Cultura e Società

Infelicità Digitale di G. Di Chiara

9/07/24
Infelicità Digitale di G. Di Chiara

PIPILOTTI RIST

Parole chiave: digitale, Artificial intelligence, Psicoanalisi, Cura

Infelicità Digitale

Giuseppe Di Chiara

            “Ma agli atomi ancora circolanti di felicità si dà la caccia dappertutto e guai se i predatori tecnologici li acciuffano, per seppellirli vivi” (Ceronetti, 2011).

            Così ci metteva in guardia dalla tirannia digitale Guido Ceronetti, poco più di dieci anni fa.

            Non è motivo di contentezza, aprendo il computer per accedere ai suoi servizi, trovarsi dinanzi a espressioni come, “Ben tornato Giuseppe!” e, poi subito dopo, “Mi sono dimenticato il pin!” Mi si vuole far fantasticare che la scatola di latta, piena di fili e altra minutaglia elettronica, somigli a un soggetto personale! E’ piuttosto motivo di dispiacere che io non abbia alcun incontro con qualcuno. Non solo sono solo, come lo sarei con il mio foglio bianco e la stilografica, o la mia “Lettera 22”, ma sono in una solitudine cattiva. La macchina infatti pretende di dialogare con me, impedendomi la mia buona solitudine, piena dei personaggi del mio mondo interiore, che si è formato da quando appresi, bambino, la capacità di essere solo, cosi bene descritta da Winnicott. E che associata agli incontri con gli altri governa la stabilità e la buona salute mentale. Non solitudine dunque, ma inaridimento, interruzione di ogni relazione, claustrazione con una scatola di latta, che pretende di essere una persona, un mio cospecifico.

            Perché non ricevo messaggi che realisticamente dicano: “Inserire pin”. “dispositivo aperto”, e cosi via? No. Questo non avviene. Mi si spinge a comportarmi con la scatola come se essa fosse in qualche modo un soggetto. Le persone che hanno lavorato dalla parte della macchina, rifornendola dei programmi sono lontanissime. Messaggi e indicazioni non provengono da soggetti umani, ma da programmi predisposti. Sono dunque tagliato fuori sia dal collegamento con la mia interiorità, che dalle relazioni con gli altri. Sono costretto a stare con una macchina, che è programmata per non accettare il suo ruolo di strumento per il mio lavoro, e per presentarsi come se fosse una presenza umana. E così è soprattutto nelle forme più recenti e sofisticate, dette di Intelligenza Artificiale (I.A.), il grande ordinatore di dati, il supercalcolatore – perché di questo si tratta- che si mette a parlare, risponde, prende iniziative e forme di un umanoide. Non c’è niente di umano. C’è-questo si- la moltiplicazione dei dati e il loro selezionato riordinamento per fornire indicazioni il più vicine a quelle che probabilisticamente avrei da un soggetto umano al lavoro in un grande ufficio, biblioteca, o altro luogo attrezzato. Avrò delle indicazioni statisticamente anche efficaci-ma solo se le cose vanno bene- ma non avrò, “risposte da un’altra persona”. E questo è quello che manca del tutto! In termini di contatti umani ne avrò di meno, ma molti di meno. Questa è una perdita, in ogni caso, che mi sorprende come non venga mai messa in conto! Pensate alle migliaia di procedure, che vengono spostate da una interazione tra due persone ad una consultazione di una macchina.

            Questi incontri tra umani vengono sostituiti da “connessioni” con lo strumento. Ovviamente ci sono molte informazioni che io posso avere da un programma digitale, senza perdere di vista che sto consultando uno strumento ampio e versatile, ma non sto parlando con una persona. Nelle connessioni con la macchina digitale, invece, si insiste in questa sostituzione di un soggetto umano con una macchina che è pretesa essere come l’umano. E si vuole addestrare l’utente del digitale a crederlo, in un processo di addestramento da animali da circo con la creazione di riflessi condizionati, pavloviani, cercando sempre di creare automatismi. La macchina è programmata per soddisfare la richiesta dell’utente con il premio del risultato, creando un circuito riflesso condizionante, e , nei fatti, una forma di dipendenza del soggetto dalla macchina, che in casi particolari , giunge fino ad una dipendenza patologica, di cui abbiamo già testimonianze nella letteratura scientifica.

