Viveka Assembergs – Le connessioni
Parole chiave: Freud, Sogno, Inconscio, Disconoscimento, Zupančič
“Lo so bene…ma comunque”
Disconoscimento come struttura dell’attualità.
Il capitalismo, i suoi fantasmi e il nostro meccanismo di difesa nell’ultimo libro di Alenka Zupančič
di C. Buoncristiani e T. Romani
Are we so in denial when we
Know we’re not happy here?
Outkast – Hey Ya!
A molti di noi analisti sarà capitato, durante una seduta, mentre il paziente sul lettino svolge il sacro rito terapeutico delle libere associazioni, che sul più bello intervenga Siri dicendo “buon pomeriggio, come ti posso aiutare?” Com’è rassicurante la voce di Siri…
Oppure sarà successo che un paziente preferisca spegnere il telefono all’inizio della seduta con il sospetto che “qualcuno” possa sentirlo…
Siamo diventati paranoici? Riteniamo che il paziente sia preso nel suo delirio e magari ne cerchiamo il senso chissà dove?
Non c’è dubbio che ognuno di noi abbia una sua propria storia, individuale, così come non c’è dubbio che questa storia dica qualcosa di noi. Ma forse sarebbe oggi il caso di guardare anche a quei movimenti tettonici profondi che si muovono nel contesto sociale. Sguardo sull’attualità molto importante se vogliamo avere una buona diagnosi del nostro stato mentale.
Ci viene in aiuto Alenka Zupančič con il suo ultimo lavoro: Disconoscimento. L’Autrice si chiede come sia mai possibile che il progetto illuministico da cui deriva il nostro contesto sociale, il nostro ordine statale e ancora di più, l’universo simbolico nel quale viviamo noi tutte e tutti sia ad un certo punto esitato in un progressivo e apparentemente inarrestabile oscurantismo. Per cercare un orientamento interroga il concetto di Verleugnung, di freudiana memoria. Sono sempre interessanti queste operazioni che oggi fanno i filosofi: non si limitano ad utilizzare concetti della filosofia per spiegare il sociale, ma compiono questa operazione tenendo nella loro cassetta degli attrezzi la psicoanalisi in particolare quella lacaniana. Ne deriva un confronto attento tra sociale, filosofia e psicoanalisi. Nonché delle letture originali.
Zupančič prende le mosse da una battuta. “Se uno di noi due muore mi trasferisco a Parigi”. Già nelle sue precedenti pubblicazioni non sfugge il ricorso al motto di spirito. Questa battuta, a nostro avviso, le è particolarmente utile per ricordarci che l’inconscio forse non è metafisico, non apprezza l’introduzione della mancanza.
Cosa gioca nella battuta? Il disconoscimento. Per l’Autrice è il meccanismo al cuore delle derive complottiste come anche dell’atteggiamento liberale e democratico, razionale, del mainstream occidentale. Il disconoscimento non è negazione. Non nega i fatti, ma va avanti come se niente fosse. Non a caso è la difesa che presiede al feticismo che, come vedremo, è molto utile per comprendere l’attualità.
Il disconoscimento sta diventando la cifra dell’organizzazione della nostra vita sociale. Quando pensiamo agli aspetti irrazionali, oggi all’opera un po’ ovunque, non dobbiamo immaginare delle forze oscure in lotta contro la luce della ragione. La ragione stessa è in parte irragionevole.
Ambivalenza della ragione già sottolineata da Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell’Illuminismo e dallo stesso Lacan quando affianca Sade a Kant. Qui Zupančič porta avanti il suo argomentare in termini psicoanalitici, mantenendo i suoi riferimenti hegeliani di sempre, al lavoro su un’attenta analisi sociale.
Non è ritorno di pulsioni arcaiche quindi, ma una forma perversa di ragione a tessere la tela della nostra attualità. Cosa è in gioco dunque in questa ragione?
Zupančič fa un riferimento molto bello a quel passaggio in cui Freud ne L’interpretazione dei sogni (1899) racconta il sogno del padre che veglia nella stanza attigua suo figlio. “Padre non vedi che brucio”, così gli dice il bambino apparso nel sogno, mentre nella stanza accanto il suo corpo senza vita sta prendendo realmente fuoco, a causa di una candela caduta. Freud ne aveva fatto un esempio per mostrare come il fuoco fosse incorporato nel sogno per permettere al padre di continuare a dormire, almeno per un po’. Lacan, citato dall’Autrice, non si lascia sfuggire un reale più reale che sveglia il padre. Il quale si sveglia in un certo senso per continuare a sognare, per continuare a non fare i conti con quel che si mostra come alterazione traumatica nel sogno. Ciò che non può mostrarsi quindi. Molte delle cose che accadono oggi nel mondo hanno questa struttura.
