Allarme. C’è un Virus nella stanza!
Un tentativo di ricostruzione delle primissime riflessioni psicoanalitiche sulle fasi precoci della pandemia.
Sergio Anastasia, Pietro Roberto Goisis
“L’uomo che sta dentro, volta la testa verso di loro (…)
si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca
si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così,
come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire uno sportello,
Sono cieco.”
Saramago, Cecità, 2010
Introduzione.[1]
Sin dai primi battiti di ciglia della pandemia di coronavirus, gli psicoanalisti hanno compreso di essere dinanzi a qualcosa di molto grande, di cui non era possibile comprendere davvero l’entità e la pericolosità, se non momento per momento.
Immediatamente, la comunità psicoanalitica si è riorganizzata intraprendendo nuove e vecchie vie di confronto, annullando ad esempio un’assemblea sociale – agendo in tal senso in modo pioneristico – e attivando immediatamente un dibattito. Si è per questo utilizzato il canale virtuale ufficiale più immediato di cui la Società disponeva: la Mailing List.
Sin da subito, la Comunità si interrogava su quelli che sarebbero stati i temi in gioco – ampi e diversi – che aprivano scenari assai complessi, correlati anche all’utilizzo, poi, in un secondo momento, del “setting digitale”.
Questi riadattamenti e riposizionamenti della pratica clinica, non sono stati di certo semplici e indolori. Più di un collega ha richiamato, in quei primissimi momenti, l’esigenza di ricorrere ai Maestri, alla “saggezza” maturata attraverso un secolo di storia, che ha visto impegnati gli analisti in altri contesti emergenziali, come ad esempio la guerra.
La necessità di riparare a una funzione del pensiero, necessaria al lavoro analitico, messa a dura prova dal vortice di accadimenti che si andava a materializzare. Tutti molto gravi e difficili da elaborare.
Non ci addentreremo qui, per ovvie ragioni di spazio, su ogni specifico aspetto emerso durante le primissime concitate fasi dell’emergenza, come per esempio le caratteristiche e il funzionamento del setting digitale, poi resosi indispensabile. Per questo e per gli altri temi rimandiamo ai riferimenti bibliografici, o ad altri lavori nostri o dei colleghi.
Qui, ciò che vorremmo cercare di fare è recuperare quei primi movimenti, le prime battute, le incertezze, i dubbi e le domande che hanno poi contribuito – attraverso l’apporto di tutti – alla riorganizzazione collettiva del dispositivo analitico.
Al di là delle differenze di orientamento interno, ma anche di situazione reale di pandemia esterna, che ricordiamolo ha seguito percorsi differenti da regione a regione e di città in città.
Allarme. C’è un Virus nella stanza!
È il 22 febbraio, quando il Presidente della S.P.I. Anna Nicolò manda a tutti una mail che scuote gli animi, nella quale si domanda se non sia prudente annullare l’assemblea dei soci che ci sarebbe stata di lì a una settimana. La decisione viene rinviata e come da promessa, il giovedì successivo arriva la comunicazione: l’assemblea viene rimandata a data da destinarsi. Molti però non leggono la comunicazione prima di recarsi alla stazione il giorno dopo e prendere un treno in direzione Milano.
L’inconveniente scuote sin da subito le coscienze e prime tra tutte la collega De Luca scrive in mailing list una riflessione accorata, forse un po’ indispettita, dove si può individuare in nuce la complessità di tutti gli elementi con i quali, come analisti, ma anche come persone, sarà necessario confrontarsi di lì a diverse settimane.
