di Cosimo Schinaia
Avevo più volte ascoltato conferenze e lezioni di Edoardo Sanguineti poiché avevo il privilegio di vivere a Genova, nella sua stessa città. Avevo più volte interloquito con lui quando era stato invitato a commentare dei film insieme a psicoanalisti quali Glauco Carloni, Roberto Speziale Bagliacca, Fausto Petrella, eppure continuavo a provare un sentimento di inadeguatezza – assolutamente adeguato – di fronte alla sua enciclopedica erudizione come alla sua fine e fluida capacità argomentativa.
Rimasi ammaliato e intimorito quando, in singolar tenzone, sull’ultima citazione di Freud, ingaggiò un memorabile scontro/ incontro con Glauco Carloni, senza vincitori né vinti.
Fu estremamente gentile e generoso quando gli chiesi di dialogare con me sul “senso della festa” in occasione della stesura del volume Il Cantiere delle Idee (Genova, 1998) e della chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Cogoleto, del quale ero direttore. Durante il colloquio, si allontanava spesso dal corso principale dell’argomento per esplorare rivoli collaterali senza mai perdersi e senza mai farmi perdere. La sua abilità nel connettere eventi, fatti, pensieri, concetti, impressioni, emozioni era il filo di Arianna che mi permetteva di addentrarmi nel labirinto. Diventammo amici, anche se abbiamo continuato a darci del Lei. Presentò in pubblico i miei libri e corresse affettuosamente alcune inesattezze prima della pubblicazione.
Di tutto si poteva parlare serenamente, tranne che di politica. Non era possibile, con lui, mettere in questione l’assunto marxiano delle relazioni fra struttura e sovrastruttura né tanto meno la stratificazione rigida in classi sociali. Era come togliergli l’Edipo freudiano a fondamento dello sviluppo umano.
Viaggiammo insieme per Bologna quando gli fu conferito il premio Musatti nel 2001 e mi parlò delle sue amicizie intellettuali, delle sue idiosincrasie, del non sentirsi in sintonia con Umberto Eco, della non valorizzazione del pensiero di Groddeck in psicoanalisi. Molti ricorderanno quanto fu brillante e affettuoso, in quella occasione, nel paragonare la psicoanalisi a una bella donna desiderata e corteggiata che gli si concedeva proprio quando lui aveva perso ogni speranza.
Conservo ancora la registrazione dell’intervista avvenuta nel mio studio e pubblicata nel 2002 su Psiche a proposito delle nuove identità. Non voleva domande scritte: preferiva rispondere di getto. E’ straordinaria la lucida modernità di quelle affermazioni, così in contrasto con una certa vetustà del suo pensiero politico. Ma Sanguineti si definiva rigoroso e ortodosso e lo era, pur nei conflitti e nelle contraddizioni.
Nonostante la fama e gli onori, viveva in una casa popolare alla periferia di Genova dove si respirava odore di libri e aria di semplicità, grazie anche alla presenza di Luciana, la moglie tanto amata che governava i tempi dei suoi impegni.
Mi fermo qui, commosso, perché vorrei dare la parola al poeta con la “Ballata delle donne” che, uscendo dal linguaggio sperimentale, riunisce diversi aspetti della sua inconfondibile umanità.
BALLATA DELLE DONNE
Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia:
quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace:
quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno aggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire:
perché la donna non è cielo, è terra,
carne di terra che non vuole la guerra:
è questa terra che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente:
femmina penso, se penso l’umano:
la mia compagna ti prendo per mano:
Edoardo Sanguineti,
gennaio 1985
EDOARDO SANGUINETI
Presentazione di Cosimo Schinaia al Premio Musatti 2001
Edoardo Sanguineti è nato a Genova il 29 dicembre 1930. Ha insegnato letteratura italiana nelle università di Torino, Salerno e Genova. E’ stato consigliere comunale nella sua città e deputato al parlamento come indipendente nelle liste del PCI.
L’attenzione rivolta da Sanguineti alla psicoanalisi è testimoniata già dalle sue prime prove letterarie. Nell’ opera d’esordio Laborintus (1951-54), edita nel ’56, è evidente l’influenza di Freud e di Jung: in particolare risulta decisiva la lettura di Psicologia e Alchimia (apparsa in Italia nel 1950), come è minuziosamente illustrato da un saggio di Viziello (ora in Viziello, C. Teoria e Tecnica dell’Avanguardia, Milano, 1964). Elementi analitici saranno presenti in tutta la sua ulteriore produzione in versi e non sarà certo un caso che una sua raccolta poetica, T.A.T. (1968), ricavi il titolo dai Thematic Apperception Test o che emerga tante volte, nelle sue pagine, l’interesse per il Rorschach.
