Cultura e Società

Intervista a Marc Augé

15/04/08

Intervista a Marc Augé  (a cura di A. Molino) 

ANTHONY MOLINO: Vorrei partire subito da un riferimento a Freud, che rischia di perdersi nella traduzione di uno dei suoi concetti-chiave. Quella che nel suo libro Nonluoghi lei definisce ‘surmodernità’ (le surmodernité) potrebbe benissimo essere reso con il termine ‘sovramodernità’. Difatti, in un’ intervista con un giornalista italiano lei fa un chiaro riferimento in merito al concetto freudiano di sovra-determinazione… MARC AUGE’: Era quello che volevo. Stavo proprio pensando al concetto freudiano, che ha una storia tutta sua. Per esempio, mi era venuta in mente anche la nozione di sovra-determinazione di Althusser. Anche lui fa chiari riferimenti a Freud, già da quando cercava di sviluppare il Marxismo a modo suo, quasi meccanicamente. Ad ogni modo, secondo alcuni autori contemporanei, il concetto di modernità è ormai superato…a quanto pare la modernità è finita, e ora si può parlare di postmodernità, o qualcosa di simile. Credo che ora stiamo assistendo a un’evoluzione dell’era moderna. Si tratta pur sempre di modernità, per quanto sovra-determinata da numerosissimi fattori. Mi sembra che il concetto di sovra-determinazione fornisca un approccio indispensabile nei confronti della realtà contemporanea. È un concetto che aiuta a capire la vasta gamma di fattori concomitanti che confondono l’idea di modernità consolidatasi nel tempo, allo stesso modo in cui Freud ha usato il concetto per spiegare la complessità dei fenomeni psichici. AM: Sempre nel suo volume, Nonluoghi, nel capitolo intitolato ‘Il vicino e l’altrove’, lei scrive: ‘L’antropologia si occupa dell’altro in tutte le sue forme’. Tra queste forme, poi, lei indica ciò che chiama l’altro interiore e l’altro privato. Molti antropologi – mi viene in mente, ad esempio, Geertz e la sua fondamentale lezione – direbbero che nessuna di queste forme è direttamente osservabile. Non ci troviamo di fronte ad una contraddizone? MA: Cercherò di rispondere facendo un passo indietro. Le mie prime esperienze nel mondo dell’antropologia le ho vissute in Africa, dove ho svolto la mia prima ricerca sul campo, dal 1965 al 1970. Inizialmente, ho lavorato nel sud della Costa d’Avorio; alcuni anni dopo, invece, ho continuato le mie ricerche in Togo. Sono zone vuduiste, dove ho potuto assistere a eventi straordinari, e capire concezioni di malattia, persona, e relazioni, completamente diverse dalle nostre. Io osservavo soprattutto la sfera personale: litigi in famiglia, accuse di stregoneria, spiegazioni di malattie, consultazioni con sciamani, e così via…Ma questi episodi erano costantemente inseriti in un contesto simbolico. E lì che si manifestano i primi problemi, perché la letteratura etnologica presenta questi riferimenti simbolici come parte di un sistema, per cosi’ dire, ufficiale: di un sistema in cui, per esempio, è lo zio a usare la stregoneria contro il nipote, o il padre ad avere il potere di invocare una maledizione o qualche malignità sul figlio…Il risultato è che tutte questi eventi si inseriscono all’interno di un’organizzazione sociale, ma soltanto in veste di probabilità. Concretamente, non appena qualcuno si ammala, litiga, o si arrabbia, diventa possibile tutta una serie di interpretazioni diverse. E quando lo specialista che ha il compito di interpretare i fenomeni si mette a esaminare, per esempio, le circostanze del luogo e del momento, o i sintomi specifici di una certa malattia, può solo lavorare all’interno del sistema di riferimenti simbolici che rendono possibili queste interpretazioni. Non può permettersi di dire una cosa qualsiasi, e deve, al tempo stesso, essere estremamente preciso nel fornire la sua diagnosi. Ma deve utilizzare determinate forme semantiche. Per esempio, non può dire che il padre ha rivolto una maledizione al nipote, ma che crede che l’uomo sia la causa della malattia del nipote. Nel qual caso, è possibile parlare di stregoneria. Ripeto, è possibile qualsiasi interpretazione, ma deve essere formulata in un certo modo. Il cosiddetto background simbolico esige una forma di linguaggio ben definita. Al tempo stesso, questa mia prima esperienza di ricerca sul campo mi ha messo di fronte a un’infinità di ‘casi’… di storie personali, conflitti, tensioni e crisi impossibili da scoprire se non attraverso particolari forme retoriche. Queste forme semantiche o retoriche si potevano riferire a ciò che è per noi la psiche, l’individuo, quella che potremmo definire, in termini freudiani, ‘istanza’. È