Scrive De Luca: “L’Esecutivo Nazionale (ndr: della Società Psicoanalitica Italiana) ha voluto pendersi la responsabilità (ndr: di annullare una riunione nazionale), andando oltre la responsabilità (certamente dovuta) di rispettare le norme e le restrizioni diffuse dalle autorità sanitarie. Magari facciamo parte di un gruppo sociale selezionato, in grado di avere informazioni e di sapere quali sono le precauzioni da prendere? (..) questa decisione che arriva dall’Esecutivo ci infantilizza? (…) Io non sono medico, ma, come tutti noi, ho amici e familiari competenti che mi hanno informato prontamente (consultando i famosi “infettivologi”) di come era meglio che mi comportassi. Stamattina, saputo che stavo tornando a casa prima, mi hanno detto che la SPI era deludente, che proprio noi che dovremmo essere dei fari nel pensare al panico, diamo un pessimo esempio nel momento in cui il panico è un pericolo reale”. Aggiungendo poi in un secondo momento: “Certo è necessario condividere la paura data dalla gravità di un pericolo sconosciuto e improvvisamente molto vicino. Vero! Certo! Ma magari non tutti insieme nello stesso momento! Se qualcuno non è troppo spaventato, ben venga !”.
L’iniziale discussione sul fatto se fosse stata la decisione giusta o meno, quella di sospendere l’Assemblea, nel frattempo però viene velocemente superata dagli accadimenti: La S.P.I., di fatto ha anticipato solo di diversi giorni, quello che sarebbe accaduto di lì a poco a tutte le manifestazioni pubbliche, di qualsiasi carattere.
Il vortice degli accadimenti interroga quindi la comunità scientifica su: quali conseguenze di quello che sta accadendo? Come far fronte a una condizione collettiva che, con le dovute oscillazioni, può portare sino a condizioni di distacco, o addirittura di crollo psichico?
Quali meccanismi di difesa si attivano e in quale modo? Le categorie e le strutture teoriche, così come le capacità di tenuta emotivo-affettiva degli analisti, possono far fronte alla situazione di emergenza?
Come comportarsi? Cosa dire e non dire? Cosa interpretare e cosa no? Persino cosa pensare e cosa no?
Tutte domande, che un po’ come la medicina degli infettivologi, non hanno avuto risposta per diverse settimane. Se non in après coup, e se non attraverso una co-costruzione solidale tra analista e paziente – coinvolti entrambi allo stesso modo nella vicenda – ma anche e soprattutto tra analista e analista, in una dimensione di collettività. Scrive Schinaia su Spiweb in quei giorni: “Nel saggio del ’29, Il disagio della civiltà, Freud propugna come necessaria la limitazione individuale nella costruzione della civiltà, e, in tal modo, sembra voler proporre le basi per un’etica della collaborazione e della solidarietà, in cui ognuno rinuncia a qualcosa in nome del bene comune. Sublimazione, Prudenza, Condivisione, Rispetto, Cura, Conduzione, Responsabilità sono le virtù con le quali dovremmo far fronte alle difficoltà attuali; esse esprimono tutte, seppure su piani diversi, la necessità di una rinuncia pulsionale”.
Perché è così importante che avvenga questa rinuncia?
Perché, soprattutto inizialmente, i meccanismi di funzionamento appresi sembrano improvvisamente perdere di validità, non perché inefficaci, ma perché inseriti in un sistema globale dove persino ogni gesto ha un valore differente. A partire dai saluti, dai modi di interagire, di rivolgersi gli uni agli altri, di dirsi le cose, di avere degli scambi. Cambiano le informazioni e i sistemi di valutazione.
Per quanto riguarda i pazienti, la comunicazione di un invito a cena rivolto ad altri, ad esempio va vista come un tentativo di recuperare una normalità dentro la straordinarietà di quello che sta accadendo? Oppure come una possibile dimostrazione di superficialità o incapacità di processare la realtà?
Con l’avvento del Coronavirus è il sistema generale a essere andato in tilt. Anche come psicoanalisti.
Ogni singolo gesto rappresenta una precisa simbologia e contenuto. Come si apre una porta, come si salutano le persone quando entrano ed escono, dove si posano le mani durante i colloqui, come tossire e starnutire, a che distanza stare (chi l’aveva mai misurata prima?).
