*Joan Mirò
Riccardo Romano
SACRO è LO STRANIERO
Dalla consapevolezza di trovarci immersi in un fenomeno epocale di immigrazione di massa, stimolati dall’ascolto delle tragedie greche sullo straniero, educati dai miti, cresciuti nel pensiero di Freud, penso che dobbiamo dedicare una importante riflessione al tema della sacralità dello straniero.
La migrazione delle genti è un fenomeno naturale della dinamica dei popoli della terra, non determinata se non in casi eccezionali dalla cultura, come l’esodo degli ebrei o il colonialismo; anche se è uno di quei fenomeni che attivano le reazioni culturali degli uomini soprattutto con le leggi, come se un fenomeno naturale possa essere governato dalle leggi degli uomini. Ciclicamente la migrazione si è presentata nella storia dell’umanità interessando ogni parte geografica. Questo fenomeno oggi è trattato, dai popoli che subiscono l’immigrazione, con il meccanismo mentale caratteristico di questo periodo, cioè con l’impensabilità. Non si cerca di capire perché, si presume di sapere. Non si studiano i modi più opportuni di reagire a tutti i livelli: psicologicamente e praticamente, moralmente e tecnicamente ad un fenomeno naturale inarrestabile. In un altro lavoro ho già descritto il ruolo dell’impensabilità nelle situazioni di rischio di catastrofi. L’impensabilità funziona in un modo particolare. Ad esempio durante la guerra fredda, sebbene ci fossero tutti i preparativi, era impensabile che scoppiasse una guerra atomica. Prima di un terremoto, sebbene ci siano i segni, è impensabile che si verifichi un sisma catastrofico proprio qui; sebbene io fumi è impensabile che venga un cancro proprio a me; sebbene arrivino migliaia di persone disperate disposte a rischiare di morire è impensabile che ne arrivino milioni perché li rimanderemo indietro.
È lo stesso metodo dell’impensabilità che si applica a quei fenomeni che dovrebbero causare un ridimensionamento dell’arroganza di ritenere di possedere i mezzi per controllare tutto. Quando poi arriva la catastrofe ci si meraviglia e ci si arrabbia per il fallimento della capacità di pensare e prevedere, addebitato però a qualcuno o qualcosa come il destino, piuttosto che riconoscere la propria impotenza di fronte a fenomeni naturali. Dimostrando soltanto una grande chiusura mentale per di più negata.
I popoli antichi in ogni parte del mondo reagivano a questo fenomeno della migrazione delle genti con una grande capacità creativa. Essi consideravano lo straniero che giungeva nelle loro terre, sacro. Cioè reagivano in un modo che consentiva loro, come cercherò di dimostrare, l’elaborazione psichica ed emotiva del fenomeno. Lo statuto della sacralità dello straniero, con la sua complessità, consente di contenere e veicolare e pubblic/are, molti pensieri contraddittori ed emozioni ambivalenti, quindi attivando una possibilità dialettica di elaborazione. Intanto il concetto di sacro indica una condizione del tutto particolare, in quanto collegato al tabuico è contemporaneamente il venerabile e l’orrifico. Il sacro indica anche una condizione di eccezionalità e di estraneità al flusso normale degli eventi. Lo straniero proprio in quanto viene da fuori, può essere il distruttore o il salvatore, comunque apporterà un cambiamento a tutti i livelli: dalla condivisione degli spazi, alla contaminazione delle culture, dall’ibridazione delle lingue alla mescolanza dei geni. Questa è la ragione principale del rifiuto dello straniero: la resistenza al cambiamento, la conservazione dell’attuale consolidato. Questa reazione, in fondo controproducente, in quanto autolesionista, è la stessa resistenza che noi analisti ritroviamo a livello del singolo o del gruppo, di chi sta male ma non vuole o meglio ha paura di cambiare rendendo difficile se non impossibile il miglioramento e il benessere. Comunque, più che giudicare dobbiamo capire l’angoscia profonda che può determinare l’arrivo dello straniero. Lo straniero è l’estraneo, è il non familiare che entra in casa tua, è il perturbante. Per capire meglio i sentimenti che stanno alla base della cultura della sacralità dello straniero da una parte, o il suo rifiuto dall’altra, è utile seguire l’analisi che Freud fa del concetto di perturbante: unheimlich in tedesco. Heimlich significa familiare, consueto, conosciuto. Unheimlich, perturbante dovrebbe significare all’opposto: non familiare, estraneo, sconosciuto, straniero, ma la particolarità è che i due termini finiscono per coincidere. Scrive Freud:”Possiamo esplorare il significato che l’evoluzione della lingua ha sedimentato nel termine “perturbante”, oppure collezionare ciò che, riferito a persone e a cose, a impressioni sensoriali, a esperienze e situazioni, evoca in noi il senso del perturbante, per dedurre poi il carattere nascosto del perturbante…Entrambe le strade portano allo stesso risultato: il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. Come questo sia possibile, in quali circostanze ciò che ci è consueto e familiare possa diventare perturbante, spaventoso, appare chiaro da quanto segue.”
