Intervista a David Meghnagi
(registrazione audio del 26 giugno 2018)
a cura di Rita Corsa
Nel saggio La Psicoanalisi nell’epoca dello smarrimento (2015), Christopher Bollas sollecitava con fermezza la psicoanalisi a recuperare la funzione della storia, che la contemporaneità avrebbe tragicamente smarrito. L’intera tua opera, David, in qualità di massimo studioso italiano dei rapporti tra ebraismo e psicoanalisi, pare proprio tesa in tale direzione. Un modello solitario, quasi unico, nel panorama psicoanalitico internazionale. In quest’era senza memoria, anche il tuo ultimo libro, Enzo Bonaventura. La psicoanalisi (2017), rappresenta un raro, accuratissimo esempio di ricostruzione-trasformazione di vicende interne e di restauro di eventi passati, fatti colpevolmente cadere nell’oblio.
A mio avviso, il volume ha due pregi fondamentali: il primo è senz’altro quello di dare nuova luce a un pioniere del tutto dimenticato, il grande psicologo sperimentale Enzo Joseph Bonaventura; il secondo è quello di provare a riannodare le fila degli originari e stretti rapporti tra la psicoanalisi e la psicologia sperimentale.
Ma andiamo con ordine. Portaci a conoscere questo notevole personaggio del Novecento.
Nato a Pisa nel 1891, in una famiglia ebraica, nel 1913 Bonaventura si laurea a Firenze in filosofia con Francesco De Sarlo, che lo fa assumere come assistente all’interno del Laboratorio universitario di psicologia, di cui sarebbe diventato direttore nel 1924. Espulso dall’ateneo in seguito alle “Leggi razziali” del ’38, si trasferisce a Gerusalemme, dove getta le basi della psicologia accademica israeliana, insegnando alla Hebrew University. Muore tragicamente il 13 aprile del 1948, in un agguato contro il convoglio del personale medico dell’Hadassah. Con lui muoiono altre 78 persone, tra cui la moglie del rabbino capo di Firenze, scampata ad Auschwitz.
Bonaventura fu una figura carismatica nel movimento sionista italiano, con interessi che spaziavano in campi diversi, filosofia, teologia, psicologia dello sviluppo ecc. Fu uno dei pionieri della psicologia accademica e della psicoanalisi, cui dedicò il più completo manuale uscito prima della guerra, La psicoanalisi (1938). Il mio libro, invero, è una ristampa integrale dell’opera coraggiosamente pubblicata dallo psicologo toscano per Mondadori nel 1938, pochi mesi prima dell’emanazione delle leggi sulla “razza”, corredata da un mio saggio introduttivo, dove cerco di trovar ragione della rimozione storica e psicologica, cui è andata incontro la sua opera, sia in ambito accademico sia in quello psicologico e psicoanalitico.
Un “gigante”, come ti piace definirlo.
Sì, egli fu davvero un gigante, in anni in cui la psicologia sperimentale italiana stava muovendo i primi passi, sulle orme dei maestri Wilhelm Wundt e Franz Brentano – che ebbe tra i suoi allievi Edmund Husserl, il fondatore della filosofia fenomenologica, e Sigmund Freud. Il mentore di Bonaventura, Francesco De Sarlo, fu in stretti rapporti con i neokantiani, che privilegiavano la dimensione empirica, e con lo stesso Franz Brentano. Le ricerche scientifiche di Bonaventura furono incentrate specialmente sui fenomeni legati alla percezione e all’illusione dell’introspezione (1915), e sull’esperienza dello spazio e del tempo cui consacrò il suo lavoro sperimentale più noto, Il problema psicologico del tempo (1929). Vari studi compiuti presso il Laboratorio fiorentino furono inoltre condivisi con Renata Calabresi, una giovane e brillante allieva, che si era laureata con lui, per poi trasferirsi a Roma, come assistente di Ponzo. Espulsa dall’Università in seguito alle leggi del 1938, Renata Calabresi, si trasferisce negli Stati Uniti. L’impronta filosofica ereditata da Francesco De Sarlo ha permesso a Bonaventura di guardare oltre la psicologia gestaltiana, per schiudersi alla psicologia sociale, ispirato dalla corrente fenomenologica, che stava influenzando pure la teoria del campo di Kurt Lewin.