Nella stanza di analisi, si passa rapidamente dalla tradizionale circolazione di idee, alla com-penetrazione di “oggetti psichici” tra analista e paziente, in cui non si capisce più se la paura ad esempio sia “dell’analista” o “del paziente”?
Il contatto stesso, anche a distanza, è esso stesso patogeno e portatrice di malattia/ulteriori elementi beta, o costituisce ancora ancora una barriera di pensabilità e quindi di protezione dalla contaminazione di questi?
Per rispondere a questi quesiti, come psicoanalisti ci si è trovati a dover pensare non soltanto al processo analitico, ma anche a banali e concreti elementi di realtà, come ad esempio: quanto il soggetto fosse attrezzato (fisicamente?) per far fronte all’emergenza? Quanto distante abitasse, a che vita sociale avesse, chi frequentasse, con chi abitasse? Una sorta di “visita obiettiva” dominata da elementi (sensoriali?) assolutamente impercettibili e soggettivi.
Dove l’unica oggettività per alcuni degli analisti era quella che suggerisce, in quanto sopra i 65 anni e quindi “anziani”, sin da subito, di stare a casa.
E allora, tra patologia e normalità, dove si pone il confine tra responsabilità e incoscienza, tra etica e sacrificio? Cosa è sana rinuncia pulsionale, o paura eccessiva?
Dottore, come sta?
Sin dai primi istanti, il gruppo di psicoanalisti comincia a interrogarsi sul come mai le reazioni più contenute rispetto al contagio emotivo – che in quei giorni spingeva decine di migliaia di persone a precipitarsi nei supermercati ad accaparrarsi scatolette di tonno, ceci e acqua minerale – erano proprio quelle di pazienti trattati per quadri clinici più franchi.
Alla base di questo particolare fenomeno è possibile che sin da subito abbia giocato un processo di identificazione proiettiva, ovverosia l’immagine interiorizzata di un’analista capace di tenere argine alla “psicosi” collettiva, capace cioè di leggere (reggere) i segnali indecifrabili che provenivano dalla realtà.
Con l’avvento del virus, malattia e morte arrivano a bussare forte alla porta. E, forse, chi – attraverso un lavoro analitico – ci si è già dovuto confrontare, ha potuto fare fronte con gli strumenti per codificare la realtà, costruiti in analisi.
Il lavoro di consultazione con i pazienti più gravi sembrerebbe aver consentito la ricostruzione della tessitura emotiva-affettiva necessaria per processare informazioni relative a eventi assai difficili e complessi dal punto di vista psichico, come appunto questa pandemia. Un lavoro, attraverso il supporto della mente ausiliaria dell’analista, di ricostruzione delle connessioni tra accadimenti concreti del mondo esterno e quelli emotivi del mondo interno.
Al punto, all’incipit della pandemia, che un paziente ipocondriaco dice all’analista: “ma come si fa ad avere paura di prendere sta cosa dai cinesi? … a me sta gente mi pare tutta matta…”.
L’identificazione proiettiva con un Io capace di far fronte all’emergere di angosce, provenienti dall’esterno/interno, ha permesso al paziente di strutturare un’epidermide sottile, tale da poter com-prendere (prendere all’interno) parte di ciò che gli stava accadendo intorno (la minima parte, la parte-vaccino).
Effettivamente, all’inizio della pandemia, ogni psicoanalista si è appunto chiesto, con preoccupazione, come avrebbero reagito i pazienti con ipocondria. Stupendo tutti, compreso sé stessi, si è notata una significativa capacità di “tenuta” e gestione del momento.
De Luca ha portato queste considerazioni in Mailing List: “I più ipocondriaci non si sono preoccupati più di tanto, in linea con le osservazioni che Freud faceva sul diminuire delle nevrosi durante i periodi di conflitto bellico. La cosa più importante era ed è per tutti riuscire a conservarsi lucidi, capire quanto e quando aver paura (e questo non sono certo io a deciderlo per loro) cioè a non “bloccarsi” poiché la paura può bloccare tutto in maniera indiscriminata.”