            L’I.A. è addestrata a dare risposte statisticamene probabili, come quelle del senso comune, e che non tengono conto dell’individualità del soggetto. Molti cercano proprio queste risposte, a costo di rinunziare alla propria soggettività, praticando l’idea prevalente e condivisa.

            Ma perché c’è questa enfasi esaltata per l’I.A., non volendo accettare che essa è soltanto un potente e raffinato sistema computazionale e non un sostituto del cospecifico umano? Perchè si trascurano le ovvie conseguenze del considerare l’I.A. come un sostituto di una presenza umana, anche in situazioni emotivamente assai impegnative? Situazioni nelle quali nessun procedimento digitale può sostituire il rapido collegamento con un operatore umano e non con un assistente digitale.

            E’ invece evidente che si persegue l’obbiettivo opposto. Quello di allontanare, eliminare, ogni presenza umana dalle procedure digitali. Cosa produrrà tutto questo? Perchè non insistere nell’indicare che l’I.A. non è un interlocutore, ma una macchina-robotica, che non deve sostituire la presenza umana laddove essa è necessaria, ma anche soltanto utile. E’ una perdita relativa -ma sempre una perdita- quella di un bigliettaio sul tram. Ma è una perdita irreparabile quella di un infermiere, di un medico, di un insegnante, di genitori e maestri, e di tante figure umane essenziali.

            La privazione del contatto umano con un bigliettaio può essere tollerabile. Ma c’è di più. Essa può essere gradita da una personalità narcisistica, che cerca per quanto può di non impegnarsi in rapporti con gli altri. E qui veniamo al punto dove l’offerta digitale si incontra con il suo recepimento entusiasta. Quale migliore strumento per un soggetto con disturbo narcisistico della personalità?

In queste situazioni è il rapporto, la relazione con gli altri che, invece che allietare, far bene, pesa e disturba. E’ una scelta difensiva, per quanto ne sappiamo, da vissuti di intensa sofferenza, che si sono prodotti in relazioni sbagliate, inadeguate, negative e frustranti. Si stabiliscono così equilibri difficili, che cercano di ridurre le relazioni con gli altri, che cercano di farne a meno, o che in esse presentano difficoltà maggiori. La spinta all’incontro con l’altro porta queste persone, in un certo numero di casi, alla ricerca del superamento del loro narcisismo patologico. In epoca recente sono stati segnalati casi nei quali la costellazione narcisistica ha utilizzato come propria difesa lo strumento digitale. Meno contatti con altri, meno sofferenza. Giungendo talvolta a quadri più gravi di dipendenza patologica dal digitale. Alcuni hanno cercato la cura e sono andati in psicoanalisi. Ci sono lavori pubblicati sulla Rivista di Psicoanalisi (2012-2024), che illustrano questo aspetto del digitale nella clinica psicoanalitica.

            Curare i pazienti dalle loro dipendenze dal digitale è possibile. Cosa potremo fare per curare i gruppi dalla infelicità digitale, di cui essi sembra che non si accorgano, o non vogliono accorgersi, salvaguardando “gli atomi ancora circolanti di felicità” dai loro “predatori tecnologici” di cui ha scritto Guido Ceronetti? (Ceronetti, 2011).

Bibliografia

Ceronetti G. (2011) Corriere della sera 10/febbraio/2011.

Winnicott D.W. (1958) The Capacity to Be Alone. Int.J.Psycho-Anal. 39: 416-420. trad.italiana in Sviluppo affettivo e ambiente. Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Armando, Roma,1970.

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