Quest’apertura della psicologia alla realtà sociale appare di straordinaria modernità.
Bonaventura fu un grande precursore in tal senso. Personalmente ritengo che la sua formazione non medica lo abbia favorito in queste inedite esplorazioni della giovane disciplina psicologica. Il suo contributo scientifico non è rimasto confinato all’area percettiva della coscienza o all’intrapsichico. Si è sviluppato in molti altri ambiti. Un ruolo di rilievo è il suo apporto alla psicologia dello sviluppo. In un’epoca in cui i testi abbondano di una terminologia che oggi considereremmo giustamente offensiva e lesiva per la dignità della persona, Bonaventura si esprime con un altro linguaggio, fatto di empatia verso i bambini diversamente abili. Un interesse, quello di favorire la crescita delle giovani menti, che l’ha accompagnato per tutta la vita. Alla Hebrew University, dove insegnerà sino alla tragica morte nell’aprile del 1948, l’attenzione agli aspetti pedagogico-educativi è una costante.
La sua stessa carriera accademica è avvenuta «nel segno di una serie d’impossibilità cumulative», come sostieni nel prologo.
Una pluralità di motivi ha reso particolarmente travagliata la carriera universitaria di Bonaventura e, nel tempo, ha portato a farne largamente perdere il ricordo. Ostile alla psicologia, Giovanni Gentile fa in modo di togliere al Laboratorio di psicologia ogni funzione strategica. La conseguenza è che pur assumendone in seguito la direzione, e nonostante sia arrivato secondo nel concorso per la cattedra di psicologia a Roma nel 1930 (il che per la legge dell’epoca gli dava la precedenza per ogni eventuale concorso nel settore), non sarà mai chiamato per tale incarico dalla sua università. Dal canto suo, padre Agostino Gemelli, l’unico che potrebbe fare qualcosa per lui (ma che notoriamente è antisemita, al punto da augurarsi nel ’24 che insieme a Felice Momigliano suicidatosi, tutti gli ebrei ne seguano il comportamento, avendo l’accortezza di convertirsi prima del suicidio!), non fa nulla per sostenerlo, facendo circolare, nel dopoguerra, la leggenda di averlo attivamente sostenuto per fargli ottenere la cattedra a Gerusalemme. A dirla tutta, neanche Musatti sfugge nei suoi ricordi a un atteggiamento di ambivalenza irrisolta, per via del concorso del 1930, bandito al pensionamento di Sante De Sanctis. La storica Patrizia Guarnieri (2012) ha ricostruito nei dettagli i fatti accaduti in quell’occasione. Lo psicologo toscano, che conta al suo attivo oltre quaranta pubblicazioni, tra articoli e monografie, ha tutti i titoli per uscirne vincitore. Il concorso, però, non è per lui, bensì per l’assistente più anziano di De Sanctis, Mario Ponzo. Bonaventura arriva secondo; Cesare Musatti è terzo. Bonaventura non è chiamato dalla sua università e la conseguenza è che a farne le spese sia anche Musatti, che si ritrova bloccata l’eventuale assegnazione presso il suo ateneo. La speranza di tempi migliori rapidamente svanisce.
Nella seconda metà degli anni Trenta si manifestò sempre più accesa l’ostilità del regime verso gli ebrei, inclusi gli intellettuali più in vista, senza risparmiare quelli che avevano più o meno strumentalmente dimostrato un’adesione formale al fascismo. Dai documenti esaminati dalla Guarnieri si ricava che il 30 novembre 1931 Bonaventura giurò fedeltà al “Regime Fascista” davanti al rettore, atto obbligatorio per mantenere l’incarico accademico, e l’anno successivo prese la tessera del PNF. Il professor Cesare Musatti dovette a sua volta iscriversi al P.N.F. in data 31 luglio 1933. La sorte di questi due ebrei fu però alquanto diversa.