Heimlich in tedesco ha due significati: 1) che appartiene alla casa, non straniero, familiare, domestico, fidato ed intimo; 2) nascosto, tenuto celato, in modo da non farlo sapere ad altri o da non far sapere la ragione per cui lo si intende celare.
Unheimlich che è il contrario di heimlich, significa non familiare, estraneo, straniero, perturbante; ma significa anche secondo Schelling citato da Fred, tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato, cioè il contrario del secondo significato di hemlich.
Freud dunque interpreta l’angoscia del perturbante come conseguenza del ritorno del rimosso, del ritorno di ciò che era stato negato, della ripresentazione delle persone, degli affetti, delle situazioni allontanate. Il familiare diventa estraneo e suscita l’angoscia perché riappare quello che doveva restare nascosto. L’immediata associazione d’idee è a quanto riferisce Freud nel caso clinico di Emmy von N. negli studi sull’isteria. La signora soffriva della paura degli estranei, per cui, la paura di un orrore inatteso per le persone estranee che si presentano all’improvviso è relativa al fatto che in ogni estraneo era indotta a vedere un agente della parentela persecutorio, e si era abituata a pensare che gli estranei conoscessero familiarmente, sul suo conto, cose che venivano diffuse per danneggiarla. In effetti certe reazioni all’arrivo degli immigrati sembrano avere tutte le caratteristiche di una crisi isterica. Tuttavia a proposito del perturbante associato allo straniero, possiamo dire che esso realizza l’apparizione di un fatto noto e doloroso, cancellato dalla memoria e dalla storia. Possiamo fare alcune ipotesi interpretative a proposito, anche se è molto difficile analizzare le motivazioni inconsce di un popolo o addirittura di una civiltà. La prima ipotesi è quella per cui, questi migranti, ci riportino alla coscienza il fatto di provenire dalla stessa condizione di migranti atavici o recenti. Sono molto sorpreso dal fatto che i fautori dell’accoglienza utilizzino il ricordo dei nostri padri emigranti per convincere i respingenti dell’ingiustizia del rifiuto. Ma non si comprende che è proprio questa coscienza e questo ricordo che devono essere negati e cancellati con il rifiuto? Una seconda ipotesi farebbe derivare l’atteggiamento di rifiuto di quanti si presentano all’improvviso per chiedere asilo, da un senso di colpa divenuto persecutorio. Un esempio di questa dinamica psicologica, potrebbe essere rappresentato dall’allarme mediatico di quest’ultimo periodo. Sebbene tutti sappiano che il maggior numero di immigrati definiti clandestini giunga via terra dal nord, tuttavia l’attenzione angosciosa si concentra sui barconi che provengono dalla Libia. L’accordo con la Libia, disperatamente ricercato da tutti i governi e finalmente raggiunto dal governo maggiormente votato alla civilizzazione, leggi colonizzazione, prevede che il governo libico provveda ad evitare che partano dalle sue terre degli emigranti. Ora la Libia racchiude, per noi italiani, dei significati simbolici di sensi di colpa inconsci per il fatto che la Libia ha subito il dramma della colonizzazione dell’Italia fascista. Quindi questi emigranti provenienti da una terra sulla quale si è esercitato lo sfruttamento, potrebbero volersi vendicare. Questo vale a maggior misura per tutti gli stati coloniali del nord del mondo che ha sfruttato, e sfrutta, il sud del mondo da cui provengono gli emigranti come se richiedessero una riparazione o quanto meno un risarcimento. Quindi con un vissuto persecutorio notevole, dovuto alla cattiva coscienza del mondo ricco, sazio e preoccupato.