sorprendente vedere come nei sistemi africani di rappresentazione del sé esista qualcosa di molto simile alla topografia freudiana: per esempio, una parte della persona viene percepita come qualcosa di permanente, stabile, in grado di relazionarsi con gli altri membri della comunità. Un po’ come l’Io. Ci sono stati alcuni missionari ed etnologi che si sono impegnati concretamente per mettere a confronto le rappresentazioni locali del sé e della persona con i concetti freudiani. I missionari parlavano di un angelo custode, ma gli etnologi con qualche nozione del pensiero freudiano parlavano di Es, Io, e Super-Io, termini che in effetti svolgono una certa funzione, anche se a livello rappresentativo o metaforico. Ma la cosa più interessante, secondo me, era il fatto di non poter parlare di casi personali senza riallacciarsi alla sfera simbolica. Allo stesso modo, il sistema di riferimento simbolico aveva senso e poteva essere spiegato solo in relazione ai singoli casi personali.  Tornando alla domanda di prima, non credo sia contraddittorio fare ricerca sul campo e osservare le specificità individuali, compresi gli aspetti più privati della vita delle persone. Sono due aspetti correlati tra loro, tanto più che in società di quel tipo è molto difficile separare gli aspetti spirituali da quelli materiali, come del resto è difficile separare quelli individuali da quelli collettivi. È interessante vedere come in tali contesti l’individuo si definisca sempre in base al rapporto con gli altri, secondo modalità molto più creative di quanto riusciamo a concepire noi abitualmente. E questo, ripeto, grazie al sistemo di riferimento simbolico che collega le due dimensioni. Anzi, la caratteristica comune a tutti i sistemi che ho studiato, potrebbe essere proprio il legame tra gli aspetti individuali e l’esistenza di un modello di riferimento simbolico, che fungono entrambi da mezzi di interpretazione e auto-interpretazione […] AM: Vorrei tornare un attimo al suo lavoro sui nonluoghi. Su questo argomento lei non la pensa come Marcel Mauss, che considera sia la cultura che il soggetto all’interno della cultura come delle totalità. Seguita, poi, per fare riferimento ai tre elementi in eccesso che secondo lei definiscono la surmodernità, o quella che qui chiamiamo sovra-modernità: e cioè l’eccesso di elementi quali il tempo, lo spazio, e lo stesso io. Quest’ultima e particolare forma di eccesso mi porta a domandarle se per caso l’individuo non sia così intensamente e ossessivamente preso da sé in quanto totalità da essere portato a neutralizzare una frequente e terrificante esperienza di frammentazione… Come se il culto dell’io in quanto totalità fosse un modo per affrontare e anche opporsi alla sua molteplicità. Mi sovviene che il termine inglese body-building si traduce in italiano con culturismo[1]: in una parola sola abbiniamo, in un certo senso, sia il turismo che la cultura (o il culto) del corpo. Ma anche dell’io. Da qui la mia domanda, o perplessità: oltre a criticarne la supposta totalità, lei sottolinea l’eccesso che costituisce l’io… MA: L’idea dell’eccesso, in riferimento al concetto di individualità, è legata alla sovra-determinazione. I motivi sono due. Innanzitutto, avevo in mente l’individualità del consumismo, e il modo in cui l’individuo di oggi si differenzia dalle sue precedenti manifestazioni nel corso della storia. Oggigiorno possiamo vedere l’individuo al supermercato, o solo davanti alla televisione, o mentre preleva soldi da un bancomat. Personalmente, mi interessa molto di più questo aspetto del consumismo individuale, rispetto ad altre forme di frammentazione culturale. Anzi, il concetto di multi-culturalismo mi mette piuttosto in difficoltà, perché mi sembra che comporti una sostanziale reificazione… Quando si parla di multi-culturalismo, mi sembra che si pensi a un concetto di cultura reificato, che serve soltanto a mascherare o definire l’individualità identificandola con una collettività culturale. È una contraddizione dire che esistono moltissime differenze nel mondo, e che dovremmo rispettare ogni tipo di cultura, e poi occuparsi di queste cosiddette culture avendo a che fare con un unico uomo o un’unica donna, la cui identità si piega alle esigenze di una presunta collettività. Questa definizione di cultura non è che uno dei tanti aspetti di un’ideologia dominante, ma non permette di conoscere una persona reale nella totalità della sua esperienza umana. Ma vorrei tornare un attimo alle attuali forme di solitudine. Tutti provano prima o