In occasione dell’Anno Darwiniano pubblichiamo il testo che Antonello La Vergata ha scritto per il sito web della SPI
Antonello La Vergata è professore ordinario di Storia della filosofia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, sede di Modena.
Studia i rapporti fra le teorie evoluzionistiche, la filosofia e le scienze umane, con particolare riferimento al darwinismo sociale, alle dottrine della guerra e dell’aggressività e alle idee ecologiche. E’ autore di oltre cento fra articoli e saggi pubblicati in Italia e all’estero. Fra questi Nonostante Malthus. Popolazione, fecondità e armonia della natura, 1700-1900 (Torino, Bollati Boringhieri, 1990), L’equilibrio e le guerra della natura. Dalla teologia naturale al darwinismo (Napoli, Morano, 1990; opera che nel 1994 ha ricevuto il premio Marc-Auguste Pictet della Société de Physique et d’Histoire naturelle di Ginevra), Guerra e darwinismo sociale (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006). E’ tra gli autori del Dictionnaire du darwinisme et de l’évolution (Paris, Presses Universitaires de France, 1996), diretto da Patrick Tort. Il suo ultimo libro, Colpa di Darwin? (Torino, UTET, 2009), è dedicato ai rapporti fra darwinismo, razzismo, eugenetica, guerra e darwinismo sociale.
Darwin e il caso (1)
1. Fine della teleologia
Fra le tante, deprimenti pagine che mi tocca leggere per esigenze professionali, un non invidiabile primato spetta alle farneticazioni di certi creazionisti e alle stupidità sul cosiddetto disegno intelligente (2). Mi è anche capitato di vedere un filmato prodotto da una delle molte organizzazioni fondamentalistiche americane in cui un signore prendeva un orologio, lo avvolgeva in un fazzoletto, lo frantumava con un martello e poi diceva trionfante in tono di sfida: «Provate a ricostruire l’orologio riunendo i pezzi. È impossibile, ma è proprio quello che pretendono i darwiniani, i quali addirittura pensano che la ricostruzione possa avvenire accozzando a caso i frammenti». Idiozie simili non richiedono commento. Tuttavia, idee simili sui concetti darwiniani di caso e variazione causale serpeggiano, anche se espresse in modi non sempre così rozzi, fra le numerose e variegate fila dei darwinofobi, scienziati e no, laici e no. Non è necessario avere conoscenze di biologia molecolare o di genetica per evitare di attribuire a Darwin opinioni che non ha mai avuto: basta leggere l’Origine delle specie. Ma sarebbe tempo perso per chi sa già tutto sui principi dell’universo.
Nelle parole di Marx, Darwin diede «il colpo di grazia alla teleologia», cioè alla concezione finalistica della natura. È vero: secondo la teoria della selezione naturale, gli esseri viventi non esistono per realizzare un progetto, le loro caratteristiche non sono funzionali né all’armonia generale né al benessere degli esseri con cui interagiscono. Se, affermava Darwin, si accertasse un solo caso in cui una caratteristica di un organismo fosse utile non a quell’organismo, ma a un’altra specie, la teoria della selezione naturale crollerebbe. A tutt’oggi non ne è stato dimostrato nessuno. Gli organi non sono stati creati per svolgere le loro funzioni; l’evoluzione non ha una direzione; l’uomo non è la sua meta. I processi naturali si svolgono per cause materiali; interazioni complesse hanno esiti imprevedibili e irreversibili. Gli adattamenti che destano la nostra meraviglia sono il risultato di milioni di anni, per così dire, di prove e soprattutto di errori. L’unico fattore di ordine è la selezione naturale. Questa, come scrisse il matematico e biologo inglese Ronald Fisher (1890-1962), trasforma una improbabilità in una probabilità: fa di un evento fortuito – la comparsa casuale di una variazione più utile delle altre – l’inizio di un processo che, considerato retrospettivamente, sembra indirizzato fin dall’inizio lungo una certa direzione, ma solo perché tutte gli altri percorsi sono stati cancellati e quello che vediamo è l’unico superstite, o il più appariscente fra i superstiti.