Un altro motivo particolarmente significativo, per cui l’arrivo dello straniero suscita angoscia a proposito del meccanismo di ritorno, è dovuto all’imbarazzo e al disagio che l’arrivo dello straniero porta con sé. Questo senso di disagio, non rappresenta soltanto il ritorno del rimosso, il ritorno di ciò che avevamo allontanato fuori, il ritorno vendicativo di ciò che avevamo rifiutato, il ritorno persecutorio della nostra cattiva coscienza; ma la denuncia di una falsa posizione che si può capire meglio analizzando il concetto di clandestino.
Mi sono chiesto, quindi ho cercato di pensare l’impensabile a proposito del concetto di clandestino: come mai a qualcuno è venuto in mente di definire qualcun altro sulla terra clandestino. Il clandestino è colui che sale di nascosto su una nave o un treno o comunque un mezzo pubblico o privato, senza avere il biglietto, cioè senza avere il diritto di essere presente in quel luogo. Il fatto è che tutti gli uomini siamo saliti sulla terra allo stesso modo. Non abbiamo avuto il tempo di fare il biglietto, nessuno. Non sappiamo bene neanche perché siamo qui, figurarsi se abbiamo avuto il pensiero di fare il biglietto prima di salire. Siamo tutti come coloro i quali si trovano su un autobus non avendo il biglietto e ci sentiamo quantomeno in imbarazzo pensando che un controllore potrebbe chiederci di verificare se abbiamo diritto ad essere lì. Abbiamo imparato anche, dall’esperienza di clandestini, che se il controllore ferma qualcun altro prima di noi, possiamo avere buone possibilità di non essere scoperti. Abbiamo imparato anche che possiamo fare qualcosa perché si verifichi questo allontanamento dello smascheramento da noi. Sebbene dovremmo sapere che essendo tutti nella stessa situazione, e cioè che nessuno ha il permesso, non dico di soggiorno, ma nemmeno di passaggio, chiunque sia accusato, si indovinerà di sicuro. Tuttavia è più facile, comodo e privo di rischi individuare una persona diversa, perché ha un diverso colore o un diverso linguaggio o abiti più miserabili, o un odore diverso o un diverso guardare con paura, ed indicare ecco quello è il clandestino, eccolo è lui. Fermatelo e fatelo scendere, anzi per impedirgli che ritenti di risalire, toglietegli la libertà o meglio ancora annegatelo. Così in ogni caso potremo stare più tranquilli, essendo i controllori impegnati ad impedire ai designati clandestini, anzi ai certificati per legge come clandestini, che nessuno ci chieda, ma tu chi sei? da dove vieni? Che permesso hai? E non sapere come rispondere. Oppure rispondere che si è lì da tanto tempo e quindi si ha diritto. È come se un viaggiatore dicesse al controllore, siccome sono su quest’autobus da diverse fermate il mezzo è mio ed ho tutti i diritti. In effetti si verifica ciò, quando un autobus è pieno e chi già è su ha tutti i diritti e chi vuole salire nessuno. Siccome mio padre è salito diverse fermate fa, io ho diritto di stare qui ed anche se lui è dovuto scendere questo posto ormai è mio. Poter accusare qualcuno di clandestinità è quindi un metodo per allontanare da sé il sospetto di non avere a propria volta diritto di permanenza. A questo punto un attento lettore potrebbe obiettare con buone ragioni storiche e di cultura consolidata, che la civiltà è avanzata parallelamente alla creazione degli Stati che danno un certificato di appartenenza e una carta d’identità che sancisce i diritti di un cittadino di quello Stato. Potremmo rispondere, utilizzando quel paragone azzardato, che sarebbe come difendere il diritto per chi è salito prima sull’autobus della proprietà di quell’autobus per sé e la propria discendenza. Ma questo riguarda un diritto culturale e non naturale. Io parlo di qualcosa di più profondo: l’interpretazione di una motivazione inconscia all’accusa di clandestinità, che è considerato un reato penale. L’accusa di clandestinità nei confronti di qualcuno è tanto più forte quanto è forte il disagio o senso di colpa inconscio per la propria clandestinità. Io non dico che nessun uomo è clandestino, perché se tutti abbiamo gli stessi diritti, la legge che stabilisce chi ha più diritto degli altri, non può che essere la forza. Io dico, al contrario, che siamo tutti clandestini e che abbiamo tutti, quindi, lo statuto psicologico del clandestino con la colpevolezza inconscia che viene negata, scissa e proiettata, secondo il più atavico dei meccanismi mentali di difesa. Non a caso i più feroci accusatori di clandestinità sono quelli che da poco sono stati tratti dalla clandestinità. Vedi gli emigranti del sud che sono diventati i più acerrimi rifiutanti dei “terroni”, non esclusi quelli della Lega nord che sono i più clandestini d’Italia, per loro stesso statuto. Questo metodo è quello che persegue la legge del “kapò”. Quindi tutte le ragionevoli obiezioni storico culturali che si possono fare sul paragone dell’autobus, sono delle conferme dell’impensabilità, cioè di rendere e mantenere impensabile che siamo tutti clandestini ed è da questa verità che derivano le conseguenze dei rifiuti.
