Cultura e Società

Chioccia e Tsarkova dipingono il jazz

5/04/16

1) Bill Frisell si affaccia dal suo quadro e anche ti guarda, ma vedi poi che non è vero, ha lo sguardo assente di chi è assorto e concentrato su un suo dentro; non è neppure vero che lui si affaccia, sei tu che lo spii come al di là di una finestra. Ascolto Bill Frisell mentre guardo il suo quadro: musica sottile, frammentata nella sua continuità, un discorso di suoni.

Mi cattura un particolare: la tastiera della sua chitarra. Sembra un costato scoperto, grondante sangue e umori. Sangue e umori che ritornano a distribuirsi sul suo volto, lo intridono e lo sfumano. La chitarra lo duplica e diventa parte del suo corpo, un altro arto, scorticato, un inquietante studio anatomico della chitarra arto.

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Bill Frisell

Il profilo di Thelonious Monk soffia il suo nome, rosso, nel fumo della sigaretta. E’ sparito, restano le mani, ciascuna su una diversa tastiera, la destra bruna, il pesante anello da mignolo la sbilancia, la sinistra è un fantasma di mano, un rettile, forse fermo, forse veloce. La testa è un incendio oltre la testa, la musica si disperde a fiammelle pentecostali, a piccoli rettili, a punti di luce, e popola l’intero spazio, azzurro, a disposizione.

E’ il mio preferito.

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Thelonious Monk

La tromba di Terence Blanchard è una strega, un animale, ha occhi bocca e gambe, è un’aiola. Un’area densa e popolosa transita fronte spazio tromba, verso l’alto.

 

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Terence Blanchard

Scopro a Londra, nel corso della Frieze Art, questi pittori: un’amica ha allestito delle piccole mostre di artisti all’interno di case di vacanza. Vivono in Italia a Orvieto, li si trova nella Bottega di pittura Chioccia-Tsarkova, in via Cozza 1.  Partecipano alle principali manifestazioni jazz in Italia e all’estero e i loro quadri sono ospiti permanenti nelle vetrine del Birdland “The Jazz Corner  of the World” a New York.

Il supporto delle opere è tela bianca o alluminio. I volti assolutamente realistici, icone, sono di Olga Tsarkova, scuola russa; l’“interpretazione” e i colori, solo primari e secondari, sono di Massimo Chioccia.

Inizialmente fui molto colpita dalle realizzazioni su alluminio, mi fecero pensare ad una estensione della materia metallica dello strumento su tutto lo spazio disponibile, ad una riflessione delle vibrazioni sonore strumento spazio, attraverso la luce.

Il colore musica come una colata, un alone pulsante e caldo, o incandescente.

Wayne Shorter, bellissimo nella transizione supporto abito strumento; Lee Konitz e il suo sassofono cancellati da suoni in ebollizione che li intricano.

Wayne Shorter e Lee Konitz

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 Dopo aver scelto le opere che ho raccontato, mi sono accorta di essere stata più attratta da quelle su tela. Ho poi pensato alla dipendenza di questa scelta estetica anche dal fattore tempo, cioè alla tela che rallenta la pennellata, la interrompe e un poco la assorbe, rispetto alla liscia superficie dell’alluminio che chiama il colore rapido, ma anche lo respinge e lo schizza, lo conserva come materia autonoma e non ne stempera la natura vischiosa catturandolo.

Due dimensioni del jazz, la necessaria lavorata frammentazione della melodia di base e la sensorialità avvolgente dell’insieme.

L’ondulante movimento dello swing, nella trasformazione della lunghezza delle note dello standard scelto, cioè della melodia guida, la necessaria scarna ed essenziale traccia cui si appoggia l’improvvisazione e l’ambiente affettivo che si crea diffusamente.

In occasione del Congresso IPA che si tenne a New Orleans nel 2004, un panel fu doverosamente consacrato al jazz (2). In esso Steven Rosenbloom evidenziava tre punti in comune fra jazz e psicoanalisi: la costituzione di una identità attraverso un lavoro disciplinato trasmesso dai maestri; la costruzione di una comunità i cui membri si confrontano fra di loro; la similarità fra l’improvvisazione nel jazz e le libere associazioni.