2. Le variazioni casuali
Ma come si producono le differenze individuali che sono il materiale da costruzione con cui opera la selezione naturale? La risposta che darebbe il cosiddetto uomo della strada è simile a quella di coloro che pensarono l’evoluzione prima di Darwin: l’ambiente modifica direttamente gli organismi, e le modificazioni si trasmettono ereditariamente; quindi, ad esempio, gli abitanti dell’Africa avrebbero la pelle nera perché l’ha annerita il sole cocente. A questa spiegazione il naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck, autore agli inizi dell’Ottocento della prima compiuta teoria evoluzionistica, ne aggiunse un’altra, secondo lui più importante, ma anch’essa facilmente accettabile dal senso comune: l’uso e il disuso degli organi, in forza del quale il figlio di un fabbro tenderebbe a ereditare i bicipiti ben esercitati del padre, il figlio di genitori che hanno sforzato la vista tenderebbe a essere miope, una specie di uccelli costretta dalle circostanze ad adattarsi alla vita acquatica svilupperebbe a poco a poco zampe palmate, e così via. In relazione a tutti questi casi si suole parlare di "ereditarietà dei caratteri acquisiti", cioè acquisiti dagli individui e trasmessi alla discendenza. Si tratta di una credenza sbagliata; oggi è insostenibile, ma ha dominato praticamente incontrastata fino alla fine dell’Ottocento ed è uscita di scena solo negli anni Trenta del secolo scorso (3). Anche Darwin la condivideva, ma questo non inficia il valore della sua teoria dell’origine delle specie. Infatti la sua base di partenza era il riconoscimento di una «variabilità spontanea» delle specie in natura, cioè del fatto che anche nello stesso ambiente gli individui della medesima differiscono tutti l’uno dall’altro, seppure in modo impercettibile. Questa variabilità è detta spontanea perché è un dato costante della natura: è presente in tutti gli ambienti e in tutte le condizioni. Le sue cause sono, secondo Darwin, le più disparate (clima, cibo, abitudini di vita, effetti strani della riproduzione sessuale, ecc.), ma la variazione da sola non spiega l’evoluzione. Infatti non tutte le variazioni hanno uguale importanza, non tutte possono dare inizio a una linea evolutiva. Ognuna può risultare più o meno vantaggiosa delle altre, a seconda delle circostanze: tutte devono passare attraverso il vaglio dell’ambiente, al quale spetta l’ultima parola. La decisione avviene a un livello superiore, non più individuale, ma ecologico: quello della selezione naturale. La formazione di specie nuove è dunque il risultato di due processi distinti: la comparsa imprevedibile e costante di variazioni e la selezione severa esercitata dall’ambiente. Quindi, anche se riuscissimo a ricostruire la genesi di ogni singola differenza individuale (cosa del resto impossibile), non avremmo con ciò spiegato come mai alcune si conservino a scapito delle altre e, eventualmente, si diffondano nelle generazioni successive, accumulandosi fino a formare una varietà, poi una sottospecie, quindi una specie, un genere e così via.
Le variazioni, secondo Darwin, sono non solo spontanee, ma anche «casuali». Questo concetto è cruciale nella sua teoria ed è sempre stato oggetto di fraintendimenti. Lo è tuttora da parte di coloro che sostengono che il caso non può aver prodotto le meraviglie della natura. Quando però Darwin parla di variazioni casuali non intende dire che non hanno una causa, ma che sono dovute a cause complesse e sconosciute: il termine "caso" sta a indicare la nostra ignoranza delle cause, non la loro assenza. Se lanciamo in aria una manciata di piume, scrive nell’Origine delle specie, queste ricadono al suolo secondo leggi ben precise, ma, non essendo noi in grado di ricostruire la loro azione nei particolari, diremo che la disposizione finale delle piume è effetto del caso.
Ma il termine "casuale" ha anche un altro significato, distinto logicamente ma inseparabile dal primo: le variazioni non sono orientate a favorire la sopravvivenza dell’individuo. Questa nozione è decisiva e racchiude forse la più grande innovazione concettuale introdotta da Darwin. La singola variazione non è di per sé la risposta giusta alle esigenze poste dall’ambiente; in altri termini, non nasce per adattare l’organismo all’ambiente, non garantisce di per sé la sopravvivenza e il successo riproduttivo; anzi, nella stragrande maggioranza le variazioni sono inutili o indifferenti, alcune perfino dannose: eliminate queste ultime dalla selezione naturale, le altre rimangono, come si dice oggi, "fluttuanti", in attesa che si pronunci l’ambiente. Questo, però, non dà istruzioni agli organismi su come modificarsi, ma si limita a giudicare, per così dire, il loro comportamento spontaneo, come un esaminatore che promuovesse o bocciasse gli alunni senza aver impartito loro nemmeno una lezione.