poi la solitudine, o l’isolamento, del consumatore, anche chi vive in posti in cui non c’è niente, o pochissimo, di consumistico…È una nuova forma di esperienza, di eccesso individuale, nata in epoca moderna […] AM: Mi sembra che stia alludendo al fatto che, con la scomparsa della modernità, o meglio, il suo superamento, e la perdita dei valori fondanti che l’hanno caratterizzata, in questa nuova storia qualsiasi narrazione del sé diventerà sempre più difficile, se non impossibile. Non solo sono stati spezzati i legami tra la Storia (con la ‘S’ maiuscola) e l’individuo, e la mediazione che ne era funzionale data dal senso, vissuto, dei luoghi; perfino la capacità ancestrale di narrare una storia, la storia della propria vita, è a rischio. Basti pensare agli effetti del bombardamento di immagini a cui siamo sottoposti… MA: Sono d’accordo. È un problema che affronto in un altro mio volume, La guerra dei sogni, in cui ho cercato di descrivere una situazione particolare. Credo che l’immaginazione umana sia costituita da tre poli: dall’immaginario individuale, quello collettivo, e da quello creativo. Per quest’ultimo intendo i sogni, i miti, e quella particolare forma d’immaginazione che si esprime nelle opere d’arte, nella narrativa, nella fantasia al servizio della letteratura. Tra parentesi, ci tengo a dire che secondo me esiste un certo legame tra queste tre componenti: si completano e si nutrono a vicenda. La questione ora, è che le immagini a cui lei si riferisce sono talmente imperanti da mandare in cortocircuito queste tre capacità primarie. L’essere umano, bombardato da tante immagini, si ritrova sempre più lontano da qualsiasi sfera collettiva; i bisogni collettivi diminuiscono, così come il bisogno di sperimentare opere d’arte. È una condizione di estremo isolamento o narcisismo, che immerge gli individui in una realtà di immagini artificiali, preconfezionate, fittizie. Eppure, come accennavo prima, una condizione di estrema solitudine è impensabile. È impossibile immaginare un mondo in cui gli essere umani vivono fianco a fianco, senza considerarsi o relazionarsi tra loro. È inconcepibile. Ma è possibile osservare e studiare una situazione del genere, in relazione all’impatto e al ruolo delle immagini nell’ambito di queste nuove forme di solitudine.  Vorrei aggiungere che i nessi tra questi tre poli (nessi che sono per definizione sempre bi-direzionali, e collegano almeno due delle tre polarità), oltre ad essere reciprocamente costitutivi, sono ovviamente anche ben radicate nella storia. Per esempio, il colonialismo ha minacciato la mitologia collettiva di alcuni popoli, e questa aggressione ha avuto delle ripercussioni anche sulla loro psicologia collettiva: sia sui loro sogni che sulla loro produzione artistica. E non dobbiamo dimenticare le nazioni in cui vige la dittatura, in cui la creatività in generale, e la produzione di opere letterarie in particolare, sono soggette a forti restrizioni. Questa non è certamente un’esperienza facile per la vita psichica dell’autore in quanto individuo (né per i lettori privati delle opere dell’autore), ma è anche una che impatta negativamente le stesse sorgenti del mito collettivo. Infatti, la psicologia del gruppo e i suoi miti sono soggetti a restrizioni simili: anche i miti si affievoliscono o scompaiono, svuotandosi di significato, vittime di divieti fissati da chi ne ha monopolizzato l’interpretazione e deciso il significato.  AM: Lei sostiene che i punti di riferimento per l’identificazione collettiva sono diventati instabili come mai prima d’ora, ragion per cui la produzione individuale di significanza (meaning) è necessaria più che mai. Seguendo questo ragionamento, io collegherei il suo riferimento ai sogni alla parola inconscio, un termine che non appare nel suo libro sui nonluoghi. Invece, mi sembra che ne La guerra dei sogni, lei proponga, in maniera piuttosto esplicita, l’esistenza di un nesso tra la funzione, e perfino la struttura, dell’inconscio individuale e l’inconscio collettivo, in termini quasi junghiani… MA: In realtà non intendevo dire che esiste un legame tra l’inconscio individuale e quello cosidetto ‘collettivo’. Volevo soltanto sottolineare che, fino a quando avremo a che fare con la nozione di immaginario, dovremo riflettere sulle componenti collettive dell’immaginario individuale (o, in altre parole, sul rapporto tra i miti e i sogni). Sto parlando di miti, ma potrei benissimo parlare di religione, cultura, rapporti tra i sessi, tutte cose che, come scrive Freud in L’avvenire di