C’è nel nostro mondo attuale qualcosa di più angosciante rispetto ad una semplice difficoltà. È l’incendio dentro l’incendio, come ad esempio il cambiamento climatico. In un certo senso noi siamo assimilabili a quel padre che continua a svegliarsi per continuare a sfuggire a qualcosa di insopportabile. Non tagliandolo fuori dal tessuto della realtà, ma disconoscendolo. Ovvero facendone qualcosa di non del tutto scomparso. Solo de-realizzato. Noi sappiamo che il cambiamento climatico esiste, eppure…
Il disconoscimento ha questa capacità di rendere ordinario ciò che sarebbe straordinario. Così facendo però disattiva anche la possibilità di operare una trasformazione.
Anche il catastrofismo che dilaga ovunque fa parte del meccanismo del disconoscimento. Come fosse un altro schermo che ci protegge.
Zupančič dedica una buona parte del libro alle riflessioni di Octave Mannoni (1969). In Clefs pour l’imaginaire ou l’Autre Scène, l’analista della Société psychanalytique de Paris considera il disconoscimento non solo come un meccanismo perverso, ma come qualcosa di proprio anche nei quadri nevrotici. Il perverso è come se pensasse “lo so bene… ma comunque”. Però è come se la seconda parte di questa frase non la dicesse, in questo modo rendendo il “ma comunque” un feticcio. Quindi il feticista si ritrova preso in un’operazione che funziona benissimo. O almeno è efficace. Il nevrotico dal canto suo parla sempre troppo e quel “ma comunque” lo dice.
Il disconoscimento ha a che fare con la castrazione. Il feticcio tappa quella mancanza che è aperta dalla castrazione. Una credenza può essere un feticcio.
Parlare di credenze oggi vuol dire mettere in questione l’autorità. Non sappiamo infatti più cosa sia un fatto e cosa no. Sembra tutto nell’ordine di una credenza: quindi tutto è un feticcio.
Mentre la scienza metodologicamente rifiuta ogni autorità e riconosce solo il dubbio e la ricerca, dal punto di vista sociale funziona diversamente. L’autorità sociale della scienza è simile al concetto tradizionale di autorità. Un po’ gli devi dare credito. Dipende dalla nostra fiducia, insomma. Il venire meno di questa fiducia, pensiamo alla questione dei vaccini e alle posizioni no-vax, non è un ritorno a tempi pre-moderni, ma fa parte della stessa scienza, che paradossalmente a partire da Cartesio ha fondato sul dubbio la propria certezza. Cosa altro è se non un dubitare. I contestatori sono sempre scettici.
Nel contesto sociale la scienza perde autorità perché fa parte di un ordine mondiale capitalistico. Quante volte ciascuno di noi ha sentito qualcun altro dire che il cambiamento climatico non esiste ed è solo una questione di interessi finanziari. La critica alla scienza sembrerebbe così funzionare disconoscendo la realtà traumatica del capitalismo. Per l’Autrice, diciamo che il cambiamento climatico non esiste per non dire che il capitalismo è il male. Il punto è quella brutta sensazione che dal capitalismo non si esce. Come non si esce dalla metafisica, dal linguaggio e dalla moda… Non accettare le verità scientifiche è una forma di disconoscimento della realtà traumatica del capitalismo. Perché il vero trauma è che non c’è via d’uscita. Come nell’incubo.
L’incubo sarebbe: “non vedi che brucio” e non riuscirsi a svegliare. Non sembra già così inquietante quel bruciare se pensiamo agli incendi estivi?
Ancora stiamo parlando di disconoscimento però e non di negazione. Disconoscere il cambiamento climatico vuol dire sapere che c’è ma comunque fare finta di nulla. La negazione è conseguenza del disconoscimento di questa realtà traumatica. Della dimensione senza via d’uscita, impersonale, come una sorta di critica per delega.
A farne le spese è il sempre presente Grande Altro. Qui l’Altro non è il linguaggio o, nella versione diminuita, il contesto sociale. È piuttosto una sorta di garante a cui, quando si è nel disconoscimento, si nega credibilità. Oggi questo Altro che ha perso la funzione di garante è dunque più simile ad un grande ingannatore. Come non pensare allora a Cartesio e al suo Onnipotente ingannatore. In Cartesio sembrano coincidere la possibilità che ci sia una scienza moderna e al tempo stesso la sfiducia nell’Altro. Come queste due dimensioni sono connesse è indagato dalla filosofa di Lubiana. A noi interessa qui il discorso della psicoanalisi, anch’essa pienamente figlia delle meditazioni di Cartesio.
