Edward Hopper
Alcune riflessioni su Psicoanalisi e Architettura[1]
La stanza di analisi
La qualità della relazione analitica e lo spazio in cui la relazione si dispiega sono costituiti non solo dal contesto cognitivo, ma anche dall’immediato e pervasivo contesto fisico.
“La stanza d’analisi dovrebbe avere la capacità di evocare differenti generi di associazioni ed essere capace di favorire i variegati desideri degli occupanti. L’effetto dell’architettura sulla relazione analitica, e quindi sull’analisi, direttamente e indirettamente, è profonda” (Danze, 2005, p. 123).
L’organizzazione e la distribuzione dello spazio esterno della stanza d’analisi risentono fortemente del funzionamento psichico dell’analista, della sua ideologia tecnica, di come veda e senta lo spazio relazionale, di quanto sia coinvolto nella relazione analitica o di quanto si senta neutrale, di quanti e quali suoi oggetti interni entrino in contatto con gli oggetti interni dell’analizzando attraverso la dinamica transfero-controtranferale.
Allo stesso modo, la realizzazione architettonica, estetica e funzionale dello spazio fisico contenitore del setting della seduta psicoanalitica, la stanza d’analisi, non può essere immutabilmente scontata e ripetitiva, ma deve fare i conti con la necessità di contestualizzazione all’interno di gusti, comunicazioni, abitudini, percorsi di mobilità, modificazione dei materiali di costruzione e di arredo, della forma, dell’utilizzo della luce, che continuano a cambiare.
Da un lato resta fondamentale il bisogno di tenere in considerazione tutte queste modificazioni socio-culturali e tecnologiche, dall’altro non possiamo ignorare i fondamenti della teoria e della prassi psicoanalitica, nonché le esigenze di profondità comunicativa che, da Freud in poi, soprattutto con il riferimento alle fasi pre-edipiche della vita mentale e alla cura degli stati psicotici, hanno assunto un’importanza sempre maggiore. Penso, quindi, che lo spazio esterno debba essere vivo e vitale e fare da cornice simbolica e da silente sostegno alle vicissitudini della coppia analitica al lavoro non secondo modalità predefinite, ma secondo modalità creative.
Il dentro e il fuori nella stanza di analisi
Generalmente gli spazi degli studi europei sono meno ampi di quelli americani, per cui la distanza della poltrona dell’analista dal lettino, su cui è sdraiato il paziente, è generalmente minore, come minore è la distanza tra lo sguardo del paziente e le diverse parti arredate della stanza, che quindi più facilmente rimanda al primitivo rifugio. Ne deriva proprio in termini puramente percettivi un diverso vicendevole ascolto e una diversa osservazione visiva, nonché una diversa cenestesi in relazione alla prossimità, alla separazione, ma anche in rapporto ai materiali, all’acustica e alla luce, di cui bisogna tenere conto. Differenti forme delle stanze e differenti materiali riverberano differentemente. Il suono è duro o dolce, riflesso o assorbito, in risposta alle diverse caratteristiche che, pertanto, costruiscono differentemente i problemi di prossimità, sicurezza, paura che la presenza o l’assenza di suoni adiacenti alla stanza stessa – suoni provenienti dalla via sottostante, voci nella sala d’attesa – possono determinare.
Il vissuto di intimità nella stanza analitica sembra essere rinforzato dalla presenza di una finestra che segna la distinzione fra l’immisurabile dell’esterno della stanza e l’intimità dell’interno. Se Il vissuto di intimità può essere messo in questione a causa della distrazione che finestre troppo grandi possono provocare, la visione dell’orizzonte o di posti lontani introduce un tangibile sentimento di infinito, mentre il senso di chiusura degli interni ci ricorda il finito e il tangibile.
La quantità e, ancora di più, la qualità della luce naturale all’interno della stanza d’analisi è molto importante, in quanto le cose che gli occhi vedono e i sensi sentono in questioni di architettura sono determinate dalle condizioni di luce e di ombra.
Più frequentemente, per esempio, gli studi americani sembrano possedere maggiore luminosità di quelli europei, per via non solo degli ampi spazi, ma anche della grandezza delle finestre, della tinteggiatura delle pareti e dell’uso dei materiali e della loro combinazione, e tutti questi aspetti incidono sulla percezione della luce naturale, che può talvolta essere eccessiva per il luogo dell’intimità e della privatezza o, all’opposto eccessivamente fioca, alimentando angosce di isolamento e di deprivazione.
Ricordo i positivi commenti di alcuni pazienti quando ho sostituito nella stanza di analisi la chaise longue di Le Corbusier che determinava con la sua foggia una obiettiva costrizione spaziale con relativa mancanza di comodità e mobilità del corpo, con un lettino più ampio e più morbido, che facilitava il rilassamento e i movimenti corporei e, quindi, la possibilità di ricordare i sogni e di fantasticare. Altri pazienti, però, si sono espressi in termini negativi circa il cambiamento del lettino, in quanto la seduta a inclinazione variabile della chaise longue favoriva la possibilità di regolazione dell’altezza, per cui poteva anche diventare una sorta di poltrona, mentre il lettino tradizionale obbligava alla posizione distesa.