Ma considerare sacro lo straniero potrebbe significare che è tornato il vero padrone o è arrivato il controllore. Con due conseguenze possibili. La prima è quella che abbiamo adottato noi occidentali quando da stranieri siamo andati a conquistare e colonizzare le terre vergini, grazie al fatto che ci ritenessero sacri, divini, potenti e legittimi proprietari di quelle terre. L’altra possibilità è che l’ambivalenza nei confronti del sacro consenta di riconoscersi come non aventi diritto entrambi, riparando i sensi di colpa atavici di abusivismo e trovare una mediazione coabitativa. Questa seconda possibilità porta con sé una serie di vantaggi non secondari, oltre a quelli che ho già descritto. Voglio riprendere un mio vecchio discorso sui vantaggi dell’addomesticare.
Freud scrive ad Einstein che “la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo fare a meno di indignarci. Siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo per ragioni organiche”, allo stesso modo, dico io, non possiamo respingere gli stranieri e ci indigniamo per i respingimenti per ragioni di necessità naturali, almeno finché siamo in contatto con la consapevolezza di noi stessi. Freud prosegue: “da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo d’incivilimento…dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo.” Freud differenzia l’incivilimento dalla civilizzazione, ma non ne spiega le ragioni. Io ho formulato l’ipotesi che mentre la civilizzazione è l’esportazione della civiltà spesso imponendola a chi non ce l’ha e non la vuole avere, l’incivilimento è paragonabile all’addomesticamento di certe specie animali. Addomesticare significa far entrare dentro casa qualcosa che è estraneo. Questo fenomeno che è naturale produce delle conseguenze e quindi delle modificazioni sia organiche, pratiche, fisiche che non vengono riconosciute o vengono rifiutate, sia delle modificazioni psichiche che sono invece vistose e per niente equivoche. Se l’addomesticamento degli animali selvatici ha prodotto delle modificazioni strutturali profonde sia nel corpo che nella psiche sia degli animali che degli addomesticatori, anche l’addomesticamento dello straniero prendendosene cura, facendosene carico con l’educazione trasformativa, opera importanti modificazioni sia nel fisico, nell’estetica, nell’etica, e nella personalità sia dello straniero che del riconoscente, nel senso di colui che riconosce nell’estraneo una componente vitale inalienabile. Una di queste modificazioni riguarda l’educazione affettiva, la competenza affettiva, la capacità di riconoscere, contenere e modificare gli affetti più distruttivi quali l’aggressività o la pulsione sessuale non matura. Privarci di questo esercizio, equivalente anche alla rinuncia all’educazione dei figli, di trasformazione negli altri e quindi in noi stessi comporta la rinuncia alla conquista dei caratteri psicologici della civiltà, e cioè il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale e l’interiorizzazione dell’aggressività ed anche una maggiore capacità di identificazione. Significa regredire in un inselvatichimento con tutte le conseguenze di ferocia che osserviamo ormai tutti i giorni. Cosi come non possiamo non essere pacifisti per non autodistruggerci, non possiamo non essere riconoscenti e accoglienti per non morire di asfissia da autoisolamento. E allora Freud si chiede “quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti e si può aggiungere diventino accoglienti e riconoscenti lo straniero? Freud non sa rispondere e neanch’io. So però, per convincimento profondo e sperimentato, che dipende dall’esito della lotta tra pensabilità e impensabilità.