Riflettendo su tutti questi casi abbiamo ipotizzato la seguente spiegazione. Ciò che fa e ha fatto andare in crisi il “sistema” e la possibilità di pensare è stata la gestione di un’emergenza e di una condizione per la quale lo stesso sistema non era preparato e attrezzato. Al contrario un ipocondriaco, aiutato dal suo analista, è oramai ben allenato, pronto e abituato a gestire questo tipo di situazione…e guarda gli altri che si agitano come fossero degli alieni.
Un altro paziente, dai tratti estremamente ritirati, riconosce che: “Siamo tutti coltivatori diretti della nostra paura”. L’incertezza collettiva diviene un terreno comune cui non è possibile sottrarsi, al punto che il cosiddetto “occhio esterno” finalmente pare essere in sintonia con l’”orecchio interno” per dar voce a sentimenti altrimenti imprigionati nel buio e nella paura di non essere ascoltati.
Lo spazio individuale viene percepito come vulnerabile e in questo si rende necessario sin da subito investigare quali conseguenze ci siano nel possibile passaggio dal setting tradizionale a quello digitale che di lì a pochi giorni sarà reso indispensabile, visto il rapido evolvere della situazione.
È il 4 marzo. Il Presidente del Consiglio emana il decreto: “Misure per il contrasto e il contenimento sull’intero territorio nazionale del diffondersi del virus COVID-19”.
Il virtuale, da cyberspazio investito il più delle volte di una connotazione negativa, perché utilizzato dai pazienti per fughe dalla realtà, in videogiochi, chat di incontri, social, diviene realtà. Molti analisti – soprattutto del Nord Italia, colpito più e prima del resto del paese – cominceranno a trasferire le sedute proprio in un setting digitale. L’ipotesi che molti di loro avevano già suggerito ai pazienti, diviene un’indicazione cui attenersi per una questione etica e di responsabilità, fatti salvi alcuni specifici casi che richiedono particolari accorgimenti. Come ad esempio per quelle situazione di pazienti anziani e poco avvezzi alle tecnologie; piuttosto a coloro che non dispongono di una sufficiente privacy all’interno della propria casa; o coloro che fino all’ultimo hanno avuto il bisogno di prendere la giusta distanza, né eccessiva, né poca, rispetto agli eventi, prima di potersi allontanare fisicamente dalla stanza di analisi.
Come nel caso di una donna manager in carriera, che dovendo trasferire in remoto tutta la sua attività professionale, sente perdere il valore di sé con la perdita dell’immediatezza dello sguardo dell’altro su di sé. Fino quasi al timore di impazzire e di vedere andare tutto in frantumi.
Il cambiamento di setting delle sedute, pare abbia permesso alla paziente di integrare dentro di se questa nuova esperienza e fare così posto ad aspetti di se stessa, che più da più vicino non potevano essere mostrati/visti. Aspetti più spontanei, genuini e affettivi.
Altra situazione cui ci si è trovati a gestire, è quella di pazienti che per propria storia personale non riescono all’inizio dell’emergenza a comprendere quale atteggiamento avere nei confronti di sé stessi e della malattia. Molti pazienti si sono presentati, all’inizio della pandemia, agli studi degli psicoanalisti con la febbre o starnutendo, rendendosi conto solo lì, durante le sedute, che le loro attenzioni erano rivolte a tutto, tranne che a se stessi. E, come nel caso di S., potendo elaborare anche il transfert rabbioso verso un analista/genitore percepito come – al contrario di loro – più attrezzato e, per qualche ragione, immune alla malattia.
Altri, come Z., all’opposto, hanno cominciato ad aprire le sedute del Covid-19 con una domanda: “Dottore…(per davvero), come sta?”.