Dal canto suo la psicoanalisi si occupa di ciò che è escluso dalla conoscenza. Della dimensione traumatica della conoscenza. L’inconscio è una forma di conoscenza che non sa di se stessa. Questa definizione deriva dalla consapevolezza di una dimensione affettiva, traumatica quindi, del soggetto cartesiano che è pur sempre il soggetto dell’inconscio. Senza la divisione tra sapere ed essere difficilmente ci sarebbe stata una psicoanalisi. Ed a Lacan non sarebbe venuto quel bel gioco di parole per cui penso dove non sono e sono dove non penso. In questione è il prezzo della certezza: la discontinuità tra essere e sapere. La struttura del Cogito per Lacan è alienazione, un aut aut, o penso o sono.
Però a ben vedere nel disconoscimento la scissione avviene nella conoscenza stessa, non tra essere e sapere. È come se il Cogito fosse una sorta di performance dell’enunciazione: Io penso, Io sono. Al di fuori della performance bisogna fare affidamento ad un garante che tenga insieme i due momenti. L’interazione essere/pensiero di per sé è vuota. E un garante serve ad esempio perché ci sia qualcosa come un significato.
E visto che se mi sposto sul pensiero, nel senso del luogo del significato, perdo anche la certezza immediata del mio essere, allora il garante è il luogo del significato che mi precede e che determina cosa sono. Motivo per cui solitamente diciamo che l’umano in quanto tale esiste solo in un registro simbolico. La psicoanalisi è dentro tutto ciò fin sopra i capelli.
La scissione della conoscenza è già da sempre una consapevolezza della scissione essere/pensiero, operata dal Cogito.
Se propendiamo per la certezza dell’essere dobbiamo pur dire che questo essere diventa tale solo nel gesto di espellersi fuori dai pensieri. I pensieri rimangono fuori dall’essere e cosa altro è questo se non la nascita logica dell’inconscio? L’inconscio non è repressione di qualcosa, ma qualcosa che resta fuori. Taglio dell’essere e del pensiero. La parte tagliata non scompare. È un non-essere che ex-siste.
Che ex-sista o in-sista è un altro grande problema che non è il caso di affrontare qui e che riguarda l’impostazione hegeliana di Zupančič che rifiuta ogni riferimento all’immanenza.
Siamo comunque completamente d’accordo quando la filosofa considera l’inconscio non come un contenitore di pensieri non pensati ma piuttosto come un processo del pensare, per dirla con Bion, che ha più a che fare con una presenza spettrale (per dirla con Derrida). L’inconscio è un’attività.
Un’attività, aggiungiamo noi, che quando la si dica, non può che trasformarsi in una scena.
Questo ci porta a pensare che l’inconscio sia inumano, non abbia cioè a che fare con l’universale uomo (con il concetto di Uomo, con il nome “uomo”), ma sia piuttosto impersonale. Non c’è una scena a queste altezze, ma un pensare che continua e fa sì che accadano cose inaspettate. Il sogno allora non è contenitore di verità più profonde ma la certezza che il pensare continua anche lì dove non sono. Vedete come la psicoanalisi prenda vita da questa scissione operata dal Cogito, rovesciandola però.
La psicoanalisi come dispositivo propone allora non di affidarsi a questo Altro ma ai pensieri “incerti”, “insaturi”, come piace dire agli psicoanalisti. Lavora con le scissioni della conoscenza e non con il non-essere. Non è una mistica.
Torniamo dopo questa digressione alla complicità tra le teorie del complotto e il mainstream di molte élite oggi al potere, pensiamo in generale a tutte le scelte che implicitamente il capitalismo globale sta mettendo in atto al di là dei buoni propositi sul clima, sui flussi migratori e sui conflitti internazionali…
Il mainstream si basa sul disconoscimento mentre le teorie del complotto sulla negazione. Al livello sociale c’è una dialettica tra interessi di queste élite e le teorie del complotto. Andiamo allora subito al punto: le teorie del complotto sono una sorta di sintomo dell’inconscio delle élite razionali. Qui sarebbe interessante e doveroso aggiungere che la possibilità di questo discorso, ovvero pensare ad un inconscio di tutto un sistema sociale, si fonda proprio sulla sostanziale impersonalità dell’inconscio.
