Parole chiave: omofobia, trauma collettivo
La mostra “40 anni positivi”: dalla pandemia di Aids a una generazione Hiv free
Recensione di Maria Antoncecchi e Paola Ferri
-Era il 1981 quando furono segnalati i primi casi di una “malattia sconosciuta talvolta mortale tra gli uomini gay di San Francisco e di altre grandi città” in seguito identificata come AIDS (Sindrome da Immunodeficienza Acquisita). A 40 anni da quell’evento, Milano celebra alla Sala Galleria dei Frigoriferi Milanesi una mostra che ripercorre la storia della cura e della ricerca scientifica attraverso documenti d’archivio, fotografie , campagne pubblicitarie e opere d’arte. Un percorso conoscitivo ed emotivo che inizia con l’articolo del New York Times del 1982 che definì la sindrome misteriosa “un nuovo disturbo omosessuale” associando la malattia unicamente all’ambiente gay. Possiamo affermare oggi che si trattava di una valutazione dettata dai pregiudizi visto che il 60% dei positivi è eterosessuale e il 40% è omosessuale.
In Italia, l’arrivo dell’HIV portò un profondo mutamento nei costumi e nella vita sociale dell’epoca. Avevamo alle spalle le lotte dei movimenti di liberazione sessuale e con l’infezione HIV cominciò a diffondersi un clima di paura. Negli anni novanta la paura del contagio si diffuse nella popolazione e un clima di ostracismo e discriminazione colpì gli omosessuali. Nel 1984 si costituì la prima associazione omosessuale (l’Arcigay di Milano) allo scopo di affrontare anche i problemi causati dalla presenza della malattia. Le prime star, in quegli stessi anni, cominciarono a dichiarare di essere malati di AIDS (l’attore Rock Hudson, la star della pallacanestro Magic Johnson, il cantante Freddie Mercury) e a contribuire in modi diversi a rompere il silenzio sullo stigma che si stava consolidando sul mondo omosessuale. Le immagini sconvolgenti dei malati di AIDS cominciarono a circolare e a fare paura e, oggi, rivedendole non possono non ricordarci, mutatis mutandis, le immagini degli ospedali con i malati di Covid. Ma erano altri tempi ed era un’altra malattia anche se grazie all’HIV la ricerca cominciò ad occuparsi di anticorpi e di virus.
Seguendo il percorso espositivo ci si accorge di quanti anni passarono prima che si trovassero dei farmaci efficaci. Solo nel 2006 si verificò un cambiamento importante nella cura dei malati: si ridusse la terapia da trenta pillole a una, un passaggio che “permise alle persone affette di HIV di riappropriarsi della loro quotidianità”. Le date messe in evidenza durante il percorso espositivo ci fanno avvertire la differenza con l’esperienza che stiamo vivendo con la pandemia del Covid. La velocità della ricerca scientifica nell’affrontare il virus letale di oggi ci fa immaginare quanto abbiano dovuto aspettare le persone positive per avere nuovi farmaci e una aspettativa di vita più lunga con terapie che hanno ridotto e quasi eliminato la contagiosità.
Dal punto di visto emotivo il momento più toccante è stato entrare nella stanza delle coperte. Nella mostra è stata creata una stanza delle coperte per ricostruire il famoso evento che si svolse a Washington l’11 ottobre del 1987 davanti alla Casa Bianca in occasione della marcia nazionale per i diritti dei gay, per commemorare le vittime dell’AIDS. La “Coperta dei Nomi” era formata da 1920 pannelli di stoffa con sopra i nomi delle vittime dell’AIDS: rappresentava un rito funebre che all’interno della manifestazione per i diritti civili della comunità gay diventò anche un gesto corale e politico rivolto al Governo americano. Il motivo che portò alla creazione di questa enorme installazione, dall’impatto emotivamente potente, era l’impossibilità per molte famiglie di poter avere un funerale per i propri cari. La “Coperta dei Nomi” fu un modo per salutarli e rivendicare i loro diritti tra cui quello di non essere dimenticati.
Mentre eravamo sedute nella stanza delle Coperte abbiamo sentito che alcune emozioni erano le stesse che stiamo vivendo oggi per il Covid, pur con tutte le differenze. Ci si è ripresentato il senso tragico dell’esistenza, che si affaccia ogni volta che eventi drammatici come quello dell’HIV e del Covid ci fanno percepire la fragilità della vita e l’inevitabilità della morte. Quando cominciò l’HIV l’illusione che riguardasse solo alcuni gruppi sociali, gay e tossicodipendenti, permetteva di tenere a bada l’idea della morte allontanandola da sé. Oggi forse anche a causa della globalizzazione e del tipo di malattia ci siamo sentiti tutti indistintamente minacciati. La pandemia del Covid non ha riguardato solo l’aspetto fisico ma anche quello psichico, la pandemia della paura e del crollo delle certezze, anche se siamo pronti a ricrearle appena i pericoli ci appaiono un po’ meno vicini. Le coperte con i nomi ( Roberto, Giancarlo, Franca..) le date e i disegni ricamati richiamavano la persona da ricordare. Si tratta di un gesto che vuole ridare calore e riconoscimento a tutti coloro che non ci sono più, e ci ricorda che non abbiamo potuto onorare con degna sepoltura le centinaia di persone morte per Covid durante il periodo del lockdown.
Siamo vissuti in una costante illusione di immortalità, e di “magnifiche sorti progressive”, e la parzialità delle risposte che la conoscenza ci può dare riappare in tutta la sua drammatica evidenza. Il problema del senso della vita torna a condizionare le nostre esistenze, e ci suggerisce il problema della condivisione e dell’impatto collettivo e universale della impostazione delle nostre scelte. Chi siamo a dove andiamo, e a quale scopo sono le eterne domande dell’umanità. La drammaticità di questo nuovo trauma collettivo, il Covid, ci pone il problema della condivisione delle nostre scelte e dei nostri trattamenti anche con le persone e le popolazioni più disagiate: o ne esce il mondo intero, o non ne uscirà nessuno.
A conclusione vogliamo sottolineare che i malati di AIDS sono ancora in attesa di vaccino anche se possono disporre oggi della Prep ( Profilassi, Pre Esposizione da Hiv) una terapia acquistabile in farmacia che permette alle persone HIV positive di non trasmettere il virus durante i rapporti sessuali.