dell’asilo bianco di Vera Schmidt riesce ad aiutare un bambino in gravi
difficoltà relazionali, con una modalità molto affettiva, ma poco
psicoanalitica. Infine, due anni dopo, la vediamo lottare inutilmente per
difendere l’asilo, di cui Stalin ha ordinato la distruzione.
Gli eventi storici, lo stalinismo prima
e l’invasione nazista poi, segnano il suo destino che la porta inesorabilmente
a chiudere il cerchio di un ritorno alle origini, che le si rivelerà fatale.
Il film si chiude con il massacro degli
ebrei nella sinagoga di Rostov dove Sabina perde la vita assieme alle figlie.
Fin dall’inizio del film, Faenza
dipinge, in breve, un padre rozzo, violento e ostile e una madre depressa.
Tanto depressa per la morte di una figlia, che non si rende conto che sta
perdendo anche l’altra. Dal canto suo, Sabina è un’adolescente gravata dal peso
del lutto per la morte della sorella, colpevole e ansiosa, abbandonata da
genitori inadeguati alle violente terapie dell’epoca.
Faenza inconsapevolmente coglie la
qualità materna dell’intervento iniziale di Jung nei confronti di Sabina, del
tutto ante litteram rispetto alla psicoanalisi delle isteriche del tempo. Egli
ci mostra un Jung che comprende di dover ascoltare la profonda sofferenza della
paziente, in linea con un transfert materno primario narcisistico, ponendosi
come self-object (Kohut,1976).
Jung concretamente imbocca Sabina come
una bambina, e l’aiuta ad emergere lentamente dalla sua regressione
narcisistica.
Certamente questo non può essere
definito un transfert paterno, come la teoria psicoanalitica dell’epoca
sosteneva, bensì materno, e Jung ha successo, la aiuta, riparando così la
libido narcisistica legata al lutto non elaborato e alla perdita dell’oggetto
primario.
Al contrario, egli fallisce quando si
confronta con il livello edipico, che viene inesorabilmente agito nella loro
storia d’amore.
Perciò possiamo parlare di un difetto
nel controtransfert e di un transfert irrisolto e non analizzato di Jung per la
sua paziente Sabina. Ella vive e agisce concretamente la realizzazione dei suoi
desideri edipici infantili, invece di elaborarli, ma non sembra essere capace
di raggiungere una sessualità adulta genitalizzata.
Per Sabina è importantissimo
riguadagnare l’amore dell’oggetto materno. Vediamo quanto sia dipendente,
quando tenta il suicidio, pensando di essere stata abbandonata da Jung.
Al giorno d’oggi, proprio per
l’importanza che attribuiamo agli aspetti transferali e controtransferali della
relazione, nessun analista si allontanerebbe dal suo paziente senza farglielo
sapere in anticipo. L’episodio è comunque importante per la comprensione dei
problemi profondi di Sabina e per lo sviluppo della sua relazione con Jung. Nel
transfert ella ripete il dolore della perdita primaria e Jung, toccato
dall’ansia risvegliata dagli aspetti più primitivi della sua mente e coinvolto
nella dipendenza regressiva, sente egli stesso il dolore della perdita.
Controtransferalmente egli, in contatto con i suoi aspetti infantili, riesce a
salvare la relazione ed a ristabilire il legame con lei.
Nel lavoro con pazienti gravemente
disturbati, maneggiare il proprio controtransfert è la cosa più difficile.
Per essere capace di contenere la parti
più profonde e più sofferenti del paziente, l’analista deve mettersi in
relazione con i suoi più profondi e sofferti aspetti. Allo stesso tempo deve
mantenere la sua funzione analitica viva, vigile e differenziata.
Nel 1904 Jung era un pioniere con
l’entusiasmo e la mancanza di esperienza di un pioniere, e a questo punto
diviene incapace di distinguere chi sia il contenitore e chi ha bisogno di
contenimento, chi sia l’adulto e chi il bambino, chi l’analista e chi
l’analizzando e in quale tipo di transfert si stessero muovendo?
Nel film Jung racconta il suo sogno del
grande cavallo, che si calma quando vede il cavallo più giovane, ad una Sabina
sicura di sé e dominatrice che interpreta il sogno nel senso della dipendenza
da Freud di Jung che si comporta come un buon giovane puledro nei confronti del
maestro.
Il sogno, comunque, solleva il problema
del transfert e del controtransfert e mostra come il controtransfert non
risolto di Jung lo spinga verso un massiccio investimento transferale della sua
giovane paziente Sabina. C’è una inversione dei ruoli tra paziente e analista:
il giovane puledro Sabina calma l’ansia del grande cavallo Jung.