un’illusione, potrebbero chiamarsi illusioni, essendo prodotti del desiderio. Quindi, queste rappresentazioni collettive sono, secondo la definizione di Durkheim, materiale per l’immaginazione individuale, e forse ne creano anche la struttura. AM: In quest’ottica, potrebbe dirci qualcosa sul sogno e fornirci una sua critica, magari, sul modo in cui l’antropologia è solita usufruirne? MA: Riguardo ai sogni, credo sia necessario evitare gli estremi: quello che ne riduce il contenuto ad aspetti culturali (traducendo in modo quasi meccanico un dato simbolo nella lingua della sua ‘cultura’); e quello che ignora completamente la dimensione culturale, come avviene in alcune società che concepiscono la vita sognata e quella vissuta come un continuum. Trovo che il lavoro svolto da Devereux in quest’ambito sia esemplare. AM: In Nonluoghi, lei dà una splendida definizione di individuo: ‘un composto impregnato di alterità”, che, tra parentesi, a me personalmente dà la possibilità di collegare il suo lavoro alla tradizione psicoanalitica delle relazioni oggettuali…Ma torniamo alla mia domanda: se esiste una scissione tra l’inconscio individuale e quello collettivo, e se le immagini che ci bombardano hanno effetti così devastanti, che fine farà l’inconscio individuale? MA: Forse arriverà il giorno in cui un uomo racconterà un suo sogno, che conosceranno già tutti, per averlo visto in televisione. In una situazione così estrema, l’inconscio non esisterà più. Non è mia intenzione essere così definitivo su un argomento tanto difficile, ma è ovvio che, come suggerisce anche lei, l’inconscio ha a che fare con gli altri, con delle altre persone ben specifiche. Ma fin tanto che la categoria di altro sarà in pericolo, forse lo sarà anche la nozione di inconscio. Ovviamente per noi è impossibile immaginare un’implosione del genere. È inconcepibile, come la fine della storia, o la fine del mondo… Per come la vedo io, oggi la questione è questa: se spariscono i miti, les grand écrits, come li definisce Lyotard, e se le opere d’ingegno diventano semplici ‘prodotti’ uguali a tutti gli altri, l’immagine finirà per essere un compromesso tra mito e prodotto. In questo modo, sia passato che futuro verranno concepiti come immagini. Oggigiorno, gran parte delle immagini provengono dal mondo della riproduzione, non più della creazione. Per cui, l’immaginazione individuale non ha più a che fare con i miti e con le opere d’ingegno, ma con il regno delle immagini, che, ovviamente, non fa che restituire altre immagini. Questo fenomeno non ha molto a che vedere con il vuoto gioco dei segni, come sostiene Roland Barthes nel suo volume L’impero dei segni, o con la scomparsa di concetti più grandi o importanti, come Dio, la ragione o la scienza, ma piuttosto con il sostanziale successo della cultura dell’immagine. (Come sappiamo, i francesi sono molto più avvezzi a far sparire, di tanto in tanto, l’Uomo, Dio e le ideologie). Nonostante questo, una cosa è certa: stiamo assistendo a una crisi della cultura che ha origini comuni con la crisi propria dell’identità e dell’alterità. Alla base di questa crisi di identità e cultura c’è la rimozione della persona dell’altro, o meglio, la sua trasformazione in immagine. L’altro si fa immagine non solo perché appare sui nostri schermi, ma anche perché gran parte dei messaggi che lo riguardano lo trasformano in immagine: l’immagine di un terrorista, di una persona affamata che viene soccorsa, di un politico o di un atleta, della famiglia ideale, dell’americano o europeo medio […] AM: Come ultima cosa, vorrei soffermarmi con lei un attimo sull’idea della demarcazione tra dentro e fuori, ovvero tra interiorità e mondo esterno, e come questa viene affrontata, o ignorata, dagli antropologi. Nel suo volume L’antropologia del mondo contemporaneo, lei offre una critica importante del postmodernismo come articolato da certa antropologia americana. Parte di questa tradizione, da Geertz a Marcus, a Clifford, non opera altro che un rifiuto della vita interiore del soggetto, nel tentativo di sostituire il concetto di sé (e quindi qualsiasi percezione di interiorità), con quello di identità (che, invece, può essere analizzata dall’esterno). Secondo alcune forme contemporanee di psicoanalisi, come quelle di Bollas o Lacan, comprendere i processi psichici significa in gran parte capire la correlazione tra struttura e istanza del soggetto. Secondo lei, è vero che teorie simili sono fondamentali per il tipo di antropologia che potrebbe esistere in futuro? MA: Il motivo per cui non mi piace