Ben altrimenti stavano le cose nella teoria esposta da Lamarck agli inizi dell’Ottocento. Nel suo famoso (o famigerato) esempio, la giraffa si sforza di allungare il collo per raggiungere il ramo dell’albero dove trova il cibo; non si tratta di un atto intenzionale, ma di un effetto indotto dall’ambiente, che stimola una complessa meccanica interna all’organismo, il risultato della quale – l’allungamento del collo – rende possibile la sopravvivenza in circostanze nuove. La giraffa "darwiniana" magari allunga anche lei il collo, ma fa parte di una popolazione in cui si trovano giraffe che, per le cause più diverse, hanno il collo quale più lungo, quale più corto: soltanto quelle il cui collo si trova casualmente ad essere di una lunghezza sufficiente sopravvivono e trasmettono ai discendenti la caratteristica "collo lungo". Le altre vengono eliminate; per questo si ha l’impressione che le giraffe siano sempre state dotate di un collo mirabilmente adatto alle loro abitudini di vita (4). Per un lamarckiano, la selezione naturale sarebbe tutt’al più un fattore secondario, perché la variazione, essendo dovuta all’azione fisica delle circostanze ambientali, riceve fin dall’inizio "istruzioni" sulla strada giusta da seguire. Detto in altri termini, nella concezione lamarckiana si producono solo le variazioni necessarie, come su ordinazione. In questo senso, si può dire che l’ambiente sagoma direttamente gli organismi. L’uso e il disuso degli organi completano il processo adattativo: il primo rafforza per ripetizione una struttura che è già almeno parzialmente utile, il secondo indebolisce fino all’atrofia una struttura che era utile ma ora non lo è più. Nella teoria darwiniana, invece, l’organismo non si modifica per adattarsi: varia e basta. Le variazioni si producono in molte direzioni, senza correlazione con le esigenze della sopravvivenza. Se e quali siano adattative viene stabilito dalla rete complicatissima delle relazioni ecologiche che costituiscono quell’ambiente particolare. La variazione propone, la selezione dispone.
La nozione della variazione casuale o spontanea taglia alla radice ogni possibilità di equivoco sul ruolo di un grande progettista o direttore dell’evoluzione. Visto che le variazioni non sono di per sé correlate con le necessità vitali degli esseri viventi, ancora meno si può pensare che siano preordinate dal Creatore: perché questi ne farebbe nascere tante per sprecarle quasi tutte? Nella voluminosa opera The Variation of Animals and Plants under Domestication ("La variazione degli animali e delle piante allo stato domestico", 1868), Darwin espone la sua critica del finalismo nel modo più chiaro possibile, anche in risposta ad alcuni suoi seguaci che tentavano di far rientrare dalla finestra il disegno divino cacciato dalla porta. Supponiamo, scrive, che un architetto costruisca un edificio senza usare pietre sagomate appositamente, ma scegliendo tra i frammenti di roccia di varie forme che trova in fondo a un precipizio. I frammenti di roccia sono rispetto all’edificio quello che le variazioni di ogni specie sono rispetto alle varie e mirabili conformazioni acquisite dai suoi discendenti. La forma dei singoli frammenti può essere detta accidentale, ma in senso improprio, perché in realtà è dovuta a un grande numero di avvenimenti che obbediscono tutti a leggi naturali. Relativamente all’uso che ne fa l’architetto, però, la forma è davvero accidentale, poiché nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che ogni frammento sia stato intenzionalmente sagomato dal Creatore in vista di quell’uso particolare. A maggior ragione è impensabile che abbia preordinato a beneficio degli allevatori e dei giardinieri tutte le variazioni delle piante e degli animali domestici, molte delle quali sono nocive per quegli organismi e inutili per l’uomo; che abbia predisposto fin dal principio dei tempi tutte le possibili variazioni del gozzo dei piccioni perché l’allevatore potesse selezionare le forme bizzarre del piccione gozzuto; che abbia destinato le qualità fisiche e «mentali» del cane a variare in modo da dare origine a una razza aggressiva e capace di atterrare un toro, per il «brutale divertimento dell’uomo». Basta leggere queste pagine di Darwin per rendersi conto di quanto alcuni distorcano il suo concetto di caso, quando lo presentano come sinonimo di «errore» o «sbaglio» (Ratzinger 2006, p. 78) (5).