Completamente differente! Bonaventura viene espulso dall’università in seguito alle “Leggi razziali” del 1938, trasferendosi poi a Gerusalemme, con la famiglia. Musatti, che ha solo il padre ebreo, si procura un certificato di battesimo falso, ottenendo di essere classificato come “ariano”. Nel 1938 l’Università di Padova non gli rinnova il contratto. La motivazione ufficiale non è però collegata all’appartenenza “razziale”, come invece in molti pensano erroneamente. Il che non significa che non abbia anche lui sofferto per l’atroce situazione in cui gli ebrei si erano ritrovati da un giorno all’altro. Allontanato dall’Università, Musatti ha la possibilità di insegnare in un liceo e durante la guerra è richiamato per un breve periodo nell’esercito. Nel 1943, redige alcune voci (“Psicologia”, “Psicoanalisi”, “Ipnosi e Suggestione” e “Omosessualità”) per il Dizionario di criminologia, curato, tra gli altri, da Nicola Pende, uno dei firmatari del Manifesto per la difesa della razza. Bonaventura reagisce alle persecuzioni, riprendendo in mano progetti antichi, che non l’hanno mai abbandonato. Nel 1924 egli si era recato con la moglie a visitare la Terra dei Padri, dove meditava di poter approdare nella speranza di veder realizzati quei programmi che il suo paese d’origine gli aveva precluso. Nel 1925 era nata a Gerusalemme l’Università ebraica. Chi sa che non possa un giorno insegnarvi. Tra i mentori dell’Università ci sono personalità scientifiche di rango, dello spessore di Einstein e di Freud. Grazie ai suoi contatti e alla stima di cui gode, Bonaventura ottiene l’incarico. In quegli anni Gerusalemme era tutto un fermento. Migliaia di ebrei tedeschi, in fuga dal nazismo, hanno trovato rifugio nel paese. Si tratta di un’immigrazione colta, con molti accademici e studiosi, tra cui molti esponenti del movimento psicoanalitico in Germania e Austria, che trasformano la città in uno dei grandi poli del movimento psicoanalitico. Fra gli immigrati, vi è Max Eitingon, una figura chiave del movimento psicoanalitico in Germania, tra i più stretti collaboratori di Freud. Nel settembre del 1933 nasce la Chevrà Psychoanalytit Be’Israel (letteralmente La Società psicoanalitica nella Terra d’Israele), ufficialmente istituita e riconosciuta dall’I.P.A nel 1934: con due centri, fra loro in tensione, a Gerusalemme e a Tel Aviv. Sono anni in cui tutto quel che dice e scrive Freud è oggetto di una grande attenzione, non solo scientifica, ma anche culturale e ideologica. Per alcuni Freud e la sua creatura scientifica sono l’essenza stessa dello spirito ebraico, da cui traggono ispirazione alcune importanti esperienze educative; per altri Freud non è stato del tutto conseguente nelle sue scelte, conservando uno spirito “diasporico”, lontano dall’ethos del movimento di rinascita nazionale ebraico. Freud è tra i primi degli autori tradotti in ebraico e quello su cui si scrive di più. Il rettore della Hebrew University, che però avrà dei dissapori con Freud, per avere optato per un insegnamento di psicologia (da affidare a Kurt Levin), prima di creare un insegnamento di psicoanalisi, tiene un quadro di Freud nello studio. Le traduzioni degli scritti di Freud dal tedesco all’ebraico contribuiscono ad arricchire il lessico di una lingua che per secoli non era usata quotidianamente. I lavori di Bonaventura di questi anni sono incentrati sui processi di socializzazione, sull’educazione e lo sviluppo identitario. Lo scopo, meglio la mission, era di indagare l’estrema complessità della costruzione dell’identità giovanile in un territorio di forte immigrazione, dove si confrontavano tradizioni e culture diverse, potenzialmente in conflitto. Con i suoi studi pionieristici sui rapporti tra psicologia e didattica, Bonaventura getta le basi della corrente psicoeducativa, affermatasi con autorevolezza negli anni Cinquanta grazie anche ad alcuni suoi allievi. Bonaventura fu un uomo generoso, che a Firenze sosteneva i profughi di passaggio per la città, e che sapeva far crescere i suoi discepoli. Purtroppo la sua originale e lungimirante opera ebbe una prematura e violenta conclusione.