Z. ha da sempre manifestato un certo distacco dall’analisi, interpretato come dovuto a un’eccessiva attenzione alla forma, ma tale da far ogni tanto interrogare l’analista sull’effettivo coinvolgimento del paziente nella terapia. Nel setting digitale, il paziente sembra finalmente ESSERCI per davvero. E anche lui, l’analista, sente finalmente di esserci nella mente del paziente.
L’analista, infatti, ha effettivamente dei sintomi influenzali, che l’altro, dall’altra parte della videocamera non può di certo vedere.
Nella paura e nella distanza, Z. sembra aver trovato finalmente il modo di stare e sentirsi vicino. Come se disinvestendo lo spazio sensoriale della sua presenza, potesse esserci lo spazio per “sentire” dentro di sé, per davvero, la presenza del suo analista.
Conclusioni.
Sin da subito, la sensazione condivisa era che come analisti confidavamo sul fatto che, con le dovute eccezioni, i nostri pazienti avrebbero affrontato con “competenza” il momento che stavamo vivendo. Cosa che ha trovato conferma, almeno in quelli che abbiamo incontrato e che abbiamo provato sinteticamente a raccontare. Questo è apparso nei temi affrontati, negli stati d’animo, nelle emozioni mostrate, nei comportamenti raccontati. Pur tra oscillazioni (rilevate da altri colleghi), sul continuum minimizzazione-apprensione. Insomma, ci è sembrato di poter dire che l’appartenere a un contenitore, abbia permesso a noi come psicoanalisti e ai nostri pazienti, di cavarcela meglio della maggior parte di tanti altri cittadini. Evidentemente il lavoro psichico in atto, l’avere uno spazio e un interlocutore sono stati per noi e per loro fondamentali.
Alcune risposte delle Istituzioni hanno seminato disorientamento, mentre la Psicoanalisi gradualmente entrava in contatto con tutta la drammaticità della situazione. Lasciandosi gradualmente infettare da ciò che accadeva e organizzando le proprie “difese immunitarie”, in modo da non ammalare i propri pazienti.
Sempre in Mailing List, all’inizio della pandemia, Donatella Lisciotto, siciliana, ha raccontato a tutti con sincerità che “col passare dei giorni, io ho smesso di far finta di non ascoltare la mia angoscia e faccio i conti con una silente inquietudine”.
Anche al nostro interno sono stati messi in atto vari meccanismi di difesa, “la scissione, l’intellettualizzazione, la rimozione, il dislocamento, la repressione, il diniego, la banalizzazione” (ibidem).
A questo proposito sono belli i pensieri di Anna Ferruta che, in un articolo pubblicato sul sito del Centro Milanese di Psicoanalisi (2020), ha messo in evidenza il piacere della responsabilità personale, del prendersi cura della propria condizione come antidoto sia alla paura sia all’indifferenza, perché ha permesso, sin da subito, di scoprire energie sconosciute, di utilizzarle per sé e di metterle a disposizione degli altri.
È estremamente difficile riassumere la quantità di cambiamenti che abbiamo attivato, tra emergenza, cautele individuali, suggerimenti sanitari, decreti governativi e quant’altro. Anche perché nelle sole due settimane inziali della pandemia, il quadro generale ha mostrato tali cambiamenti che hanno viaggiato ad una velocità infinitamente superiore a quella delle nostre stesse capacità di pensiero e di adattamento.
La globalità transpersonale ha invaso il campo, con “oggetti” itineranti, inafferrabili e pericolosi, agitando consonanze e generando dissonanze.
La flessibilità individuale dell’analista, la sua capacità di muoversi tra omogeneità e diversità, tra consuetudini, timori e rigidità personali o apprese, ha permesso che la relazione analitica permanesse e resistesse all’invasione.