Le teorie del complotto sono l’inconscio grottesco delle élite dominanti… Le élite conoscono le questioni legate al cambiamento climatico. Ma continuano come se non ci credessero davvero. Disconoscono la scienza a questo livello. La loro convinzione inconscia non è diversa dalla negazione, propria del complottismo. Al tempo stesso le teorie folli servono alle élite razionali per contrapporsi ad esse, negando con la follia la loro stessa follia e affermando con ciò la propria razionalità.
L’ingannatore onnipotente in un certo senso è una figura comune ad entrambi, élite e follia. L’ingannatore a sua volta rimanda al sentimento di essere noi un giocattolo nelle mani dell’Altro, un oggetto del suo godimento. Ciò provoca una sorta di insurrezione verso di esso e la denuncia dei suoi piani malvagi.
In questo discorso c’è un lato di verità e uno di godimento. Per noi contemporanei sembra che l’Altro sia ossessionato da noi. Il punto è che il tardo capitalismo ha la forma di una enorme ricchezza accumulata in mano a pochi e una sostanziale esclusione di molti da qualsiasi influenza sul sistema. Sentirsi in balia è il minimo.
Le teorie del complotto dal canto loro si configurano come una sorta di malattia del nostro tempo, perché la sofferenza, seguendo la lezione di Freud, ha sempre un versante sociale, in quanto resistenza al godimento dell’Altro. Le fantasie complottiste a loro volta ritrovano una dimensione propria di godimento. Masochistico?
Probabilmente sì, se pensiamo che tutto sommato il complottista ha bisogno di questo Altro. In una teoria del complotto, quelle dell’uno per cento dei ricchi, dei vaccini, della terra piatta, del QAnon, secondo cui esisterebbe un’ipotetica trama segreta organizzata da un presunto Deep State (identificabile in alcuni poteri occulti) che avrebbe agito contro il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, di “loro” che a qualche livello ci ingannano, ritroviamo un Altro sempre in ottima forma. Soprattutto quelle teorie ne preservano l’unità di base, in un momento storico nel quale questo Altro sembra invece frazionato, relativizzato, fluidificato in mille rivoli diversi. Queste stesse teorie sono un contrappunto identitario fortissimo proprio nel momento in cui rafforzano lo stato di salute di questo Altro.
Un grande Altro che non manca di nulla.
L’Altro così definito garantisce anche il mio essere, proprio perché vuole ingannarmi. Non sono più incerto nel mio essere se vuole ingannarmi. Pensiamo a come sono importanti queste teorie per tutti quegli spazi sociali nei quali l’incertezza di esistere, di essere socialmente e politicamente rappresentati trova invece una tragica irrilevanza sulla scena pubblica.
Se l’Altro è ossessionato da me, io esisto. Subisco l’inganno, dunque sono… variante attuale del Cogito in una versione secondo noi più spaventata.
Il problema della conoscenza, fondamentale per Cartesio, come si sarà intuito si ritrae sullo sfondo. In ultima analisi viene in mente che Matrix, il film che, se vogliamo, inaugura questa idea di Altro ingannatore, era ancora molto “di sinistra”. Esitava in una ribellione, nella lotta con l’Altro. Mentre qui non c’è nessun interesse a verificare “Matrix”, il contenuto del complotto non ha nessuna necessità di essere verificato, nessuno si sveglia come Neo. La teoria si regge tutta sull’ingannatore e se fosse verificata, come in un circolo vizioso, non ci sarebbe la teoria stessa, cioè verrebbe meno l’ingannatore.
Il punto è che il tipo di conoscenza messa in gioco dalle teorie del complotto assomiglia ad una oggettivazione dell’inconscio. Una conoscenza che non conosce se stessa, trovata all’esterno ed impersonale. Proprio come l’inconscio. Chi accede a questa dimensione “paranoica” e di negazione è come se si rendesse conto che già sapeva tutto ma senza conoscerlo. “L’ho sempre saputo!”
Come fosse un inconscio oggettivato che fluttua nello spazio sociale.
Spazio sociale che ormai si presenta come pieno di feticci, che mettono in luce la nostra perversione “ordinaria” basata sul disconoscimento. Un disconoscimento perverso come fenomeno di massa.
Per contrastare tutto ciò, di solito, si incoraggiano livelli individuali di disconoscimento. Tale soluzione forse funzionerebbe in un ambiente sociale stabile. Una classe media numerosa e benestante. Ma tutto sembra suggerire che si va in un’altra direzione. Verso una crisi continua ed un mondo fuori dai cardini.
