Discende già la notte;
Albergo
M’è l’ombra d’un ciliegio,
Ed oste
Un fiore.
Taira no Tadanori (1)
Il sentimento di solidarietà verso il Giappone colpito da immane catastrofe (2) può tradursi nel proposito di una maggiore conoscenza, nell’idea di imparare qualcosa da quelle persone che abbiamo visto prendere educatamente d’assalto le nostre città d’arte guidate da piccole signore con foulard di cellophane e ombrellino levato e che ora vediamo in ginocchio piangere composte sui neri detriti del proprio paese.
Qualcuno avrà tirato giù dalla libreria “Il crisantemo e la spada” dell’antroploga Ruth Benedict. Nel 1944 il Servizio Informazioni Militari del governo degli Stati Uniti diede alla Benedict il compito di studiare i modi di pensare e le reazioni emotive del popolo giapponese. Come si legge nel primo capitolo “La guerra nel Pacifico fu qualche cosa di più di una serie di sbarchi sulle spiagge delle isole oceaniche e di un problema di logistica militare di insuperata difficoltà: la questione più difficile rimase quella di comprendere la natura del nostro avversario, perché solo attraverso la conoscenza delle sue abitudini potevamo essere in grado di affrontarlo con successo” (Benedict, 1946, 9). Oggi, mossi da ben altra intenzione, potremmo dire che “solo conoscendo le sue abitudini” potremmo essere in grado di “aiutarlo” con qualche speranza di successo.
Ma capire i Giapponesi non è impresa facile: i Giapponesi ci sembrano diversi. E’ la prima cosa che si legge in un libro sul Giappone scritto da un occidentale: “Fra tutti i nemici che gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare in una guerra di vaste dimensioni, senza dubbio i Giapponesi sono stati i più diversi da noi” (Benedict, 1946, 9). Più diversi dei Sioux? Più degli Esquimesi? Dei Bantu? Parrebbe di sì. Come nota Giorgio Amitrano, l’esotismo è “l’unico atteggiamento che l’Occidente abbia sempre coltivato con coerenza nei confronti del Giappone” (Amitrano, 2000, 516). Forse si potrebbe dire che mentre la diversità dei Bantu viene data per scontata, la diversità dei Giapponesi crea un effetto perturbante – quello che poi ci porta a insistere sulla differenza – in quanto arriva a scardinare la superficiale impressione di familiarità. Nota Fosco Maraini che, visitando l’arcipelago e notando i segni di somiglianza con l’Occidente nell’abbigliamento, nella casa, nel mangiare, nel lavoro, nei giochi, nelle abitudini più comuni del giorno e della notte, il viaggiatore è portato a concludere: “Ma allora sono come noi!”. Nemmeno per sogno, smentisce Maraini, “Sono diversissimi”. Il fatto è che siamo portati a scambiare la modernizzazione con l’occidentalizzazione. Dunque, insegna in “Ore giapponesi” questo straordinario scrittore, la prima regola è: “Non si scambi modernizzazione per occidentalizzazione” (Maraini, 2000, 19). Sotto Prada, resiste il kimono.
“Ore giapponesi” è un grande libro. Uscito nel 1956, è stato ripubblicato nel 2000: alcuni capitoli sono seguiti da una rilettura dell’autore, a circa mezzo secolo di distanza. Molte cose sono cambiate, le città sono cresciute a dismisura a detrimento del paesaggio, l’economia è florida. Quale è la formula della miscela propulsiva che ha impresso alla modernizzazione del Giappone un ritmo tanto accelerato? Così la riassume Fosco Maraini: “Un culto della natura che prepara ad un’accettazione entusiasta della scienza e della tecnologia, un culto del sapere che spinge ad informarsi sempre ed ovunque di ogni cosa, che fa per di più sopportare un sistema scolastico crudele, spietato, ma d’innegabile efficacia, un culto del gruppo e della comunità che appare sulla scena al momento giusto della storia, infine un’etica laica, indipendente da fedi religiose, che assicura stabilità politica e sicurezza nell’esistenza giornaliera” (Maraini, 2000, 36).
Sono tante le cose che si imparano sul Giappone leggendo Maraini – bisognerebbe leggere anche la sua autobiografia, “Case, amori, universi”.
Per esempio il fatto che i Giapponesi hanno “il gruppo nel sangue”. Hanno ereditato dal confucianesimo un senso vivissimo dello stato e dell’autorità che si unisce a un’accettazione della società come organismo minutamente organizzato, dove ciascuno ha il suo posto (mibun). La conoscenza dell’esatta collocazione dell’altro rispetto alla propria è indispensabile per orientarsi nella relazione: i giapponesi rifuggono gli incontri casuali, in patria e ancora di più all’estero: “Per stabilire un qualche rapporto occorre presentarsi, mostrare l’uno all’altro con tanto di meishi (biglietto da visita) chi si è, dove si lavora, il come, il quando, il perché di tante cose e solo allora, stabilita una possibilità di armonia gerarchica, si può procedere al tentativo di gettare ponti, di fraternizzare” (Maraini, 2000, 32).
