MARTA ROBERTI, 2020
Gianni Vattimo, il silenzio di un anno dopo
di Davide D’Alessandro
Dio è morto. Anche Gianni Vattimo.
Questa battuta non sarebbe dispiaciuta al buon Gianni, che se n’è andato il 19 settembre dell’anno scorso. Questo è un fatto, si potrebbe aggiungere, non un’interpretazione. Il problema, ironia a parte, è che a distanza di un anno, se si eccettua un Convegno organizzato a Torino, chi si ricorda di uno tra i più importanti filosofi italiani e, soprattutto, a che cosa hanno pensato nel giorno dell’anniversario le pagine culturali dei nostri amati quotidiani?
Eppure, ripercorrere il suo cammino filosofico, politico e culturale, ci darebbe l’occasione per fare il punto su ciò che abbiamo davanti, su ciò che abbiamo irrimediabilmente perduto, sulle battaglie perse non soltanto da Vattimo, ma da tutti noi.
Sui venti di guerra, che soffiano da ogni dove, manca la sua riflessione profonda, il suo spirito libero, la sua capacità persino di contraddirsi ma di andare sempre al cuore del problema. Certo, ci sono i libri che ha lasciato, ma Vattimo non è stato l’uomo dei libri, è stato l’uomo dell’intervento quotidiano, della passione del pensiero, del pensiero teorico e pratico insieme, di una debolezza forte, ossimoro che dice di lui più di ogni altra definizione.
È morto come ha vissuto, con tenerezza e generosità. Ha accolto il dolore e la sofferenza credendo di credere, da buon o pessimo cattolico, dipende sempre dai punti di vista o dalle interpretazioni. Non è stato facile comprenderlo, ma è stato facile e appassionante seguirlo per una delle sue terze vie, non essendo abituato a percorrere né la prima né la seconda, sempre percorse da chi si adatta al pensiero corrente, da chi si abitua a remare nel gregge.
Vattimo ha vissuto come è morto, fissando tante stelle quante erano quelle delle tante verità. Tante verità, direbbero i suoi critici, per negare tutte le (presunte) verità. Vattimo è uscito fin da giovane dal fortino, dalla sicurezza, spronato dal coraggio che lo animava a solcare mari sconosciuti, a inciampare, a cadere e ogni volta a rialzarsi.
Prima di andarsene, mi disse: “Lascio poco. Ho avuto più allievi all’estero che in Italia. A volte mi limito a vedere (poiché non li so leggere) i miei libri tradotti in cinese e mi chiedo se siano davvero miei. Gli allievi italiani hanno preso altre vie, diverse dal pensiero debole”.
Il giorno che mi fece trovare due torte (per il mio compleanno, non certo per il suo), gli chiesi di mutare con altri verbi il credere, obbedire e combattere. Mi rispose: “Credere (dal punto di vista religioso), amare e ospitare”.
Se un anno è trascorso senza che la cultura, egemone di destra o di sinistra, di questo paese distratto, si sia accorto della sua lezione, impegnata com’è a celebrare l’avanspettacolo e non il pensiero, la colpa è anche di quell’indebolimento che ha colpito alla base la struttura, l’impianto di un sapere alto, poco praticabile nelle aule dove i nostri giovani debbono necessariamente essere preparati ad altro, a funzionare piuttosto che a pensare.
Dio è morto. Anche Gianni Vattimo. E la cultura, sia detto con tanta tristezza, non se la passa tanto bene.
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