Un paradigma meno nevrotico e molto più vicino alla perversione o alla psicosi. Feticismo e paranoia.
Per la Zupančič tutto ciò ci spinge ad andare alla ricerca di questi feticci per uscire dall’angoscia di castrazione.
Il finale del libro è particolarmente hegeliano: ciò che viene rimosso è la rimozione stessa ovvero la negatività. Cosa altro è questa negatività se non ancora la cara vecchia nevrosi? Allora la soluzione, una possibile soluzione sarebbe quella di re-introdurre la negatività nell’immediatezza, la nemica assoluta. Finale che appare più convincente quando l’Autrice, tornando al sogno del babbo col bimbo che brucia, auspica che sia possibile seguire il trauma anche da svegli, senza voler tornare ad evitare l’irriducibilità del trauma.
“Disconoscimento” è un libro da leggere, chiuso il quale ci viene un sospetto. Forse anche due o tre.
Crediamo che la questione del negativo, o della rimozione in termini psicoanalitici, non sia così immediata. Intanto perché ciò che è rimosso è comunque rappresentabile, mentre è proprio l’irrappresentabile dell’affetto a muovere l’economia psichica. La destinazione dialettica della rimozione, inoltre, sembra metterla al riparo dentro una neutralità che la fa apparentemente coincidere con il processo stesso. Certo la psiche rimuove ma questa rimozione-negatività non è mai fuori dalla politica. Ci viene il dubbio che ciò che viene rimosso faccia parte delle richieste della civiltà e che forse in questo periodo tutti e tutte risentiamo di una profonda mutazione antropologica… il non sapere dove ci stia portando è un altro discorso.
La rimozione però sicuramente decide le sorti di quelle strutture psicopatologiche da cui deriva anche la perversione. La perversione, come in parte anche la psicosi, possono diventare nuovi modelli prendendo il posto della cara vecchia “hegeliana” nevrosi? Questo è un tema molto discusso, in ambito culturale almeno.
Il problema con la rimozione, concepita in termini dialettici, è che nella clinica i conti non tornano. Si rischia, a vederla così, di sottoporre tutto al buon funzionamento della sublimazione, della rappresentazione o peggio ancora dello sviluppo. Mentre sembrerebbe più utile considerare oggi, come d’altronde lo stesso Freud in alcuni suoi passaggi ci ha insegnato, che non esiste nessuna negazione e ciò che viene negato, la parte maledetta, l’affetto “slegato”, lavora lo psichico tanto quanto ciò che ci sembra “dialetticamente” legato.
Inoltre non sarebbe possibile considerare le teorie del complotto così come ogni altra follia presente sulla scena sociale, come costrutti, tentativi di dire le spinte destabilizzanti “bloccandole” inevitabilmente? Non sarebbe il caso invece di riportarle a dei fantasmi collettivi che piuttosto che esprimere la verità di qualcosa (il complottismo come verità inconscia del razionalismo) delirano secondo i montaggi di una cartografia capitalistica che può essere tanto rivoluzionaria quanto paranoica e dunque fascisteggiante. Una declinazione del fantasma capitalistico in questo caso.
E se l’inconscio è un’attività, come ben intuisce Zupančič, allora la questione sarà l’effetto.
Certo è che se l’effetto è ancora una volta un ritorno alla metafisica della mancanza siamo sempre all’interno di un’operazione del potere per controllare qualcosa.
Il grande valore invece della riflessione della filosofa di Lubiana sta nell’intuire tutta una dimensione impersonale e dunque sociale e collettiva dell’inconscio. Qualcosa che anche la psicoanalisi dovrebbe imparare a fare. Zupančič ci ricorda come ancora la psicoanalisi ha una portata ermeneutica importante per comprendere il piano sociale.
Le riflessioni svolte in “Disconoscimento” sono più che condivisibili. La necessità di una negatività che rimetta in moto un motore dialettico, con le sue lotte e i suoi conflitti ci sembra però esprimere anch’essa la nostalgia di un centro che oggi tutto sommato è bene che rimanga delocalizzato, frammentato, nomade in una parola. Fantasma nomade del capitalismo con ben altri effetti inconsci.
Alenka Zupančič. Disconoscimento. Meltemi: Sesto San Giovanni, 2024.
Bibliografia
Descartes R (1637). Discorso sul metodo. Roma: Feltrinelli, 2012.
Freud S (1899). Interpretazione dei sogni. Bollati Boringhieri: Torino, 2019.
Mannoni O. (1969) Clefs pour l’imaginaire ou l’Autre Scène,