Passiamo ora a considerare più da vicino il libro di Bonaventura, La psicoanalisi, di cui hai presentato la ristampa. Prima di esaminare il contenuto del volume, mi piacerebbe soffermarmi sui rapporti tra psicoanalisi e psicologia sperimentale, che la tua operazione editoriale ha doverosamente recuperato. Questo è un discorso di grande rilevanza non solo storica, ma pure epistemologica, trattato in maniera abbastanza approfondita da Michel David negli anni Sessanta e in un saggio apparso sulla Rivista di Psicoanalisi da Anna Maria Accerboni negli anni Ottanta, ma poi del tutto scotomizzato, a favore di una narrazione che ha voluto le radici della psicoanalisi nostrana impiantate nella medicina psichiatrica positivista, da cui ha faticato a smarcarsi.
Questo scotoma ha provocato una sorta di buco, quasi una voragine storica, nella psicoanalisi italiana. La scuola di psicologia sperimentale di Firenze, diretta da Francesco De Sarlo, è stata una grande fucina di pensatori, che hanno intrecciato relazioni strette e assai fertili con la psicoanalisi. La Firenze dei primi due decenni del secolo, con le sue tante riviste letterarie e filosofiche, fu una fonte inesauribile di una cultura che dimostrava sincera e profonda curiosità per la “novella scienza” freudiana. Citerei in particolare il periodico La Voce – fondato nel 1908 da Giuseppe Prezzolini e da Giovanni Papini, e che fu stampato sino al 1916 –, che nel 1910 dedicò un intero numero alla “questione sessuale”, indagata dal punto di vista psicoanalitico. Va menzionata, inoltre, la rivista Psiche, creata nel 1912 dal medico psicologo Roberto Marco Greco Assagioli. Quest’ultimo, formatosi alla scuola psicoanalitica di Zurigo, è il primo italiano a fare ufficialmente parte di una società psicoanalitica, nel lontano 1910; Assagioli è il primo che traduce Freud in italiano, avendo pubblicato nel 1912 su Psiche la sua versione de Il metodo psicoanalitico freudiano (1903). Nei tre anni di vita del suo periodico, ha dato uno spazio molto ampio ad articoli d’argomento psicoanalitico, con contributi di Morselli, Assagioli e dello stesso Freud. Un’esperienza pionieristica nell’editoria della penisola, di cui Assagioli è tra i principali riferimenti. Assagioli si è in seguito distaccato dal troncone centrale del movimento psicoanalitico, creando una propria scuola (La psicosintesi). Un’altra figura di spessore è Marco Levi Bianchini, che non solo è tra i fondatori della prima S.P.I., ma conia anche diversi termini, entrati nel gergo e nella letteratura psicoanalitica, ben prima che la fondamentale opera di traduzione della Boringhieri facesse nascere un “lessico italiano” psicoanalitico.
Sottoscrivo pienamente il tuo invito – che va avvertito quasi come un obbligo morale – di recuperare questi antichi personaggi, che hanno fatto la storia della nostra disciplina. In occasione dell’anniversario dei suoi novant’anni di fondazione (2015), la S.P.I. si è prodigata a celebrare Marco Levi Bianchini, “un don Chisciotte” della psicoanalisi, come lo chiamò Musatti. Gli è stato dedicato un convegno a Teramo ed è apparsa una serie di articoli su SPIweb, sulla Rivista di Psicoanalisi e sull’Italian Psychoanalytic Annual. Adesso tocca riprendere in mano l’originale figura di Assagioli. Ma, in linea con il tuo lavoro di restauro dei legami tra la psicologia sperimentale e la psicoanalisi, andrebbero inoltre approfonditi i contributi alla nostra materia provenienti da altre prestigiose scuole di psicologia d’inizio secolo: quella di Padova, diretta da Vittorio Benussi, il geniale psicologo triestino, formatosi alla scuola di Meinong a Graz, che ebbe come allievo prediletto Cesare Musatti, e la scuola sperimentale di Roma, governata dal potentissimo accademico Sante De Sanctis e dal suo discepolo Ferruccio Banissoni, che ebbero un ruolo politico di rilievo, seppur ambivalente, nell’istituzione del movimento psicoanalitico italiano. I lavori di De Sanctis furono ripetutamente menzionati dallo stesso Bonaventura nel suo manuale.