Mi viene in mente anche il vissuto di provvisorietà e promiscuità di un paziente che, prima che da me, era stato da un analista che lo faceva sdraiare su un vero e proprio divano da salotto. Il paziente fantasticava che su quel divano il suo analista prendeva il caffè con i suoi ospiti e che, quindi, come ha avuto modo di dire: “poggiava la testa dove degli sconosciuti poggiavano il culo”, per cui da nessuna parte, tantomeno su quel divano, si realizzava la possibilità di un posto non promiscuo e tutto per lui, di un luogo intimo solamente suo e con una funzione ben individuata.
Credo che non sia possibile parlare della stanza d’analisi senza prendere in considerazione gli spazi adiacenti. La sequenza dell’arrivo contiene soglie multiple, sottili e potenti elementi che segnano il territorio, e la dialettica tra interno ed esterno.
La portineria del palazzo, il suo ingresso, le scale, l’ascensore, il pianerottolo davanti alla porta, l’anticamera, la sala d’aspetto, eventualmente i servizi igienici, sono esempi della sequenza spaziale attraversata prima di passare dallo spazio pubblico alla privatezza della casa e che permettono la possibilità di gioco, l’oscillazione virtuosa fra le due dimensioni.
L’architettura può essere vista come una serie di suggerimenti ed esperimenti sulla natura delle relazioni interne ed esterne, una macchina programmata per regolare questi collegamenti. L’architettura è una meditazione sull’entrare e l’uscire e articola le cornici che contengono le nostre vite (Sperber, 2014).
Entrare e uscire, l’accoglienza e il commiato sono una parte importante dell’esperienza analitica. I confini sono certamente fisici, ma possono essere dati in differenti modi. Alcuni sono chiaramente visibili, altri sono invisibili, altri ancora sono implicitamente suggeriti, ma non per questo non sono ferocemente avvertiti, sia fisicamente che emozionalmente. I confini reali o immaginari della stanza rimandano anche spazialmente ai confini reali o immaginari della relazione.
“La stanza d’analisi dovrebbe avere la capacità di evocare differenti generi di associazioni ed essere capace di favorire i variegati desideri degli occupanti. L’effetto dell’architettura sulla relazione analitica, e quindi sull’analisi, direttamente e indirettamente, è profonda” (Danze, 2005, p. 123).
Certamente non ho alcuna intenzione di proporre un modello architettonico di stanza d’analisi e mi rendo conto che si possa correre il rischio che eccessive semplificazioni mettano in secondo piano l’originalità, l’unicità di ciascuna stanza di analisi, così come l’integrazione dei dati spaziali e percettivi con il mondo interno del paziente e la specificità di quella relazione analizzando-analista.
Mi sembra utile però evidenziare gli aspetti storici (le stanze di analisi sono più frequentemente all’interno delle abitazioni degli analisti in Europa rispetto all’America), geografici (In America, rispetto all’Europa, è maggiore la vastità degli spazi esterni ed è minore la densità della popolazione e conseguentemente è maggiore l’ampiezza degli spazi abitativi), architettonici (è maggiore l’importanza data storicamente alla luminosità degli interni americani, che però presentano soffitti più bassi, in un certo senso potenzialmente più oppressivi, mentre gli interni europei, anche a causa della loro vetustà, e quindi della storica necessità di avere spazi ridotti e ridotte comunicazioni con l’esterno per conservare il calore, sono più frequentemente meno luminosi, nonostante l’altezza delle stanze sia generalmente maggiore), sociologici (l’incremento della professionalizzazione dell’attività psicoanalitica con la relativa esibizione dei vari diplomi come trofei, il rispetto di standard minimi per gli studi medici, ecc.), e tecnici (le differenti teorizzazioni psicoanalitiche). Tutti questi aspetti possono entrare in gioco in modo non neutrale nella costituzione del setting e quindi, nella costituzione, nel vissuto e nell’interpretazione dei movimenti transferali e controtransferali. Conoscere e approfondire l’impatto degli aspetti architettonici e di arredo delle stanze di analisi sulle dinamiche della relazione analitica, favorisce una valutazione del setting meno ideologica e più integrata nelle sue diverse componenti.
Bibliografia
Danze, E. A. An architect’s view of introspective space: the analytic ves2016sel. Annals of Psychoanalysis, 33: 109-24, 2005.
Schinaia C. Interno Esterno. Sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica, Alpes, Roma, 2016.
Sperber, E. Sublimation: building or dwelling? Loewald, Freud, and architecture. Psychoanalytic Psychology, 31(4): 507-524, 2014.
Cosimo Schinaia.
cosimo.schinaia@gmail.com
website: www.cosimoschinaia.it
[1] Breve saggio comparso in inglese nella culture page dell’IPA website, nello spazio “Psychoanalysis and Art” il 13 febbraio, 2020.