Luisa L. Zanni, 1995 Gerusalemme
Parole chiave: 7 ottobre, colpa, Freud, Psicoanalisi, Responsabilità
Antonio Alberto Semi
Colpa e responsabilità
Da due-tre mesi, a seguito della guerra Israele-Hamas e delle manifestazioni diffuse di solidarietà nei confronti della popolazione palestinese colpita dai bombardamenti israeliani, mi si sono posti alcuni interrogativi che vorrei ora condividere anche perché non sono di facile risposta.
Esporrò una serie di pensieri miei, di associazioni, alla ricerca di una logica che – forse – è impossibile cercare di stabilire semplicemente. La complessità.
Ho una certa età e quindi mi è stato spontaneo, vedendo e sentendo le notizie dei bombardamenti, ritornare indietro (ricordare, regredire?) in particolare ai bombardamenti a tappeto di Dresda, Amburgo, Berlino, Lipsia verso la fine della seconda guerra mondiale. Anche a quel proposito, le valutazioni etiche e storiche furono molto diverse: ci fu chi criticò aspramente la Royal Air Force (e Churchill, ovviamente) giudicando criminale la devastazione di città intere e della loro popolazione e ci fu per contro chi ritenne che quei bombardamenti fossero necessari per motivi militari (finire più rapidamente la guerra) e civili (stroncare l’adesione della popolazione al regime nazista) o anche etici, considerando colpevoli e punibili i tedeschi nel loro insieme.
L’assalto a Gaza è evidentemente molto diverso, non solo perché conseguente al terribile pogrom del 7 ottobre ma perché le strutture militari di Hamas sono estremamente e volutamente mescolate alle strutture urbane e ai servizi essenziali (ospedali, scuole, edifici religiosi) mentre in Germania, all’epoca, le strutture militari e industriali erano abbastanza distinte da quelle civili. Tuttavia, il problema drammatico che si è subito posto è stato quello delle conseguenze letali sulla popolazione ‘civile’ palestinese. E, a differenza ulteriore dalla situazione bellica di novant’anni fa, nella quale la condanna da parte nazista dei bombardamenti non aveva alcuna eco credibile, nel caso di Gaza la condanna o la deprecazione dei bombardamenti è stata opera di gruppi o paesi in apparenza anche direttamente estranei allo svolgimento dell’intervento bellico. Quanto su questo atteggiamento abbia pesato uno slatentizzato antisemitismo è un altro tema, cui accenno solo e che meriterebbe una precisa disamina, qui impossibile, più avanti forse. Il fatto è, però, che quella condanna c’è stata e c’è tuttora, mentre scrivo. E, contemporaneamente, che c’è stata una reazione di pietà, solidarietà per quella popolazione, vittima dell’azione delle forze armate israeliane. Una popolazione che – si afferma spessissimo – è innocente, tant’è vero che le vittime sono tantissimi bambini e tantissime donne. Notiamo subito che in una guerra nella quale la componente mediatica è fondamentale, i dati sulle “perdite” sono molto dubbi; Tsahal, per esempio, dichiara di aver abbattuto 9000 militanti di Hamas e Hamas dichiara che le vittime sono più di 24000, di cui circa 10000 bambini. Forse si tratta di cifre destinate a provocare la solidarietà; purtroppo, comunque, le vittime vere ci sono ma i dati veri no. E l’enfasi sui bambini morti si collega all’innocenza: la strage degli innocenti (Erode ecc.ecc.).
È a questo punto che mi sono chiesto: ma è davvero innocente la popolazione civile di Gaza? Brutta domanda, vero? Anch’io me lo sono detto. Ma anche qui m’è tornato in mente il termine della seconda guerra mondiale e i bombardamenti sulle città tedesche. Erano innocenti i cittadini civili colpiti? Al primo momento m’è venuto in mente – per rispondermi – il drammatico e commovente colloquio tra Abrahamo e il Signore (Genesi, 18, 17-32 e 19, 1-29) a proposito della distruzione di Sodoma: Abrahamo contratta sul numero di giusti per non colpire i quali il Signore potrebbe risparmiare Sodoma ma, partito da cinquanta e arrivato a dieci, viene invitato a non insistere.
Poi mi son detto che no, il collegamento non era del tutto calzante. Poi ancora mi sono chiesto: ma c’erano, nel 1944-45, i giusti in Germania? E m’è tornato in mente tutto il dibattito – a guerra finita e tra gli intellettuali tedeschi – sull’esilio e sull’esilio interno. C’era chi se n’era andato o aveva dovuto andarsene (tanti, ma di primo acchito penso a Heinrich e Thomas Mann, a Horkheimer, a Adorno, a Simmel, per non parlare dei tanti nostri colleghi) e chi era rimasto (qui, mi viene da pensare a Benn o a Wiechert – forse perché Jünger mi è antipatico, non lo penso come ‘esiliato interno’) cercando in qualche modo di sopravvivere all’interno del regime nazista. Nel dopoguerra, Adorno, dopo una dolorosa riflessione, tornò in Germania. Thomas Mann no, ritornò in Europa ma si stanziò in Svizzera e la sua posizione fu di grande critica verso la categoria di “esilio interno” e di considerazione invece della responsabilità del popolo tedesco nel suo insieme, della Germania in toto.