Il primo esperimento teatrale di Sanguineti, K. (1959), sviluppa, in forma di dialogo tra Kafka e Janouch, una libera interpretazione freudiana dell’opera kafchiana. Nel 1964 è emblematico il “Quartetto Scenico” Traumdeutung, costruito su una complessa rete di materiali onirici. Ma l’attenzione al mondo del sogno era già stata al centro del suo primo romanzo, Capriccio Italiano (1963), come viene rilevato da tutta la critica (da A. Giuliani e T. Wlassics, da R. Barilli e E. Gioanola), che individua appunto nell’onirismo il tratto più significativo, più innovativo e più costante delle scritture poetiche, teatrali e narrative di Sanguineti (dove sono espliciti del resto, numerosi richiami ai maestri della psicoanalisi, da Groddeck a Winnicott).
Altrettanto significativa è l’influenza che la psicoanalisi ha esercitato sulla sua produzione saggistica, come egli stesso rileva nello studio su La Psicoanalisi nella Cultura Italiana (1966). Lo dimostrano, tra le altre, le pagine dedicate a Pascoli e a Gozzano, a Moravia e a Savinio, a Landolfi e a Vittorini. Ma non c’è scritto di Sanguineti, si può dire, dove, esplicitamente o implicitamente, non sia attiva la presenza del discorso analitico. Questa si manifesterà anche, in forma giocosa e divertita, ma non meno emblematica in una delle sue “Interviste impossibili”, dedicata appunto a Freud (edita nel 1976 e ora reperibile in Internet ), che può essere letta come un tentativo, protetto dall’ironia, di una vera e propria autoanalisi.
UN SEMIANALISTA SELVAGGIO
Autopresentazione di Edoardo Sanguineti in occasione del premio Musatti 2001
I miei rapporti con la psicoanalisi furono piuttosto precoci e risalgono a un’epoca dominata dalla trinità di Freud, Jung e Adler. Fui, per quel che mi era possibile, a mio modo, subito (e poi sempre) un freudiano ortodosso che si appoggiava alla famosa collana viola di Einaudi, dove appaiono Inibizione, Sintomo e Angoscia (1951) e Casi Clinic” (1952). Il viatico naturale, per me ancora ventenne, fu ovviamente il “Trattato” di Cesare Musatti (1949). Ma per il poeta che, proprio in quel tempo, tentavo di diventare, fu capitale anche la collana di Astrolabio, segnatamente quando presi a scrivere il mio primo libro di versi nel 1951, Laborintus, per il quale mi avvalgo largamente di Psicologia e Alchimia di Jung (1950). Gli archetipi, pur lontano dalle posizioni di Jung, e diffidente, mi attraggono come un straordinario dizionario di immagini, di figure, di simboli.
E della psicoanalisi continuerò a fare uso, come fruitore eretico, nelle poesie, nelle prose e nel teatro per molti e molti anni. Il resto, poi, verrà da sé. Con una sfrenata passione per Groddeck. E leggerò Ferenczi e Kerényi, Binswanger e David, Lacan e Klein. L’inventario, che sarebbe superfluo, sarebbe anche lunghissimo.
Ma non soltanto: non c’è un mio verso, un mio capitolo di romanzo, una mia battuta teatrale che non abbia qualche debito verso l’esperienza psicoanalitica. In debito è quasi ogni mia pagina critica, ogni mia analisi letteraria. E anche in modi giocosi, voglio almeno ricordare una mia intervista impossibile, radiofonica, direttamente con Freud. Ma a partire dalle mie prime avide letture dei testi canonici e classici della psicoanalisi, non c’è episodio della mia vita, compresa la mia ostinata vocazione all’autoanalisi, oso dire, che non porti traccia, almeno ai miei occhi, dell’insegnamento di Sigmund Freud e, forse altrettanto e per certi versi anche più, di Georg Groddeck.
A questo punto mi fermo, perché dovrei, onestamente, distendermi sopra il lettino analitico. E questo, lo confesso, non l’ho fatto mai.
Bologna, Sabato 2 Giugno 2001.