La sacralità dello straniero ci consente anche di chiarire un equivoco, frutto dell’impensabilità. L’equivoco di considerare l’orrore per lo straniero come angoscia reale e non nevrotica e quindi dovuta essenzialmente a contenuti psicodinamici.
I fautori della opportuna reazione di rigetto degli immigrati si comportano come quegli adulti di cui parla Freud in Inibizione sintomo e angoscia, che ritengono normale e quindi giudicano come angoscia reale la paura dei bambini per gli estranei. Gli adulti non si allarmano più di tanto se i bambini reagiscono con angoscia all’arrivo imprevisto di estranei, considerandola una giusta reazione ad un reale pericolo. Freud dimostra invece, che anche la paura degli estranei e la xenofobia è angoscia nevrotica sia nei bambini, sia nei grandi come riattivazione dell’antica angoscia, in quanto la reazione è dovuta alla perdita della presenza della madre, sostituita con una presenza tutta diversa. Il rifiuto, la minaccia, il pericolo, l’angoscia per l’arrivo dello straniero non è angoscia reale ma nevrotica, che va quindi trattata come tutte le nevrosi o mitopoieticamente come facevano gli antichi con la sacralità, o psicoanaliticamente con la pensabilità, la presa di coscienza e la trasformazione affettiva.
La cultura mediterranea è tanto radicata sulla sacralità dello straniero che sono stati tramandati numerosi miti che trattano dello straniero.
Ne indicherò brevemente tre: i più noti. Il primo è il mito di Edipo. L’Edipo a Colono racconta dell’essere Edipo straniero alla fine della vita, ma Edipo è straniero ancor prima di nascere per via dell’oracolo formulato a Laio: sarai ucciso da tuo figlio, il quale perciò non vuole avere figli. I respingimenti dei figli si pagano a caro prezzo come sappiamo dal disperato dolore delle donne che hanno abortito o delle coppie che comunque decidono di non volerne ricevere di quelli che si presentano spontaneamente e non richiesti e non programmati; né sarà facile più tardi riparare questi respingimenti. In fondo è proprio l’avere esiliato Edipo che consentirà alla tragedia di compiersi. I respingimenti non consentono il riconoscimento dello straniero come figlio, annullando l’accoglienza si annullerà la pietà futura dei figli verso i padri.
Il secondo mito è quello di Medea. Il padre di Medea Eeto vuole uccidere lo straniero Giasone e Medea che vede in quello straniero la speranza di una vita felice si fa straniera nella sua terra. Ma sarà condannata per ciò ad essere straniera per sempre e per di più barbara e come tale trattata, cioè usata e gettata quando non serve più. Medea esiliata dal non amore perde la capacità di riconoscere i propri figli, ancora una volta essi i figli e il futuro, sono le vittime dei respingimenti. Il terzo mito dice che ci sono tanti tipi diversi di stranieri tutti racchiusi in Ulisse. Ulisse in fondo non è questo grande viaggiatore curioso conoscitore che ci ha tramandato la cultura classica, ma è un uomo costretto dagli dei o dalle avversità ad essere straniero ed approdare in diverse spiagge. Ulisse è straniero ai Feaci, ai quali porta in dono il racconto, il mito prezioso. È straniero a Calipso alla quale porta il piacere della compagnia; è straniero a Circe alla quale porta la capacità di umanizzare; è straniero ai Ciclopi, empi perché non rispettano gli stranieri, ai quali porta il ridimensionamento dell’onnipotenza ciclopsichica di poter vedere tutto; è straniero ai Proci che non lo riconoscono come legittimo possessore, ai quali porta la terribile risposta alla sciocca protervia.
Forse per poter osservare questo fenomeno dell’invasione dello straniero, in modo diverso, bisogna cambiare prospettiva e metterci non più in una posizione statica ma dinamica, cioè non considerarci come stanziali ma in movimento; accorgerci che anche noi come Ulisse siamo in viaggio e prima o poi dovremo arrivare in un approdo definitivo ma sconosciuto. Forse smetteremo di considerarci possessori di una terra: qualcosa che ci ospita soltanto di passaggio.
Riccardo Romano