Come abbiamo visto, anche Darwin credeva che molte variazioni fossero dovute all’azione diretta del clima, dell’ambiente fisico, del cibo, perfino dell’uso e del disuso degli organi; credeva anche che comportamenti ripetuti a lungo, per generazioni, potessero fissarsi nell’organismo fino a diventare ereditari. Sbagliava. Ma nella sua teoria c’era un elemento assolutamente nuovo: il setaccio attraverso cui doveva passare qualunque variazione, comunque prodotta. Darwin non puntava tutto su certe leggi della variazione a esclusione di altre, come invece aveva fatto Lamarck. Per questo la teoria dell’evoluzione per selezione naturale si è rivelata flessibile, oltre che solida e confermata dai fatti, e ha potuto essere integrata dalla genetica senza essere snaturata. Per contro, il lamarckismo, legato all’ereditarietà dei caratteri acquisiti mediante l’influenza diretto delle circostanze e l’uso e disuso degli organi, ha dovuto essere abbandonato una volta che questi fattori si sono rivelati insostenibili. Darwin ha costruito una teoria dell’origine delle specie "mettendo fra parentesi", per così dire, il problema dell’origine della variazione. Ciò gli fu rimproverato da più parti: era, si disse, come costruire una casa partendo dal tetto invece che dalle fondamenta. Ma anche a questa critica Darwin aveva risposto in modo efficace. Il brano contro il finalismo citato sopra continuava così:
Alcuni autori hanno affermato che la selezione naturale non spiega nulla fin tanto che non sia chiarita la causa di ogni differenza individuale. Ma se si spiegasse a un selvaggio, del tutto ignaro dell’arte del costruire, come l’edificio sia stato elevato pietra dopo pietra, e perché siano stati usati per le arcate i frammenti di forma conica, per il tetto le pietre piatte ecc., e se gli si mostrasse l’utilità di ogni parte e quella della costruzione nel suo complesso, sarebbe irragionevole da parte di costui dire che non gli è stato spiegato niente perché non gli si può spiegare la causa precisa della forma di ogni frammento. Lo stesso vale per l’obiezione secondo cui la selezione naturale non spiega nulla perché ignoriamo la causa di ogni differenza individuale nella struttura di ogni essere.
Del resto, gli straordinari risultati della selezione artificiale di piante e animali erano stati conseguiti da persone che non conoscevano le leggi della variazione.
L’arcivescovo di Vienna cardinale Christoph Schönborn e il teologo cardinale Joseph Ratzinger (prima di diventare papa Benedetto XVI e dopo) affermano che negare «l’evidenza schiacciante di finalismo e disegno» vuol dire abdicare alla ragione (6). È possibile che la storia dell’universo sia la realizzazione di un disegno. Ma come questo sia avvenuto lo spiega, appunto, la ragione, non la semplice invocazione sciamanica della parola "disegno". Che l’evoluzione sia darwiniana o no, chi vuol credere in un disegno troverà sempre modo di adattare la cornice al quadro che si viene via via delineando. Ma nessuno sano di mente e intellettualmente onesto penserà che è la cornice a determinare che cosa debba figurare nel quadro.
3. Il determinismo e il demiurgo
Se ha senso attribuire a Darwin una concezione filosofica, si può affermare che la sua visione della natura era deterministica. Per un uomo del suo tempo, determinismo voleva dire la concezione esposta dal matematico e astronomo Pierre-Simon de Laplace nel Système du monde (1814). Questa dottrina, che avrebbe dominato la scena fino alla rivoluzione concettuale provocata dalla fisica quantistica, può essere riassunta così:
l’universo è retto dalla causalità;
nella storia dell’universo ogni stato è determinato da quello che lo precede e determina quello che segue, secondo modalità analizzabili per mezzo della meccanica newtoniana;
la causalità consente la prevedibilità;
i fenomeni vengono descritti secondo il paradigma meccanicistico e deterministico che trae forza dalla precisione e dal rigore della meccanica newtoniana;
il caso non esiste, è un concetto relativo ai limiti delle capacità umane: è infatti inconcepibile che vi siano eventi che si sottraggono a una legge;
la rete causale dell’universo è tuttavia troppo complessa perché possa essere ricostruita dalla mente umana; per questo tutte le conoscenze fisiche non possono essere che fondate sulla probabilità.