Sono d’accordo. Soprattutto nel riferimento che fai a Benussi, una figura poderosa con cui De Sarlo e Bonaventura si incontrano spesso e che fanno dell’istituto di Padova e di Firenze, due grandi poli di ricerca sperimentale, in cui la psicoanalisi ha un ruolo importante. Quanto a De Sanctis, che Bonaventura cita ampiamente, è un autore che ha un posto riconosciuto nella Traumdeutung. L’obiettivo di Bonaventura è di collocare la psicoanalisi nell’alveo della psicologia generale. «La maggior parte delle esposizioni della psicoanalisi che si posseggono nelle varie lingue – rileva nella Prefazione – è stata scritta da psicoanalisti i quali, mentre conoscono perfettamente la loro disciplina (…) non sono altrettanto a giorno dei progressi compiuti dalla psicologia generale in un secolo di lavoro scientifico appassionato e fecondo; la loro stessa preparazione esclusivamente medica non li conduce a inquadrare la psicoanalisi nel complesso della scienza psicologica, a cui pure appartiene come ramo e come metodo particolare». Va detto che un numero cospicuo e significativo degli psicologi sperimentali era di provenienza medica (De Sanctis, Banissoni, Padre Gemelli, e altri), mentre la psicologia italiana era nata da poco come disciplina autonoma, che stentava a distanziarsi dalla filosofia, di cui era una branca specialistica, fortemente osteggiata dall’idealismo crociano e dall’attualismo gentiliano. Bonaventura sottolinea che dalla matrice medica di tanti psicologi, nascono «talvolta alcuni curiosi errori di valutazione: perché costoro, non conoscendo bene la storia della psicologia, sono indotti a celebrare come novità certe idee che hanno invece già una lunga barba, e a prendere per “scoperte” dei fatti già da tempo acquisiti dalla scienza». E, precorrendo di quasi un secolo il destino che attualmente vuole la psicoanalisi sempre più inserita nel solco della psicologia e sempre meno regione isolata, demarcata da antichi confini medici: «A noi è parso che per valutare con maggiore equità ciò che vi è di originale e profondo nella psicoanalisi convenisse riportarla nel suo proprio terreno: e invece di presentarla come una dottrina staccata e conchiusa in sé stessa, inserirla nel vasto quadro della psicologia contemporanea normale e patologica, pura e applicata». Altrettanto odierna è poi la sollecitazione a fare della psicoanalisi una disciplina in collegamento con le altre dottrine psicologiche, comprese quelle sperimentali: «Comunque vogliano pensare quegli psicoanalisti che affettano un altezzoso disprezzo per la psicologia sperimentale, noi siamo invece convinti che la psicoanalisi abbia tutto da guadagnare commisurandosi coi risultati raggiunti dalla psicologia con altri metodi e seguendo differenti indirizzi. Non le unilateralità e gli esclusivismi, ma la mutua comprensione e un sano equilibrio del pensiero possono seriamente giovare al progresso della scienza». Cos’altro aggiungere a queste parole che paiono quasi un vaticinio?
Mi sovviene che pure Edoardo Weiss, medico e psichiatra, nel lontanissimo 1926, ammonisse il minuscolo manipolo dei primi soci della S.P.I., tutti medici, a estendere la disciplina freudiana «ai non medici», onde evitare di incorrere nel grave errore di «considerare la psicoanalisi soltanto come un capitolo della medicina o particolarmente della neuro-psichiatria». L’esclusione di chi non è medico avrebbe privato la Società di «preziosissimi collaboratori che possono (…) determinare un favorevole sviluppo della società».