Sempre dal confucianesimo deriva un principio riassumibile in quattro parole: “il potere ai talenti”: non sempre seguito fedelmente nei secoli, anzi attaccato da aristocrazie, favoritismi, mafie di ogni genere, ha resistito tuttavia come “una bandiera strappata ma non ammainata”. Nel Giappone di oggi il sistema dei talenti può dirsi realmente imparziale e proprio per questo, nota Maraini, risulta spietato e ferocemente elitario: “La competizione è tale che si può dire abbia inizio dal giardino d’infanzia; i genitori ambiziosi debbono sceglierlo bene, in modo che indirizzi i figli a elementari di prestigio, a medie ben note, conducendoli di prova in prova a quel traguardo supremo della vita che è l’esame di ammissione all’Università” (Maraini, 2000, 33). In vicinanza di questo esame, i suicidi si moltiplicano. Gli adolescenti giapponesi, disciplinati e studiosi, cadono come fiori di ciliegio.
Un’ultima notazione che voglio ricordare riguarda la “civiltà del legno”: argomento che i fatti recenti pongono purtroppo in primo piano. Per il timore costante dei terremoti e dei tifoni, per la ricchezza delle foreste, per la facilità della messa in opera, i giapponesi hanno da sempre costruito in legno, coprendo i loro edifici di paglia, erbe palustri o tegole di cotto, dando vita a una millenaria civiltà del legno: “Si è venuta perciò formando una mentalità, una psicologia, un pensiero del legno; una tradizione calata nei cuori e nei meandri della testa che non è certo facile superare nel corso di poche generazioni. Qual è la caratteristica principale del legno, della paglia, della carta, materie usualmente impiegate nell’architettura isolana? La deperibilità, la fragilità! Incendi, tifoni, trombe d’aria, alluvioni, terremoti, l’invecchiamento stesso delle sostanze richiedono ristrutturazioni continue” (Maraini, 2000, 63). Sotto l’impero di una psicologia del legno e sotto l’influsso del Buddismo che prevede la cremazione dei corpi e insiste sull’inanità del mondo sensibile, l’impermanenza fatale di ogni cosa, le città giapponesi sono “entità effimere, transitorie, continuamente rinnovabili”. Maraini costruisce uno specchietto dove mette a confronto le città occidentali tradizionali con le città giapponesi tradizionali: le prime fatte di pietra, marmi, mattoni e caratterizzate dalle piazze; le seconde fatte di legno, paglia, carta o comunque di materiali leggeri e flessibili e caratterizzate dalle vie. Se quella occidentale è una città-cosa, inamovibile e perenne, quella giapponese è una città-fluido, “accampamento sulle rive del tempo” (Maraini, 2000, 64).
Se cercate l’incanto, leggete Maraini. Se cercate il disincanto, leggete Claudio Giunta, “Il paese più stupido del mondo”. Lo leggerete tutto di un fiato, ne sono certa.
Giunta scrive sull’esperienza del Giappone fatta da un italiano: lui stesso, professore di Letteratura Italiana nell’Università di Trento, che trascorre due mesi in Giappone dove è stato invitato a insegnare nella “prestigiosa” The University of Tokyo. Ha accolto con piacere l’invito: quello che cerca è “una bella civiltà repressiva e funzionante”, l’opposto, cioè, della nostra.
Se visitate il Giappone da turisti, per due, tre settimane, l’esperienza, assicura il nostro autore, sarà perfetta:
“Perché avrete il piacere di vedere e usare un paese pulito come uno specchio in cui tutto, tutto quello che voi vedrete o di cui farete esperienza funziona alla perfezione, in cui le persone sono sempre, sempre, sempre gentilissime, e vi trattano come se fossero veramente felici che voi siate passati di lì a trovarle, un paese in cui potrete mangiare un pasto sano, buono, nutriente al prezzo di sette-otto euro e un pasto eccellente al prezzo di quindici-venti, in cui potrete, mettiamo, affittare una bicicletta perfettamente funzionante (faretto, cavalletto, catena compresa e che non la dovete pagare a parte) al prezzo di quattro euro giornalieri, e la bicicletta non vi verrà rubata…e dove non vi perderete mai in metropolitana, e se vi perderete (ma non vi perderete) ci sarà sempre qualcuno che vi aiuterà sorridendo in un inglese incerto ma con gesti eloquenti, e i treni della metropolitana passeranno dalle cinque del mattino a mezzanotte ogni quattro minuti e saranno puliti, confortevoli, coibentati, e in ogni stazione ci saranno gabinetti puliti e gratuiti: gabinetti pubblici, quelle cose che i turisti cercano inutilmente nelle città italiane” (Giunta, 2010,10).
Se vi fermerete più a lungo, comincerete a porvi domande, ma una è fondamentale:
“Qual è il costo? Qual è il rovescio di questa perfezione? Perché non può essere tutto così pulito, rodato, funzionante, non si può essere così civili e, insieme, felici. Queste cose si pagano, no? O Freud stava scherzando? E allora chi le paga? E come?” (Giunta, 2010,19).