Si racconta che, quando Laplace presentò il suo grandioso trattato di meccanica celeste a Napoleone, questi gli chiese come mai non vi fosse menzionato Dio. Laplace avrebbe risposto: «Sire, non ho bisogno di questa ipotesi».
Nell’Essai philosophique sur les probabilités (1814) Laplace introduce un’immagine famosa, quella di una Intelligenza che, potendo disporre di informazioni sufficienti sullo stato attuale delle cose, sarebbe in grado di abbracciare in una stessa formula lo stato presente, passato e futuro del mondo. È un’immagine presente già in Leibniz e in Condorcet, e sarà usata da molti anche in seguito (fra questi il principale difensore di Darwin in Inghilterra, Thomas Henry Huxley).
Tutti gli avvenimenti, anche quelli che per la loro piccolezza sembrano non ubbidire alle grandi leggi della natura, ne sono una conseguenza necessaria come lo sono le rivoluzioni del Sole. Ignorando i legami che li uniscono al sistema intero dell’universo, li si è fatti dipendere dalle cause finali o dal caso, a seconda che si manifestassero e si succedessero con regolarità o senza ordine apparente; ma queste cause immaginarie sono state successivamente arretrate sino ai limiti delle nostre conoscenze e spariscono del tutto davanti alla sana filosofia, la quale non vede in esse che l’espressione dell’ignoranza in cui ci troviamo circa le vere cause.
[…]
Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa, e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi. Lo spirito umano offre, nella perfezione che ha saputo dare all’astronomia, un pallido esempio di quest’Intelligenza. Le sue scoperte in meccanica e in geometria, unite a quelle della gravitazione universale, l’hanno messo in grado di abbracciare nelle stesse espressioni analitiche gli stati passati e quelli futuri del sistema del mondo.
Applicando lo stesso metodo ad altri oggetti delle sue conoscenze, [lo spirito umano] è riuscito a ricondurre le leggi generali i fenomeni osservati ed a prevedere quelli che devono scaturire da circostanze date. Tutti i suoi sforzi nella ricerca della verità tendono ad avvicinarlo continuamente all’Intelligenza che abbiamo immaginato, ma da cui resterà sempre infinitamente lontano.
[…]
La regolarità che l’astronomia ci presenta nel movimento delle comete ha luogo, senza dubbio, in tutti i fenomeni. La curva descritta da una semplice molecola di aria o di vapore è regolata con la stessa certezza delle orbite planetarie: non v’è tra di esse nessuna differenza, se non quella che vi pone la nostra ignoranza (7).
Negli abbozzi manoscritti della sua teoria che Darwin stese nel 1842 e nel 1844, troviamo una metafora che ricorda quella laplaciana: «Se ogni parte di una pianta o di un animale variasse, … e un essere infinitamente più intelligente dell’uomo (non un creatore onnisciente) avesse selezionato per migliaia di anni tutte le variazioni che tendevano verso certi fini (o producevano cause che tendevano allo stesso fine)…», ecco che si spiegherebbe la produzione di organismi sempre meglio adattati all’ambiente. Quell’essere potrebbe passare al vaglio tutte le caratteristiche degli esseri viventi, anche quelle impercettibili all’occhio umano, e "scegliere" di volta in volta le più utili alla sopravvivenza. Visto ciò che è stato capace di fare l’uomo, «cieco e capriccioso», che cosa non potrebbe fare, avendo a disposizione tempo infinitamente superiore, questo Essere «capace di vedere tutto»? L’immagine è ripresa nell’Origine delle specie: qui al posto dell’«Essere» troviamo la natura (nel senso dell’insieme dei processi naturali), che «seleziona soltanto per il bene dell’organismo di cui si prende cura», mentre l’uomo seleziona solo per il proprio interesse. Si noti bene il punto decisivo: questa sorta di grande selezionatore non produce le variazioni, ma si limita a scartare alcune di quelle che trova e ad accumularne altre. Non è onnipotente: può conseguire qualunque risultato, «sempre che qualche legge [naturale] sconosciuta non gli si opponga». Non è un creatore, ma un uomo (cioè un fattore naturale) all’ennesima potenza, così come l’Intelligenza laplaciana non era Dio. La selezione naturale non è Dio. Anche supponendo che l’universo sia governato dal Creatore (cosa che Darwin concede, e non necessariamente per convenienza strategica), l’amministrazione avviene «mediante mezzi intermedi», ovvero «cause seconde», cioè cause naturali. Il demiurgo selezionatore rappresenta l’insieme dei processi naturali in cui consiste la selezione. Libero chiunque di pensare che esista un’istanza superiore, un Dio al cui servizio il demiurgo agisce. Possibilità ampiamente sfruttata, ieri e oggi, da coloro che vogliono conservare una doppia fedeltà: alla ragione e alla fede.