Essi sono poi travolti dalla passione,
che mostra gli aspetti della dipendenza patologica e dei desideri edipici in
Sabina, mentre rivela in Jung elementi infantili, narcisistici e incestuosi.
A questo punto essi si sentono perduti:
invocano l’intervento di Freud che ordina loro di interrompere la loro
relazione. Egli sembra apparentemente insensibile alle difficoltà e alle
possibili conseguenze che tale decisione poteva avere su Sabina. Nondimeno la
paziente sembra riprendersi, si laurea in medicina e diviene un’analista ella
stessa. Possiamo pensare che Eros trionfi sempre , non importa come, liberando
il desiderio?
Noi pensiamo che il film mostri
qualcosa di profondamente diverso. Jung riesce a sanare le ferrite di Sabina
per quanto riguarda la libido connessa al lutto e alla perdita dell’oggetto
primario, ma non è in grado di aiutarla a risolvere i fantasmi connessi al
transfert edipico, sarebbe più corretto dire alla triangolazione precoce a cui
ella è esposta. Tali fantasmi sono perciò agiti: Sabina concretamente vive la
colpa e il dolore dei suoi desideri edipici infantili, anziché elaborarli.
Perciò non sembra in grado di raggiungere una sessualità adulta genitale, né la
pienezza di un desiderio realmente soddisfacente (Eros ha a che fare infatti
con tutti gli aspetti della vita, non solo con la sessualità).
Nella seconda parte del film, la
vediamo esprimersi parzialmente sia nell’amore che nella professione. La
troviamo laureata, come poche donne nella sua epoca, sposata e madre di una
bambina. Faenza sceglie di mostrarci una donna diversa: dolce ma leggermente
spenta, se paragonata con la brillante ragazza amata da Jung. Suo marito è più
tenero che appassionato, non molto virile e sempre ritratto mentre sbriga
faccende domestiche, mentre sullo sfondo Sabina scrive lettere a Jung.
Ciò sembra sottolineare l’impossibilità
di una separazione affettiva reale e matura dal suo analista. Neppure la sua
professione sembra soddisfarla pienamente. Faenza sceglie di sottolineare
l’attività di Sabina come direttore di un kindergarten, coinvolta in un
progetto brillante e avanzato, ma più da educatrice illuminata che da medico
analista, autrice di interessanti saggi.
Questi aspetti della sua vita sembrano
più strettamente connessi con un tentativo di riparare e di elaborare il lutto
e la colpa per la morte della sorellina.
Thanatos, che aveva fatto irruzione
nella sua psiche alla morte della sorella non sembra essere stato sconfitto da
un Eros troppo incestuoso e per sempre legato al suo padre analista Jung.
La qualità spazio-temporale del setting
analitico promuove di fatto una dimensione affettiva, a parte, rispetto alla
vita. Questa è la ragione per cui il setting analitico mette in moto affetti di
base di straordinaria intensità e guida gli investimenti, che faciliteranno i
cambiamenti strutturali.
Grazie alla loro qualità appassionata,
gli affetti attivati attraverso il transfert/controtransfert possono talora
apparire simili a quello speciale sentimento che nella vita di tutti i giorni
chiamiamo amore e passione, ma non si tratta di quell’amore.
Pensare all’amore di transfert come ad
un’esperienza reale significa malintendere la sua dimensione onirica e
sciuparne il potere. Pretendere di viverlo concretamente significa agirlo e sprecare il potere della comprensione e dei
cambiamenti psichici che un’analisi ben condotta può permettere. La nuova
capacità di amare che il paziente sviluppa in un trattamento analitico
sufficientemente buono può essere compreso, incoraggiato, integrato nel Sé della persona e infine indirizzato verso
oggetti reali esterni.
Questo è esattamente ciò che Sabina non
ha potuto provare nella sua relazione analitica, perché entrambi I membri della
coppia analitica sono parsi sopraffatti da una passione che era patologicamente
dipendente in Sabina e che rivelava nodi irrisolti di natura infantile,
incestuosa in Jung. Per questa ragione, l’esperienza analitica di Sabina
diviene esemplare così come ci viene mostrata nella seconda parte del film di
Faenza, quando egli ritrae la sua vita dopo il ritorno in Russia, accanto ad un
uomo debole, malato, inspiegabilmente abbandonato per tornare a Rostov, verso quel
luogo d’origine, che era stato il luogo oscuro della sua malattia, del suo
lutto infantile e della perdita, luogo dove alla fine incontrerà la distruzione
estrema della furia nazista.