Edoardo Weiss ed Enzo Bonaventura erano entrambi, e in modo diverso, dei “giganti” del pensiero psicologico e psicoanalitico italiano. Il ruolo di Weiss, nella storia del movimento psicoanalitico, è ancora da sviscerare e approfondire, non solo in relazione al periodo italiano, ma anche a quello americano. Nel caso di Bonaventura, siamo di fronte a una rimozione, che coinvolge il movimento psicoanalitico dall’interno. Come un fiume carsico, la sua lezione ha continuato a operare, sebbene non riconosciuta come tale. Alcune delle intuizioni di Bonaventura sono state idealmente raccolte e originalmente sviluppate da Silvano Arieti, una delle figure più importanti della psichiatria americana. Arieti ha incontrato più volte Bonaventura nei circoli ebraici di Pisa e apprezzò a tal punto il manuale di Bonaventura, da portarselo in America come fosse “un oggetto transizionale”, per rendere meno dolorosi la partenza e l’esilio americano. Aveva ricevuto in prestito il libro da Giuseppe Pardo Roques, il Parnàs (capo) della comunità ebraica di Pisa, che dava asilo e protezione a tanti giovani profughi ebrei, e che il venerdì offriva dei buoni pasto da consumarsi in un ristorante cittadino a chiunque ne avesse bisogno, senza distinzioni religiose. Il Parnàs fu ferocemente assassinato alla vigilia della Liberazione. Arieti fu catturato dalle idee di Bonaventura, tra le mura dell’abitazione del Parnàs. Quest’ultimo era un munifico e temerario imprenditore, che aveva svolto importanti funzioni nel comune pisano, nonostante fosse affetto da una grave forma di agorafobia, che talora lo obbligava a vivere chiuso in casa per settimane. Temeva di essere aggredito e fatto a pezzi da animali feroci e, dato che abitava in città, aveva trasferito questa paura sui gatti e sui cani, girando con un bastone con cui tastava il terreno. La figura, il fantasma del Parnàs, agitò il pensiero di Arieti per quarant’anni, tanto da diventarne un libro, ormai divenuto di culto (1979). Arieti assunse la malattia di quest’uomo come paradigma di una lettura della malattia mentale che integra le scoperte freudiane sui meccanismi primari dell’inconscio con un approccio che tiene conto anche delle funzioni più complesse e superiori della psiche. Questo testo rappresenta un elemento chiave di collegamento tra gli studi di Bonaventura, rimasti interrotti e largamente ignorati, e quelli successivi compiuti da Arieti in America, frutto di ricordi e degli insegnamenti ricevuti.
Quindi, come tu affermi, l’opera di Arieti avrebbe realizzato il raccordo tra l’universo inconscio e la realtà delle funzioni coscienti. Per dirla con Bonaventura, «la psicoanalisi ha colmate le lacune» della psicologia sperimentale, che «rimaneva spesso alla superficie, non riusciva a cogliere la connessione causale dei fenomeni» e delle funzioni psichiche.
Sì, è così. Ma molto altro ancora, perché, continuando ad adoperare le parole di Bonaventura, la psicoanalisi, «c’insegna anche a non isolare artificialmente l’individuo dall’ambiente umano in cui ha vissuto e vive», favorendo così «quella comprensione unitaria dell’animo umano che è pure lo scopo ultimo cui la psicologia deve mirare». Questo è un viatico pieno di speranza per la nostra disciplina. L’eredità che ci ha lasciato Enzo Bonaventura dischiude al futuro, tracciando dei percorsi di collaborazione tra dottrine affini, che hanno lo scopo comune di mettersi al servizio dell’individuo e del consesso sociale, al fine di lenire il dolore del vivere.
Prima di salutarci vorrei toccare qualche punto critico riguardo Bonaventura e i suoi rapporti con la psicoanalisi dell’epoca. Come abbiamo ripetutamente detto, i padri ufficialmente riconosciuti lo lasciarono ai margini e il suo libro fu screditato da alcuni di loro, che valutarono il manuale troppo divulgativo e con vari errori teorici. Nella recensione fatta da Weiss per l’International Journal of Psycho-Analysis nel 1939, l’opera fu giudicata in chiaro/scuro e il suo autore fu posto «outside the sphere of psycho-anaysts». Nicola Perrotti fu ben più severo quando, nel commentare su Psiche il trattato di psicoanalisi di Musatti del 1949, non perse l’occasione di bollare il precedente manuale di Bonaventura come assai impreciso e superficiale. Solo Emilio Servadio fu più bendisposto, quando citò nell’articolo del 1974, Funzione dei conflitti pre-edipici, un lavoro di Bonaventura sulla psicologia dei lattanti scritto nei lontani anni Trenta.