che si faccia continuamente riferimento al concetto di cultura, anche nell’ambito di un’antropologia post-moderna, è che si dà troppo valore a questo termine nell’ambito dei giochi miranti a definire le cosiddette identità. Eppure rimango convinto che quegli approcci antropologici che non considerano i processi psichici, ovvero il mondo ‘interno’ del soggetto, rischiano di ignorare i fenomeni di valore simbolico e il dinamismo tipico degli esempi di contatto culturale. Questo vale soprattutto per i nostri tempi, in cui la struttura tecnologica del mondo ‘globalizzato’ influenza e opprime pesantemente la vita psichica di ogni individuo, e anche le situazioni di malessere sociale che vengono percepite come crisi collettive (ad esempio la crisi del concetto tradizionale di famiglia, di Stato, di politica…). Non bisogna dimenticare che, sia le identità che le culture individuali e collettive, si formano confrontandosi e negoziando con l’alterità: processo, questo, che oltretutto racchiude il significato dell’attività rituale. Se insistessimo soltanto sull’esteriorità del significato simbolico, non riusciremmo a capire fino in fondo la complessità del rapporto identità/alterità. E non riuscendo a capirlo completamente, finiremmo per indebolire o spezzare quel legame, e mettere quindi in pericolo ambedue queste forme di esistenza…   

Biografia di Marc Augé

(a cura di Anthony Molino) 

Marc Augé è stato direttore della famosa Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi dal 1985 al 1995. Fino al 1970, ha svolto la funzione di assistente alla direzione per l’ORSTOM, l’istituto di ricerca scientifica francese per lo sviluppo cooperativo, per il quale ha coordinato numerose missioni in Africa, in particolare in Costa d’Avorio e in Togo. È proprio in Africa che Augé ha condotto gran parte dei suoi primi lavori di ricerca sul campo.A partire dalla metà degli anni ottanta, Augé ha iniziato a esplorare ambiti sempre più diversi. Ha trascorso molto tempo in America Latina, ma ha lavorato molto anche vicino a Parigi, la sua città, e in altre zone francesi più estese, punti strategici da cui poter osservare le molteplici realtà del mondo contemporaneo. Con lo scopo di esaminare e capire a fondo la straordinaria proliferazione di tecnologie e fenomeni connessi in grado di influenzare la nostra vita e i paesaggi odierni, così come le nostre percezioni del tempo, dello spazio e del sé, spesso soggette a mutamenti radicali, Marc Augé si è distinto come uno dei maggiori studiosi, a livello mondiale, dei fervidi eccessi dell’era postmoderna (o di quella che lui stesso definisce surmodernità). Il punto di partenza di questa particolare ricerca etnografica (e ciò che la avvicina agli interessi della psicoanalisi odierna, e di molti dei suoi pazienti) è questa sensibilità, e le solitudine che ne deriva, viste sia come il risultato distruttivo e disumanizzante delle forze di mercato capitalistiche che ci rendono marginali, collocandoci in modo differenziale all’interno di una serie di cerchi concentrici che si propagano, a distanze sempre più grandi, da centri onnipotenti di consumo che si trovano ovunque, e da nessuna parte; sia come il segnale di splendide e sconcertanti trasformazioni di consapevolezza, annunciate da forme culturali miste in rapida evoluzione in un’era di transnazionalismo. Tra gli innumerevoli, importanti scritti del Professor Augé, quelli recentemente tradotti in italiano includono: Il senso degli altri – attualità dell’antropologia (Bollati Boringhieri, 2000); Diario di guerra (Bollati Boringhieri, 2003); Rovine e macerie. Il senso del tempo (Bollati Boringhieri, 2004); Perché viviamo? (Meltemi, 2004); Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (Eleuthera, 2005); L’antropologia del mondo contemporaneo(Eleuthera, 2006);  Il mestiere dell’antropologo (Bollati Boringhieri, 2007).   Anthony Molino è membro associato della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (S.I.P.P.). Psicoanalista di formazione anglo-americana, ha conseguito il dottorato di ricerca in antropologia presso la Temple University di Philadelphia. In Italia ha pubblicato i seguenti libri: Liberamente Associati: Incontri psicoanalitici con C. Bollas, J. McDougall, M. Eigen, A. Phillips e N. Coltart (Astrolabio, 1999); Psicoanalisi e buddismo (R. Cortina, 2001); e il recente volume, curato assieme a L. Baglioni e J. Scalia, La Vitalità degli Oggetti: Esplorazioni attorno al pensiero di Christopher Bollas (Borla, 2007).

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