Il cambiamento catastrofico idealizzato
della rivoluzione d’Ottobre aveva mostrato molto presto il suo aspetto
persecutorio nella furia stalinista, così Thanatos che Sabina aveva studiato e
connesso al venire ad essere in un suo scritto, trionfava su Eros, in una dura
terribile lotta combattuta nel suo mondo interno e fuori di lei sul teatro
della storia.
Considerazioni
Emanuel Berman ricostruendo le vicende
amorose che unirono Ferenczi, Gizela ed Elma Palos parla di "diadi
generative"(2002, p. 376), intendendo con ciò quelle coppie della psicoanalisi
delle origini che pur nella sofferenza e nell’errore hanno fornito degli
elementi di riflessione e di ricerca, senza i quali sarebbe difficile
immaginare la storia di alcuni concetti fondamentali della psicoanalisi e
quindi la psicoanalisi stessa.
Inevitabilmente parlando di coppie
delle origini, il pensiero corre anche a Sabina Spielrein e al suo rapporto con
Jung, per la somiglianza delle loro vicende: l’innamoramento tra paziente e
analista, il coinvolgimento del padre della psicoanalisi Freud da parte dei due
analisti in questione, Jung e Ferenczi, gli allievi prediletti, entrambi poi
ricusati. Furono questi i triangoli fatali della psicoanalisi delle origini.
Freud viene chiamato in causa da
entrambi questi giovani colleghi e si trova inizialmente nella posizione
dell’osservatore, che cerca di metterli in guardia e di proteggerli dai
pericoli della perdita del ruolo analitico. Di fronte al racconto del
coinvolgimento transferale di Jung, non vuole prestargli fede e si limita a dare
consigli di buon senso. Egli sembra guardare ancora con distacco una reazione
di cui aveva intuito la potenza fin dai tempi di Breuer e Anna O., per poi
abbozzarne la teorizzazione con Dora. Entrambe le relazioni, come si ricorderà,
si interruppero, nel primo caso ad opera del terapeuta, nel secondo della
paziente, entrambi spaventati dalle emozioni incontenibili che emergevano nella
relazione terapeutica.
Ancora però Freud non coglie appieno
che la reazione amorosa delle pazienti coinvolge anche lo sperimentatore/analista
con la stessa intensità; egli continua a chiamarla isteria, come un quadro
diagnostico che riguarda solo le pazienti e che il medico osserva.
Nel momento in cui comincia a rendersi
conto che anche l’analista è coinvolto in prima persona, teorizza l’amore di
transfert, difendendosene disperatamente come resto non analizzato del
terapeuta e si allontana da Jung e successivamente da Ferenczi, che addirittura
utilizza le sue reazioni controtransferali e comincia a teorizzarle come parte
ineliminabile del lavoro terapeutico.
La storia di Jung e Sabina Spielrein è
perciò una storia preziosa per la psicoanalisi e come tale necessita di essere
riletta.
I due film potrebbero in questo senso
essere letti come due modalità diverse del lavoro analitico: una da cui sembra
emergere la ricostruzione storica della vita della persona, l’altra
piuttosto orientata verso la vicenda affettiva interna che ne costituisce la
verità storica profonda e che può nascere solo dall’intreccio e dalla relazione
di transfert/controtransfert.
Quello che emerge, detto con le parole
di Ogden (1994), è il terzo analitico. Freud aveva anticipato questo in
Costruzioni in analisi (1937) affermando che si trattava non tanto di memorie
riemerse dell’infanzia, quanto di ricordi costruiti sull’infanzia.
Il film della Marton si pone, a nostro
avviso, nella linea di chi suppone di potere ricostruire la realtà storica, con
una tecnica vicina al documentario, scotomizzando però che anche il
documentario è frutto di un montaggio legato all’immaginario del regista.
Faenza sceglie invece esplicitamente e
provocatoriamente di entrare nel vivo della materia affettiva di questa storia,
come storia d’amore. Nel suo film Spielrein è una donna dalle forti emozioni,
affamata d’amore, che cerca in Jung e nella psicoanalisi il contenitore delle
sue travolgenti passioni: alla fine non lo troverà, e perderà ogni cosa, Jung,
la psicoanalisi e la vita stessa.
