Josef Koundelka: RADICI. Evidenza della storia, enigma della bellezza – Museo dell’Ara Pacis, Roma, fino al 16 Maggio 2021
Per questa mostra fotografica di Josef Koundelka, non poteva che essere Roma l’unica tappa italiana! Nella città costruita su rovine e stratificazioni della sua grande storia, dialogando con uno scrigno espositivo come l’Ara Pacis che è di per sé preziosa testimonianza archeologica della prima età imperiale, approda un’affascinante mostra fotografica che è l’esito del trentennale pellegrinaggio di Koundelka tra i più significativi siti archeologici del Mediterraneo. Un centinaio di lavori in bianco e nero, alcuni dei quali anche di grandi dimensioni, offrono allo sguardo del visitatore le impressioni che l’obiettivo del Koundelka ha raccolto in quei luoghi, i “reperti” che il fotografo ha collezionato viaggiando lungo le terre che affacciano sul Mare Nostrum e calpestando per decenni polvere terra erba pietre di siti archeologici dalla Turchia al Medio Oriente, dall’Egitto e alla Penisola Iberica e via via fino alla Croazia e la Grecia. In questo periplo per via di terra del Mediterraneo, Koundelka ha come disegnato la mappa di una geografia europea, rintrecciando le antiche vestigia e le radici di una civiltà che intorno a quel mare si è sviluppata attraverso una storia di incontri, scontri, scambi, distruzioni e ibridazioni.
Josef Koundelka è il fotografo cecoslovacco che nel ’68 testimoniò con i suoi scatti l’invasione dei carri armati sovietici a Praga, per poi cercare asilo politico nel Regno Unito dando inizio ad una brillante carriera punteggiata da prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali. Il senso di questa mostra, oltre un omaggio alla enigmatica bellezza dei luoghi, è anche una riflessione sulla storia, tanto più significativa in questi tempi inquieti che stiamo attraversando, segnati da rigurgiti di intolleranza, nazionalismi, gelosi arroccamenti identitari a difesa di confini e privilegi. Scrive Bernard Latarjet: “Le rovine fotografate da Koundelka, sembravano l’allegoria di un’attualità di cui lui, con la sua arte, restituiva il senso del nostro presente: sulle sponde del ‘mare comune’ c’era tutta l’attualità della nascita dell’Europa, dei suoi valori fondanti, l’attualità dei rischi della loro morte. L’Europa delle rovine è quella in cui la mente fa dialogare la ragione e la fede, la libertà e la legge, quella per cui, per dirla con Jaques Berque, «portiamo dentro di noi le macerie ammucchiate e l’instancabile speranza»”.
Mi è venuto in mente un libro di Marc Augè, “Rovine e macerie. Il senso del tempo”, in cui l’antropologo della contemporaneità – anzi della surmodernità, come lui definisce la nostra epoca – scrive che contemplare le rovine è “fare esperienza del tempo”. I frammenti del passato si offrono allo sguardo presente come testimonianza di una storia che non si riduce ad un segno di pietra, ma è tessitura complessa e profonda che intreccia molteplici passati, in contrapposizione al mondo come puro oggetto di consumo che si offre nei non-luoghi anonimi e uniformi che appiattiscono l’esperienza contemporanea. Le rovine, secondo Augè, sono espressioni di un’assenza, momenti di un passato capaci di risvegliare nell’osservatore la “coscienza della mancanza”, presenze che conservano enigma e mistero suscitando stupore e curiosità nell’osservatore, consapevole di non sapere tutto dei misteri e delle vicende di cui quei frammenti sono testimonianza. Occorre “reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia”, scrive Augè, e per uno psicoanalista è forte la suggestione della metafora archeologica applicata all’esperienza psichica, dove per riappropriarsi della propria storia emotiva si procede per “scavi” laboriosi, emersioni inattese, analisi di frammenti, ipotesi ricostruttive, ritrascrizioni, per dare nuovo senso e forma alle macerie di un paesaggio mentale e trasformarle in rovine dense di storia.
Gli sconnessi lastricati di pietra, le antiche colonne in frammenti, gli edifici mutilati dal tempo dalle intemperie dalle vicissitudini della creatività e della distruttività umana, ci sono restituiti dallo sguardo di Koundelka senza nostalgia o compiacimento, né con una attitudine documentaristica. La prospettiva spesso insolita delle inquadrature, instabile e straniante, non veicola una contemplazione pacificata bensì una sotterranea tensione: ciò da cui siamo originati, le “radici” di cui ci vengono incontro testimonianze frammentate, nella loro presenza ci parlano anche di ciò che è assente e che può essere rivitalizzato dalla memoria, animando quei luoghi e quel passato con il ricordo e l’immaginazione di chi visse quei luoghi e delle vicende di costruzione e distruzione che hanno attraversato.