La recensione di Weiss per l’International è ingenerosa, non all’altezza dello spessore scientifico del suo autore. Forse anche come conseguenza della rigidità con cui in quegli anni nel movimento psicoanalitico ci si accostava all’opera di Freud, come se fosse un testo sacro e non invece una costruzione, piena di contraddizioni e di tensioni irrisolte, che sono una forza e non un limite del suo pensiero. La recensione di Weiss colpisce per il contrasto tra l’abstract e le osservazioni iniziali, molto positive, e le successive argomentazioni tese a ridimensionare l’autore e la sua autorevolezza. Weiss riconosce che per la prima volta dalla penna di uno psicologo è uscito un buon compendio di psicoanalisi. A parere di Weiss, nonostante l’autore sia scivolato in qualche piccola inesattezza, il valore del libro resta inalterato. Non a caso la critica si accentra su alcuni passaggi clinici, che secondo l’autore sono descritti in modo troppo semplice, individuando delle inesattezze concettuali come per esempio la confusione dell’Id freudiano con l’inconscio, e nella definizione del principio di piacere e, in generale, nella teoria pulsionale. Si tratta di rilievi terminologici che chiamano in causa il passaggio dalla prima alla seconda topica freudiana, con lo sviluppo della teoria strutturale. Ma l’aspetto del testo di Bonaventura che per Weiss risulta più indigesto sul piano metapsicologico, e che invece ne rappresenta la forza e la modernità, è quello inerente il significato da attribuire alla religione e alla cultura. Bonaventura dichiara con sincerità che «dove non [si sente di] seguire il Freud, [è] nelle sue ipotesi sull’origine del Super-Io dei sentimenti morali e della religione». Egli ritiene assolutamente «ardite» le idee freudiane espresse in Totem e Tabù, che gli paiono «le più deboli dell’autore». Weiss interpreta una tale posizione come una concessione al pensiero junghiano, con una conseguente perdita di rigore. Non è necessario disturbare Levi Strauss per capire chi su questo punto aveva ragione. Ritenere che Bonaventura non avesse cognizione del fatto che l’Inconscio e l’ES non sono sinonimi, in quanto, anche l’Io contiene una parte inconscia (per non parlare degli altri rilievi giustamente sollevati), rischia di perdere l’essenziale. Non a caso Emilio Servadio, che tra i padri fondatori della psicoanalisi italiana è forse quello che più liberamente ha espresso la sua libertà dai vincoli dell’ortodossia ufficiale (avendo il coraggio di sedersi accanto a Wilhelm Reich nel congresso in cui fu espulso dal movimento psicoanalitico), il riconoscimento del ruolo di Bonaventura appare più esplicito e meno vincolato dalla correttezza dell’uso dei termini. Va però detto che Weiss e Bonaventura si conoscono e nutrono un grande rispetto l’un per l’altro. Ne è testimonianza anche un breve carteggio, di cui ci è giunta la famosa lettera in cui lo psicoanalista triestino discute con il collega fiorentino della problematica agorafobica, suggerendogli la lettura di alcuni articoli sull’argomento. Nel post-scriptum della stessa missiva, datata 12 aprile 1932, Weiss si perita di annunciare allo psicologo toscano l’uscita del primo numero della Rivista Italiana di Psicoanalisi.
Quando, alla fine degli anni Ottanta, questa lettera è stata pubblicata integralmente sulla Rivista di Psicoanalisi, la redazione ha finalmente riservato a Bonaventura il necessario riconoscimento. Ecco qualche passaggio: «Il suo volume sulla psicoanalisi si distingue (…) per la conoscenza del pensiero di Freud (…). Bonaventura studia attentamente l’intreccio tra psicologia e psicoanalisi e ne propone un’integrazione feconda, sia nell’affermare la psicoanalisi come ramo della psicologia, sia nel presentare questa come precorritrice ed anticipatrice di quella. Tale posizione di Bonaventura ne fa un caso raro e importante nel panorama cultura italiano degli anni ‘30».