Questione questa centrale e fondante quest’ultima della improvvisazione perché “L’impegno nelle libere associazioni impone l’improvvisazione come “regola-non regola” al centro della comunicazione verbale del paziente, … crea … un varco nelle consuetudini comunicative correnti e le predispone alla divagazione, alla variazione, alle ripetizioni e al gioco trasformativo della relazione analitica.”(3).

Aggiungerei a questo terzo punto di Rosenbloom inerente le similarità tecniche di queste due discipline alcuni rilievi, l’importanza delle quantità: l’alternarsi di note e pause nel jazz, come di silenzi e parole nel lavoro analitico (4), le variazioni su un medesimo tema, a proposito delle quali, nota Fausto Petrella (5), come accade ad esempio per le composizioni beethoveniane tradotte in italiano come Variazioni su un tema di Diabelli, si tratterebbe invece in tedesco di Veränderungen, cioè ‘bionianamente’ – così lui – di “trasformazioni”. La differenza semantica non è di poco conto relativamente sia alla consistenza del prodotto finito e alla sua relazione con il tema in questione, sia ai processi di legame e slegamento necessari al lavoro psichico del trasformare.

Il procedere del jazz come del lavoro con il paziente in seduta, da uno stimolo, da un tema, e dalla necessità di ‘accordarsi’. Letteralmente e figurativamente: “Dare il la”.

La coincidenza di autore e interprete nella persona del jazzista, nella persona dell’analista, nella persona del paziente.

La necessità del tema condiviso, lo standard, e non solo nella jam session. Per noi analisti i fantasmi originari, l’edipo, e le loro declinazioni in fantasie inconsce.

A tutte queste considerazioni inerenti le coincidenze di jazz e psicoanalisi, potremmo integrare la realizzazione di queste opere in immagine, anch’esse si muovono sulle medesime dimensioni.

Nello stesso panel di New Orleans, cui facevo prima riferimento, Sergio Delgado aggiungeva una considerazione importante nella prospettiva degli elementi comuni fra jazz immagine e psicoanalisi: “l’acquisizione della cultura è basata sullo spazio che separa i bambino dalla madre, spazio che il bambino cerca di neutralizzare utilizzando i suoni, il contatto e “l’uso della musica, perché siamo portati a fissare (freeze) immagini visive a certe melodie”.”

Come quindi se queste opere sulle quali stiamo riflettendo esprimessero anche proprio una necessità di rappresentazione appunto in immagine, transmodale quindi, del riempimento eliminazione dello spazio che nella nostra inevitabile, umana individuante solitudine ci separa dall’essere umano prossimo, dal Nebenmensch.

Concluderei con un’altra considerazione di Fausto Petrella (6), quella relativa alla “coniugazione del calcolo alla spontaneità e alla grazia, qualcosa che Kleist aveva descritto genialmente nel suo Teatro delle marionette come un paradosso dell’artista che va accettato e non disturbato da operazioni riflessive inopportune.” Inquietante testo a me caro, questo di Kleist, perché testimonianza importante anche del rischio di errori ai quali noi analisti, in modo, in questo caso molto differente dagli artisti, siamo continuamente esposti, nella coniugazione di calcolo e spontaneità. Intendo con questo lo swing fra l’affidarsi alla fertilità delle proprie intuizioni, improvvisazioni nel dire l’attimo dell’affetto o delle resistenze del paziente, e l’insidioso rischio del cortocircuito, del controagito.

Le composizioni jazz non hanno mai una reale conclusione, sfumano…

NOTE

1)Scegliete un brano da ascoltare per leggere questa recensione. Nello scriverla mi ha accompagnata soprattutto Terence Blanchard.

2) Raeburn B.B. (2004) Psychoanalysis and jazz. Int.J. Psycho-Anal. , 85:995-997

3) Petrella. F. (2014) Impromptus sull’improvvisazione: in musica, nel lavoro clinico. Rivista di Psicoanalisi, LX, 2, 359-372.

4) De Mari M. (2015) Da qualche parte tra jazz e psicoanalisi. In De Mari M., Carnevali C.,  Saponi S. Tra psicoanalisi e musica. Alpes, Roma

5)Petrella F. (2014) ibid.

6) Petrella F. (2011) La mente come teatro. Psicoanalisi, mito e rappresentazione. Milano, Edi-ermes

 

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