Pisa, Palazzo Blu, 12 Ottobre 2013 – 2 Febbraio 2014
Milano, Palazzo Reale, 24 Ottobre 2013 – 9 Marzo 2014
Maria Grazia Vassallo Torrigiani
Il critico e filosofo dell’arte Arthur Danto, recentemente scomparso, ha dedicato gran parte della sua riflessione alle avanguardie artistiche del ’900, a quei movimenti che hanno fatto dell’Arte la “trasfigurazione del banale”, per usare una sua nota formulazione.
A fondamento della sua teoria c’è naturalmente Duchamp e il suo ready-made. Ma c’è soprattutto la domanda che Danto si pose entrando nel 1964 nella galleria di New York dove Andy Warhol esponeva le sue Brillo Box [fig.1], comuni pagliette per lucidare le pentole utilizzate da migliaia di casalinghe americane. Perché ciò che si poteva acquistare in qualunque supermercato non era un’opera d’arte, mentre le Brillo esposte da Warhol lo erano? Intanto, si rispose Danto, le pagliette risultavano avulse dal contesto consueto e collocate in un luogo di “sacralità” artistica, e dunque sottoposte a quell’operazione di riconfigurazione provocatoria e spiazzante che aveva già portato Duchamp ad esibire un orinatoio in un museo. Ma soprattutto, e in ciò diversamente da Duchamp, Warhol non si era limitato a riproporre l’oggetto banale in sé per sé, ma ne aveva proposte delle copie gigantesche, amplificate nelle proporzioni, come a suggerire l’idea della amplificazione del fascino e del potere che un innocuo prodotto commerciale può giungere ad esercitare sul consumatore di massa in una società dominata dalla merce, dalla persuasione occulta della pubblicità e dalla risonanza dei media.
Di sicuro Warhol ha sempre insistito nel negare ogni possibilità di interpretazione del suo lavoro: “Se volete sapere tutto su Andy Warhol, guardate la superficie: delle mie opere, dei miei film, di me stesso, e mi ci troverete. Non vi è nulla dietro la superficie”. C’è da chiedersi fino a che punto credere alle sue parole, e di quanta ambiguità risultino intessute dichiarazioni ostentatamente ciniche e provocatorie quali: “Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina”; oppure: “Ho sempre pensato che la mia pietra tombale dovesse essere anonima. Niente epitaffio e nessun nome. Anzi, a dire il vero dovrebbe esserci scritto ‘finzione’”.
Orfano di padre – un minatore polacco emigrato a cercar fortuna in America, nella città mineraria di Pittsburgh – l’infanzia di Warhol fu segnata dall’isolamento sociale, da notevoli difficoltà economiche e problemi di salute. Crisi convulsive e periodi di malattia lo costringevano per settimana a letto, dove trascorreva il suo tempo guardando fumetti e sfogliando riviste e periodici popolari. La madre aveva una certa capacita come grafica, e il ragazzo cominciò a collaborare con lei facendosi apprezzare nel mondo dell’editoria di New York, città dove madre e figlio si trasferirono e vivendo insieme fino alla morte.
Parabola molto americana, quella di Andy: il povero ragazzo di provincia che diventa idolo dello star-system, icona artistica e di costume con la sua Factory, realizzando peraltro quel sogno di riscatto sociale in cui suo padre aveva fallito!
Ad uno psicoanalista viene da chiedersi quanta umiliazione, quanta sofferenza, rabbia e confusione siano state accuratamente silenziate dietro la superficie patinata, lo sfrontato decorativismo, i colori acidi e psichedelici. Per emergere dall’ombra della deprivazione esterna, e certamente anche interna, c’è l’invenzione di un “personaggio”, la sistematica costruzione ed esibizione di sé come esteta eccentrico e trasgressivo, imperturbabilmente “cool” e distaccato.
Il suo lavoro è comunque per certi versi profetico, nel farsi celebrazione – ma ambiguamente anche denuncia – delle trasformazione in atto nella società americana dell’epoca, che anticipavano quanto poi si sarebbe diffuso a livello globale: il trionfo delle merci e la spettacolarizzazione dell’esperienza, da un lato, e l’anonimato, la serializzazione, il vuoto di senso, l’appiattimento delle identità e delle coscienze individuali dall’altro – quell’ “uomo ad una sola dimensione” di cui in quegli anni andava scrivendo Herbert Marcuse.
La mostra di Pisa (quella di Milano non l’ho visitata) presenta una bella e accurata proposta per accostarsi al lavoro di Warhol, per avvicinarsi al suo linguaggio popolare e al contempo sofisticato, e per attraversare il suo universo culturale di riferimento costituito dai feticci dell’immaginario collettivo: la Coca-Cola, la Campbell’s Soup, Marylin e Liz Taylor, i personaggi dello spettacolo ma anche quelli della politica [fig. 2 e 3], i fumetti e la pubblicità, tutti trasformati in icone e miti del nostro tempo. Il percorso espositivo si sviluppa in sezioni tematiche che comprendono anche i lavori nuovi e sorprendenti della fase finale – per me meno noti – e quelli dedicati ad illustrare la violenza della società americana, in cui centrale è il tema della violenza e della morte ridotte ad un fatto di cronaca, od immagini spettacolarizzate e reiterate dai media fino ad anestetizzarne l’angoscia e la tragicità. Di grande interesse anche le opere esposte che documentano la ricerca su un tema che lo ha accompagnato costantemente, rielaborato via via con tecniche diverse: l’autoritratto, come se Warhol fosse ossessionato da una spasmodica ricerca di un’immagine che lo rifletta e lo rappresenti, in cui possa prender forma un’esperienza identitaria fluida e indeterminata [fig.4 e 5].
1. Andy Warhol, Brillo Boxes, 1964-1968, polimeri sintetici e inchiostro serigrafico su legno, 43,5×43,5×43,5 cm, Museu Coleçaõ Berardo, Lisbona
2. Andy Warhol, Liz Tylor, 1964, litografia su carta, 58,7×58,7 cm, The Sonnabend Collection, New York
3. Andy Warhol, Mao, 1973, acrilico, matita e serigrafia su lino, 127×106,7 cm, The Andy Warhol Museum Pittsburgh
4. Malcom Kirk, Andy Warhol, 1966, stampa ai sali d’argento, 25,4×20,6 cm, The Andy Warhol Museum, Pittsburgh
5. Christopher Makos, Altered images, 1981, stampa ai sali d’argento 20,5×25,3 cm, Teutloff Photo+Video Collection