Non è casuale che ciò sia accaduto verso la fine degli anni Ottanta, e non prima. Accanto a questo importante episodio, vorrei ricordare che nella mostra che si tiene nel 1989 a Roma a Castel Sant’Angelo, in occasione del Congresso internazionale dell’I.P.A., nella sezione dedicata all’Ebraismo, compare un pannello da me curato, in cui accanto ai grandi padri della psicoanalisi italiana, si fa riferimento esplicito all’opera di Bonaventura. Siamo però alla fine degli anni ’80. Negli anni del dopoguerra la ricostruzione storica della psicoanalisi italiana poggia al contrario su una narrazione autoreferenziale, incentrata sulle tre grandi figure di Emilio Servadio, Nicola Perrotti e Cesare Musatti. Edoardo Weiss vive ormai da anni a Chicago, dove si è stabilito con la famiglia, ed è ormai estraneo alle dinamiche che hanno portato alla ripresa della S.P.I. negli anni Cinquanta. Nella nuova narrazione delle origini, per Bonaventura non c’è più un posto né nella comunità psicoanalitica, né all’Università. Rientrato in Italia nel 1947 per un anno sabbatico, egli ha ripreso contatto con i suoi vecchi colleghi, che lo accolgono cordialmente. Di un suo eventuale ritorno però nessuno fa cenno, come precisa Guarnieri (2016), perché ridargli il posto sarebbe un “problema” sia per chi gli è subentrato, sia per chi aspira a entrare in cattedra. Bonaventura toglie il disturbo e se ne torna alla Hebrew University. A Gerusalemme, intanto, Ben Gurion si appresta a proclamare, dopo due millenni, la rinascita di una nazione ebraica indipendente. La Lega Araba si oppone alla spartizione del paese in due stati, amici e vicini. Su tutto incombe la minaccia di una guerra di distruzione. Il Monte Scopus (Har Ha-Zofim), sede dell’università, è collocato in una zona isolata e per raggiungerlo bisogna passare per i quartieri arabi, correndo gravi rischi. Il 13 aprile 1948, un mese prima della dichiarazione dell’indipendenza, il convoglio dell’Hadassah cade nell’imboscata mortale che costa la vita anche a Enzo Joseph Bonaventura. Nel corso della devastante guerra scatenata dalla Lega Araba, il nuovo Stato d’Israele perde l’un per cento della sua popolazione, decimando la crema dei kibbutz e tre generazioni di un’università da poco nata. Passeranno dieci anni prima che il Dipartimento di psicologia riapra i battenti. Ma è un’altra storia. Bonaventura è ricordato nella stele commemorativa delle vittime dell’agguato dell’aprile 1948. Alla sua morte i colleghi fiorentini sono turbati e promuovono un convegno celebrativo. Negli anni Novanta, sempre l’Università di Firenze, ispirata dall’impegno di Simonetta Gori-Savellini, organizza un’altra giornata in suo onore, svoltasi in una sala del Gabinetto Viesseux. Il 1° giugno 2016, su iniziativa del Master internazionale di II livello in didattica della Shoah di Roma Tre, si è tenuto un convegno in memoria di Enzo Bonaventura presso la scuola di psicologia dell’Università di Tel Aviv, con il patrocinio dell’Ambasciata italiana, in collaborazione con la Scuola di Psicologia della Tel Aviv University, del Sigmund Freud Center della Hebrew University e della Fondazione Europa Ricerca (Onlus).
E adesso compare questo tuo importante libro in suo onore.
Il pensiero di scrivere un libro su Bonaventura mi ha accompagnato per anni. Ritrovarmi a scrivere un libro su Bonaventura è stato per me un viaggio nel tempo e nello spazio, un po’ come ripercorrere la mia infanzia con i distacchi forzati con cui mi sono dovuto presto famigliarizzare. La cosa che più mi colpiva della sua vicenda, e che ho poi ritrovato nel figlio Daniel, con cui sono diventato in seguito amico, è la capacità di vivere senza coltivare il rancore. Nonostante le difficoltà cumulative che si è trovato a fronteggiare, Bonaventura continuò a studiare e a scrivere come se il mondo in cui viveva fosse “normale”, facendo in modo di non avvelenare la sua mente, ed è questo forse l’insegnamento più grande.
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Bergamo, 24 settembre 2018