Negli studi sono comparsi gel disinfettanti e procedure di lavaggio condiviso delle mani, o altre più difficili come la gestione dello spazio, non più la cosiddetta “giusta distanza”, ma quella misurabile, come dicevamo in precedenza, in metri e centimetri. Oppure abbiamo dovuto gestire la rinuncia ad aspetti fondamentali del nostro modo di stare con gli altri, come la stretta di mano ad inizio o fine seduta, o ogni gesto spontaneo che a noi o ai nostri pazienti veniva abituale fare. Come quel giovane adolescente che ogni fine seduta trovava un modo sempre sorprendente di salutare il terapeuta e ringraziarlo, una volta con una pacca sulla spalla, un’altra dandogli un “cinque”, talvolta abbracciandolo con trasporto. Tutto da rivedere…
Il contagio si trasferisce dalla realtà fino alla stanza di analisi, ma soprattutto agli albori della pandemia in Italia, sembra quasi, viene da dire, che “è solo nella cornice dell’analisi che può essere elaborato” (Quinodoz, 2005, pag. 137)
Vorremmo chiudere con le parole di un collega, il quale ha subito risposto al nostro appello, mandandoci un breve diario, dal quale selezioniamo questo brano che ci sembra esplicativo (modificato, in modo tale da non rendere riconoscibili i protagonisti, per evidenti questioni di privacy).
È il 10 marzo, non è ancora passata una settimana dal Primo Decreto Conte.
“Giornata campale. Alle 8 ricovero di mia moglie. Tutto il personale con mascherina e guanti. Non mi fanno entrare. “Forse domani”, mi dicono “alle 12, ma solo per pochi minuti”. Segue lunga giornata su Skype con quasi tutti i pazienti. Alcuni di loro sono coinvolti in prima linea. Sono come al fronte. Nel frattempo stanno morendo tantissime persone con patologie respiratorie gravi e gravissime. Le linee-guida di intervento cambiano di giorno in giorno. Non ci sono più posti letto, i respiratori scarseggiano. Come analista mi sento traumatizzato, come i miei pazienti. Sono stato troppo ottimista. E domani operano mia moglie. In un ospedale. E mi faranno entrare solo per pochi minuti. Mi viene in mente Bion, le sue “War Memories”. Sto aiutando i miei pazienti a scrivere le loro “War Memories”. Sto aiutando me stesso a scrivere le mie”.
BIBLIOGRAFIA
Ambrosiano L. (1997), Cristallizzazione, dissolvenza e trasformazioni, in: Gaburri E., a cura di, Emozione e interpretazione. Psicoanalisi del campo emotivo, Bollati Boringhieri, Torino
Bollas C. (2018), L’età dello smarrimento. Senso e malinconia, Raffaello Cortina Editore, Milano
Bion W.R., War Memories. 1917-1919, Karnak, London, 2015
Ferruta A. (2020), Coronavirus: Una Sfinge del nostro tempo, https://www.cmp-spiweb.it/coronavirus-una-sfinge-del-nostro-tempo/
Fiorentini, G. (2012), L’analisi via Internet: variazioni di setting e dinamiche transferali-controtransferali, Rivista Psicoanal, 58(1), 29-45
Freud S. (1915). Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte. O.S.F., 8, Bollati Boringhieri
Freud S. (1929). Il disagio della civiltà, 1929, OSF, 10, Bollati Boringhieri
Goisis P.R. (2001), La psicoterapia on-line: tra teoria e pratica, http://web.tiscali.it/sipcp/Aree/2_psico_clinica/goisis.html
Quinodoz J.M., Leggere Freud. Scoperta cronologica di Freud, Borla, Roma, 2005
Schinaia C. (2020), La psicoanalisi all’epoca del coronavirus, https://www.spiweb.it/cultura/la-psicoanalisi-allepoca-del-coronavirus/
[1] Ringraziamo i colleghi: Simonetta Diena, Beatrice Schiassi, Luca Nicoli, Donatella Lisciotto, Ambra Cusin, Vera Bolberti, Paola Orofino, Sarantis Thanopulos, Angelo Moroni, Jones De Luca, Laura Ambrosiano, Cosimo Schinaia, Marcello Turno, Daniela Scotto di Fasano.