Assieme alla gentilezza, alla squisita educazione, alla disciplina, all’autocontrollo, all’ordine, alla strenua applicazione al lavoro e allo studio, al diffuso amore per la cultura, altre cose colpiscono Giunta: la passione per la fioritura dei ciliegi, il momento più atteso dell’anno; l’ossessione per la sicurezza; la mania dei gadget; i cani vestiti di tutto punto. Se leggerete questo libro, sentirete la pesantezza della vita in Giappone, la sentirete tutta, e sarete portati a pensare che la sopravvivenza dell’infantile nell’anima e nella cultura giapponese non è solo il tributo da pagare a una civiltà repressiva, dove quasi tutto viene dall’alto (non per nulla Maraini sottolinea l’assenza della piazza, dell’agorà, nelle città giapponesi) ma è anche una pausa di sospensione, una tregua. E’ un infantile che non chiede libertà, ma riposo, oblio : “La vita adulta è troppo faticosa per viverla tutta quanta da adulti, così il tempo libero e i week-end uno li passa a consolare l’adolescente che ha dentro” (Giunta, 2010, 87).
Fra l’insostenibile pesantezza della vita giapponese e l’insostenibile leggerezza della vita italiana forse la civiltà ideale andrebbe cercata “da qualche parte, vicino al mezzo”. Può darsi.
A proposito di confronti, nel libro si ricorda un episodio. Nell’estate 2008 una ragazzina giapponese aveva scritto a pennarello il suo nome sui mattoni all’interno del campanile di Giotto. La cosa poi andò come segue: “Protesta del Comune di Firenze, ritrovamento della ragazzina in Giappone, viaggio-deportazione della ragazzina a Firenze, scuse della ragazzina di fronte a una rappresentanza del Comune di Firenze, lacrime di vergogna della ragazzina, soddisfazione di tutti per questa lezione di buone maniere” (Giunta, 2010, 61).
L’episodio, allora, mi aveva colpito. Sappiamo tutti benissimo che terribile iattura siano per città e cittadini le gite scolastiche, al confronto delle quali impallidiscono invasioni barbariche di antica memoria. Finalmente una punizione esemplare: ma perché proprio a spese dello straniero? In un paese, l’Italia, dove la maleducazione regna sovrana? Dove, tanto per dirne una, è invalsa fra i giovani l’abitudine di festeggiare la chiusura della scuola per le vacanze estive con il lancio di dozzine di uova e sacchi di farina?
Oggi mi chiedo: sarà viva quella ragazzina che abbiamo trattato con tanta severità per essere uscita dal gruppo, come Jack Frusciante, per avere scritto il suo nome invece che scattare l’ennesima foto, in uno slancio di entusiasmo, in un impeto di autoaffermazione e come in un lampo di vertiginosa apertura alla trasgressione di una ferrea disciplina secolare? Per avere violato l’alluce di un monumento manifestandosi finalmente non “diversa” ma uguale agli adolescenti di mezzo mondo? Dove sarà adesso la sua casa, dove sarà lei, mentre nella luce della sera, al riparo da pennarelli e tsunami, riposa intatto il campanile sotto al quale cazzeggiano i miei figli senza neppure alzare lo sguardo?
Note
1) La poesia (citata in Maraini, 2000, 349) è del guerriero Taira no Tadanori (1144-1184) che la teneva riposta nell’elmo, in un piccolo fascicoletto. Fu trovata dopo la sua morte. L’immagine che appare nel rotante, nota come “La grande onda”, è diventata un simbolo del Giappone. Appartiene alla raccolta di vedute del Monte Fuji che il grande disegnatore Hokusai compose fra il 1826 e il 1833. “La grande onda”, la più celebre di queste vedute, rappresenta la moderna contrapposizione tra forza della natura e fragilità degli umani.
2) Come ha osservato Marco Longo, per il Giappone “Tre volte colpito dalla catastrofe – terremoto, tsunami, disastro nucleare – le conseguenze psicologiche, individuali e sociali, sia a breve che a lungo termine, sono appena immaginabili. Il sommarsi nefasto di questo drammatico triplo stress sembra essere difficilmente sopportabile anche per un popolo ben preparato e molto spesso provato dai terremoti. Ma è lo tsunami in particolare che ha creato terrore, morte e perdite materiali incalcolabili. Intanto la situazione di pericolo nucleare attanaglia l’intero paese dove è ancora viva la memoria di Hiròshima e Nagasaki”.
Bibliografia
Amitrano G. (2000). “Il Giappone alle soglie del Duemila”. In Maraini F., Ore giapponesi, Milano, Corbaccio, 2000.
Benedict R. (1946). Il crisantemo e la spada. Bari, Edizioni Dedalo, 1968.
Giunta C. (2010). Il paese più stupido del mondo. Bologna, Il Mulino.
Maraini F. (1999). Case, amori, universi. Milano, Mondadori.
Maraini F. (2000). Ore giapponesi. Milano, Corbaccio.
stefania nicasi
21 marzo 2011