Già: a questo punto mi si è posto il problema del rapporto tra responsabilità collettiva e responsabilità individuale. Problema difficile, non risolvibile con categorie giuridiche. Anche perché la responsabilità collettiva ha molte facce. Tutti i tedeschi sapevano cos’era il regime nazista anche se forse non tutti sapevano esattamente cosa stesse accadendo nei lager. Erano stati testimoni tuttavia delle violenze urbane, delle proibizioni progressive nei confronti degli oppositori, della scomparsa improvvisa di vicini, conoscenti, perfino amici. E della predicazione nazista. I tedeschi, nella grande maggioranza, avevano accettato il nazismo, molti lo avevano condiviso e qualcuno si era limitato a tenersi da parte. Tra questi, gli intellettuali dell’“esilio interno”. Ma fin qui il rapporto con la responsabilità individuale è relativamente semplice e va dal protagonismo delinquenziale alla complicità manifesta, alla complicità implicita, al nascondimento, al dissenso nascosto. Gradi diversi ma, per così dire, ingredienti dello stesso brodo. Qui, la responsabilità individuale c’è e basta.
Tuttavia, la responsabilità collettiva ha anche un’altra faccia importante, quella della Kultur tedesca. In che misura la Kultur tedesca covava il mostro, come segnalava già Heine nel 1834[1]? Era possibile esserne consapevoli o no? Di più: era possibile tirarsene fuori oppure no? Credo sia a queste domande che rispose Thomas Mann quando, nel giugno 1945 (appena caduta la Germania) in una conferenza alla Library of Congress a Washington[2], affermò che non esistevano due Germanie, una buona e una malvagia e che “a uno spirito nato tedesco non è possibile rinnegare totalmente la Germania cattiva e colpevole” aggiungendo: “io ho tutto dentro di me, ho tutto sperimentato su me medesimo” (Mann, 1947, 378). Aveva, poco prima, parlato della Innerlichkeit tedesca e qui la riprendeva con dolorosa onestà. Ma poneva il problema della colpa collettiva e della possibilità di sentirla come colpa individuale, perfino quando l’orrore e il male erano stati per tempo percepiti e giudicati per tali, perfino quando, eticamente, ne erano state tratte le dolorose conseguenze. Qui Kultur non è solo la cultura intellettuale ma la cultura in senso antropologico di tutto un popolo.
A che livello psichico si pone questo vissuto? In che forma è stato inconscio e poi è divenuto preconscio per poter essere ammesso alla coscienza? E quanto le dinamiche in certa misura impersonali dell’Es hanno cercato di esprimersi – divenendo personali e vettrici di desiderio – per potersi affacciare magari in modo dissimulato all’Io? Oppure: quanto la Kultur di base, la sua stessa esistenza ineludibile, ha consentito di presentare e rappresentare alle sezioni preconsce dell’Io formazioni ideative terribili? Quanto e quale Super-io (anch’esso in parte debitore alla Kultur) ha potuto interagire con l’Io in modo “civile” e quanto no?
E ancora mi si ripropongono quelle domande, ma questa volta rivolte ai palestinesi di Gaza: davvero non sapevate cosa stava preparando Hamas, mentre per anni venivano sventrate le vostre case, i vostri ospedali, le vostre scuole per costruire chilometri e chilometri di tunnel? Sapevate che i fondi enormi che arrivavano da altri paesi arabi sparivano, anziché andare in opere per voi? Avevate notato, credo, la sparizione delle opposizioni ad Hamas, perfino di quelle dell’Autorità Nazionale Palestinese. Sapevate del regime dittatoriale in atto. Non potevate far altro che condividere, partecipare anche obtorto collo, tacere? E come avete ascoltato la propaganda razzista di Hamas, quella che non solo vuole distruggere Israele per fare uno Stato palestinese “dal Giordano al mare” ma vuole “eliminare” gli Ebrei in quanto tali, non solo lì ma in giro per il mondo[3]?
A una responsabilità collettiva, ad una colpa collettiva, corrisponde prima o poi una punizione collettiva. Fenomeno terribile non solo perché comporta innumerevoli vittime ma perché ripropone il dramma della irrilevanza dell’individuo: il quesito di Abrahamo è questo, in fondo. Di fronte alla catastrofe collettiva, prima provocata e poi subita, che fine fa il giusto? Si parla poco dell’esilio volontario di palestinesi in Europa, in Canada, negli Stati Uniti e anch’essi ne parlano poco. Eppure c’è. E forse anche qualcuno di essi si sarà detto, come Thomas Mann, “io ho tutto dentro di me, ho tutto sperimentato su me medesimo”. E coloro i quali sono rimasti lì?
Ecco perché mi sento di dire che l’enfasi sulla innocenza della popolazione palestinese di Gaza mi sembra fuorviante. E che solo tenendo conto dell’intreccio tra responsabilità collettiva e responsabilità individuale, tra colpe collettive e sentimento di colpa individuale è possibile provare anche un sentimento di solidarietà e di pena per le sofferenze attuali di quella popolazione.
Last but not least rimane l’interrogativo relativo al perché un altrettanto forte sentimento di solidarietà e di pena non è stato espresso, qui da noi in Occidente, per le vittime del pogrom agghiacciante del 7 ottobre, per le centinaia di migliaia di persone che hanno perduto casa, lavoro, affetti in Israele. Per essi, valgono gli stessi interrogativi che ho più sopra scritto ma, per noi, per il nostro relativo silenzio, vale il quesito angoscioso circa l’antisemitismo e la sua slatentizzazione in Occidente. Mala tempora currunt e bisogna rendersene conto e farci i conti, non solo fuori ma anche dentro di noi.
[1] Heine H. (1834) Per la storia della religione e della filosofia in Germania. Tr.it. in Heine H. La Germania, Bulzoni, Roma, 1979.
[2] Mann Th. (1945) La Germania e i Tedeschi. Tr.it. in: Mann Th. (1947) Moniti all’Europa. Mondadori, Verona.
[3] Questa domanda ce la dobbiamo porre anche noi occidentali, beninteso, e sulla mailing list della SPI lo ha opportunamente ricordato Marina Montagnini.