Non meno importanti, però, sono le differenze fra l’Essere di Darwin e l’Intelligenza di Laplace: quest’ultima può prevedere, l’Essere no, poiché il materiale che ha a disposizione varia di continuo per cause che gli sono sconosciute e su cui non ha potere; le variazioni, in altre parole, non sono, nemmeno teoricamente, prevedibili come invece è il movimento delle particelle di materia nell’universo newtoniano. L’evoluzione consiste in una produzione lentissima ma continua di novità contingenti che, per effetto della loro stessa comparsa, modificano di volta in volta, in modo irreversibile, l’interazione delle diverse catene causali, la quale non produce mai gli stessi risultati. L’Essere di Darwin è meno potente e più umile dell’Intelligenza laplaciana: potrebbe però esserne un subordinato.
L’antropomorfismo della metafora darwiniana, che doveva servire ad attenuare l’impatto della nozione di selezione naturale sul lettore tradizionale, funzionò in certi casi talmente bene che Darwin dovette penare per chiarire, anche a suoi sostenitori, che la natura non era un agente. In altri casi provocò reazioni ostili, e proprio in nome del determinismo laplaciano! A molti, non necessariamente i più sprovveduti, sembrò una inaccettabile personificazione della natura. Altri, sempre in nome dell’ideale deterministico incarnato nelle scienze fisiche, furono indignati nel vedere attribuita tanta importanza al caso: Darwin fu accusato, nelle parole del biologo francese Félix Le Dantec, di farne un Dio. Per dirla in termini attuali, Darwin aveva, secondo questi critici, una concezione ontologica, non epistemica, del caso e della probabilità. Un’accusa falsa, come abbiamo visto. È curioso come certe accuse a Darwin ricorrano, quasi con le stesse parole, sulla bocca sia di critici materialisti sia di critici teisti.
5. Il caso e il male
Determinismo e deismo potevano dunque conciliarsi, almeno per il Darwin del 1859. Ma il compromesso si sarebbe sgretolato negli anni successivi, e per motivi non epistemologici, ma morali.
Per più di un secolo, naturalisti devoti si erano affannati a dimostrare, con argomenti ora ingenui ora ingegnosi, che anche gli aspetti crudeli della natura rientravano in un disegno provvidenziale, anzi erano prova della potenza, saggezza e bontà del Creatore. Ora Darwin dimostrava che le stesse cause che producevano conservazione, stabilità ed equilibrio potevano produrre precarietà, distruzione e trasformazione. L’aspetto sereno, maestoso, lussureggiante della natura coesisteva con l’aspetto tragico. La natura era insieme crudele e benefica, avara e prodiga; certo non era conforme a un progetto realizzato nei minimi particolari. Secondo Darwin, era più logico, e più rispettoso, credere che il Creatore avesse stabilito soltanto poche leggi fondamentali, lasciando che poi le cose andassero da sé, con tutte le imperfezioni particolari, crudeli e dolorose che ne derivavano. Era ridicolo credere che si fosse dato pensiero di ogni variazione del gozzo dei piccioni sfruttata dagli allevatori per soddisfare i capricci dei clienti; e se questa credenza era assurda nel caso delle varietà domestiche, perché doveva essere logica nel caso delle varietà naturali? Se tutte le variazioni erano preordinate, inoltre, era inevitabile attribuire a Dio anche i difetti, le mostruosità, gli aborti, le morti premature, gli organi inutili, gli organi rudimentali, lo spreco di vite, «l’immensa quantità di dolore nel mondo», le «infinite sofferenze degli animali», gli «individui immorali e viziosi», il male, la follia…. Invece, l’idea che agisse solo mediante leggi generali e non si scomodasse per modellare personalmente la cerniera di un bivalve o per aggiungere una sfumatura di colore sulle ali di una farfalla era, in un certo senso, una forma superiore di pietas: meglio sgravarlo di qualche incombenza che renderlo responsabile degli aspetti negativi della creazione. Questo pensava Darwin mentre scriveva l’Origine delle specie. Ma la cornice deistica della sua teoria si sarebbe corrosa col tempo, fin quasi a sparire.