La Marton sembra porsi sulla linea
degli analisti delle origini che finivano per prendere sul serio il racconto di
seduzione dei loro pazienti, credendo così di ricostruire la verità storica,
come all’inizio della psicoanalisi nella prima teoria della seduzione e del
trauma. Nell’inseguire la via della fedeltà storica ella, a differenza di
Faenza, ci presenta un personaggio scarsamente vitale e non aiuta lo spettatore
ad entrare in relazione con Sabina, che appare soprattutto nella dimensione
della sofferenza e nel ruolo di vittima, a scapito dello spessore affettivo e
della straordinaria ricchezza umana di cui era dotata e che la regista
intendeva presumibilmente far risaltare. Il pericolo, nella versione
documentaria della storia, è l’appiattimento in una dimensione troppo concreta,
che inibisce la fantasia dello spettatore e impedisce il lavoro del preconscio.
Quest’ultimo costituisce il vero legame tra artista e spettatore e la strada
verso la elaborazione del trauma e il recupero della dimensione simbolica.
Faenza procede nel segno opposto con
un’offerta talora sovraccarica di simboli, ma con il merito di stimolare i
nostri processi identificatori e il desiderio di entrare nella storia e nella
dimensione privata dei personaggi, vivificando le nostre emozioni e la nostra
fantasia.
Un esempio di ciò è l’invenzione della
scena del teatro, dove ci rende partecipi del limite di rottura tra la follia e
la passione amorosa che travolge i due protagonisti, rappresentandola in
maniera eccessiva, iscritta come è nel melodramma wagneriano, che finisce così
per definire la vicenda stessa come melodrammatica.
Faenza accetta il rischio di farsi
travolgere, rischio che l’analista stesso corre nella dimensione transferale e
controtransferale quando si avvicina al livello trasformativo. Il regista
coglie il problema della relazione in tutta la sua modernità e complessità, ed
entra nel vivo di una psicoanalisi bipersonale. Il lavoro della Marton,
nonostante il suo dichiarato intento a favore di Sabina, finisce invece per
riproporre la vicenda dell’isterica sedotta, abbandonata e derubata delle sue
idee, in una visione monopersonale della psicoanalisi.
Freud nel 1914 aveva concluso il già
citato articolo affermando " Ma credere che si possano vincere le psiconevrosi
operando con blandi mezzucci, significa sottovalutare grossolanamente la natura
di queste affezioni, la loro origine e la loro effettiva importanza. No:
nell’attività terapeutica resterà sempre posto, accanto alla medicina, per il
ferrum e per l’ignis: così pure non si può rinunciare a una rigorosa e non
addomesticata psicoanalisi, la quale non tema di maneggiare i moti psichici più
pericolosi e di padroneggiarli nell’interesse del malato." (pag. 374)
Qualche anno più tardi, Ferenczi
trovandosi coinvolto come Jung nella relazione con una paziente, non si
sottrasse all’esperienza e cercò anzi di formulare una prima "rudimentale"
teoria del transfert/controtransfert. La sua intuizione fondamentale
nell’ultimo decennio è stata riconosciuta come il punto di partenza della
moderna teoria del controtransfert.
Ferenczi infatti comprese, a differenza
di Jung, che l’analista non solo non è uno specchio riflettente, ma è presente
come persona, con sue specifiche caratteristiche che vengono inevitabilmente
immesse nella relazione. Il paziente, a sua volta, proietta e fa agire
all’analista il suo controtransfert nei suoi confronti. Jung visse quindi
la sua relazione con la Spielrein come un errore, che tentò di risolvere
chiedendo l’intervento di Freud; Ferenzci invece, ebbe il merito di non
ritrarsi di fronte alla potenza innovativa dell’analisi del controtransfert,
anche se non riuscì a controllarne gli eccessi. Negli ultimi anni della sua
vita, ormai isolato e malato, arrivò a teorizzare l’analisi reciproca, spinto a
ricercare conforto nei pazienti dalla depressione e dalla solitudine.
La sofferta comprensione ed
elaborazione delle storie di Jung e Sabina, Ferenczi ed Elma Palos, che si
conclusero per Freud con la perdita degli allievi prediletti, spinse il
creatore della psicoanalisi sulla strada della psicoanalisi moderna: egli ebbe
il coraggio di salvare la pulsionalità, al contrario di Jung, dando origine
all’analisi del transfert e, a differenza di Ferenczi, non si fece travolgere
dalla potenza degli affetti scatenati dal transfert stesso. Le geniali
intuizioni di Ferenczi poterono quindi in seguito essere riprese, una volta
sanate dalla violenza dell’agito sessuale.
Bibliografia
(2004) Bernam, E. Sàndor, Gizela, Elma: uno
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Relazione presentata a EPFF2 (European
Psychoanalytical Film Festival)
Londra 2003