«La mia teologia – avrebbe finito col confessare – «è semplicemente un pasticcio: non posso vedere nell’universo solo il risultato del caso cieco, eppure non riesco a vedere nei particolari nessuna prova di un disegno benefico, anzi di un disegno qualsivoglia». Al botanico americano Asa Gray, che sosteneva la compatibilità della selezione naturale col disegno divino, rispondeva il 22 maggio 1860:
Quanto all’aspetto teologico della questione, esso mi è sempre doloroso. Sono confuso. Non avevo intenzione di scrivere da ateo, ma devo confessare che non riesco a vedere prove di benevolenza e di disegno tutt’intorno a noi così chiaramente come le vedono altri, e come io stesso vorrei vedere. Mi sembra che nel mondo ci sia troppa infelicità. Non riesco a convincermi che un Dio benefico abbia studiatamente creato gli icneumonidi (8) con l’espressa intenzione che si cibassero del corpo vivo delle larve, o un gatto perché giocasse col topo. Non credendo questo, non vedo nessuna necessità di credere che l’occhio sia stato disegnato espressamente. D’altra parte, non posso affatto accontentarmi di vedere questo meraviglioso universo, e soprattutto la natura dell’uomo, e di concludere che tutto è il risultato di forze cieche. Sono incline a vedere in ogni cosa il risultato di leggi progettate, con i particolari, buoni o cattivi che siano, lasciati all’opera di quello che possiamo chiamare il caso. Non che questa opinione mi soddisfaccia completamente. Sento nel mio intimo che l’intero argomento è troppo profondo per l’intelletto umano: è come se un cane speculasse sulla mente di Newton. Ognuno speri e creda come può. Certo sono d’accordo con Lei che le mie opinioni non sono necessariamente atee. Il fulmine uccide un uomo, buono o cattivo che sia, per la straordinaria complessità dell’azione delle leggi naturali. Un bambino (che può poi rivelarsi un idiota) nasce per l’azione di leggi ancora più complesse, e non vedo perché un uomo o un altro animale non possa essere stato originariamente prodotto da altre leggi e queste leggi non possano essere state espressamente disegnate da un Creatore onnisciente, che prevedeva ogni evento e conseguenza futura. Ma più ci penso più aumenta la mia confusione, come probabilmente ho dimostrato in questa lettera.
La valutazione morale dei fenomeni naturali conduceva a contraddizioni insanabili. Noi ammiriamo, scrive Darwin nel manoscritto della grande opera di cui l’Origine delle specie è solo un riassunto, la tigre femmina che protegge con ferocia i suoi piccoli o la gallina che affronta il falco a costo della vita: questi istinti ci sembrano provvidenziali. Ma che dire dell’ape regina che cerca di pungere a morte le sorelle rivali appena nate? «Siamo soliti parlare di amore materno, ma qui abbiamo odio materno istintivo, inveterato; eppure sono la stessa cosa, se utili alla comunità, per la forza inconsapevole e impietosa della selezione naturale». E può chiamarsi perfetta una creatura la cui unica funzione consiste nell’accoppiarsi con la femmina in una unione che si conclude inevitabilmente con la morte? Ammiriamo i modi in cui tanti insetti trovano la femmina, la raggiungono, si uniscono a lei, «ma possiamo ammirare allo steso modo la produzione, al solo scopo di fecondare due o tre regine, di circa duemila fuchi, inutili all’alveare e incapaci perfino di procurarsi il cibo, che non servono nemmeno da spazzini, come i maschi delle vespe, e vengono uccisi anzi tempo dai loro parenti più stretti?» Ammiriamo il modo in cui le piante attirano la visita degli insetti, ma possiamo considerare altrettanto perfetta la fecondazione compiuta dalle conifere con uno sperpero incalcolabile di polline, vere e proprie nubi, così dense che sui ponti delle navi si possono raccogliere secchiate intere di questi preziosi granuli? Ammiriamo il meccanismo con cui una pianta carnivora cattura gli insetti, ma che dire dello «spreco immenso» di insetti portati via dal vento ancora attaccati alle gemme dell’ippocastano? Per ognuna delle migliaia di gemme che si trovano su un solo albero sono sacrificati almeno quattro insetti. «Ma in tutti questi casi, se l’animale o la pianta può lottare con successo con i suoi quattro concorrenti, il principio della selezione naturale è soddisfatto». E poco importa che l’uso del pungiglione causi talvolta la morte dell’ape, se in generale la capacità di pungere e la potenza del veleno sono utili alla specie: la selezione naturale questo vuole.
«Che nel mondo vi sia molta sofferenza – leggiamo in un’altra lettera – nessuno mette in dubbio. Alcuni hanno tentato di spiegarlo riferendo tutto all’uomo e immaginando che serva al suo miglioramento morale. Ma il numero degli uomini al mondo è nulla a confronto di quello di tutti gli altri esseri senzienti, e questi spesso soffrono molto, senza alcun miglioramento morale. Questo vecchissimo argomento dell’esistenza del dolore contro l’esistenza di una Causa Prima intelligente mi sembra avere molta forza. Invece l’esistenza di tanto dolore […] si concilia bene con l’idea che tutti gli esseri viventi si siano sviluppati per variazione e selezione naturale». La teoria della selezione naturale dava dei processi naturali spiegazioni compatibili con l’esistenza del male. Spiegazioni, non giustificazioni. Se all’intervento diretto di Dio si sostituisce una legge di natura, allora si possono ammettere difetti nell’opera del creatore. Ma è di un Creatore difettoso che ha bisogno l’uomo di fronte all’enigma dell’universo? Darwin, è stato scritto, capì che «l’uomo moderno preferisce una sofferenza senza senso a una sofferenza presentata come comprensibile perché voluta dall’alto»; egli apparteneva «a quel tipo di negatori di Dio che desideravano un Dio migliore di Dio».
Note
1. Riassumo in queste pagine il contenuto di alcuni articoli che ho pubblicato in diverse sedi e di alcuni paragrafi del mio libro Colpa di Darwin? Razzismo, eugenetica, guerra e altri mali, di recente pubblicazione dalla UTET di Torino, al quale rimando per fonti primarie e bibliografia.
2. Se ci pensate, la stessa espressione "disegno intelligente" è stupida: se non è il prodotto di una intelligenza, che disegno è? Un livello pari di ridondanza fu raggiunto dal burocratese italiota ai tempi in cui si parlava, negli enti di ricerca, di "progetti finalizzati", intendendo quei progetti che, a differenza di altri riguardanti la ricerca di base, prevedevano applicazioni pratiche o immediate. Ma se un progetto non è finalizzato, che razza di progetto è? Eppure coloro che parlavano così gestivano risorse pubbliche.
3. Salvo una sopravvivenza in Unione Sovietica protrattasi fino agli anni Cinquanta e dovuta al rifiuto ideologico, e politicamente imposto, della genetica mendeliana.
4. Il confronto fra le giraffe lamarckiane e le giraffe darwiniane non si trova nella prima edizione dell’Origine delle specie, ma in una aggiunta successiva (Darwin 1974, p. 266), e non esattamente nei termini in cui è diventato canonico e di cui mi sono servito per comodità. Quanto a Lamarck, i suoi esempi preferiti erano tratti dagli uccelli.
5. J. Ratzinger, J. (Benedetto XVI) 2006, Im Anfang schuf Gott. Vier Münchener Fastenpredigten über Schöpfung und Fall. Konsequenzen des Schöpfungsglaubens, Freiburg, Johannes Verlag Einsiedeln, 1996; trad. it. di C. Danna, In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e il peccato, Torino, Lindau.
6. Schönborn, C. 2005, Finding Design in Nature, «The New York Times», 7 agosto; Ratzinger, op. cit., p. 41.
7. P.-S. de Laplace, Essai philosophique sur les probabilités, Courcier, Paris 1814; trad. it. di O. Pesenti Cambursano, Saggio filosofico sulle probabilità, in Opere, UTET, Torino 1967, pp. 241-247.
8. Insetti imenotteri. Le femmine hanno un ovopositore perforante con il quale depongono le uova nel corpo dei bruchi di lepidotteri e di altri imenotteri.