Cultura e Società

“Abbracci” Safet Zec. Venezia 2019. Commento di Alberto Semi

20/05/19

Se a Venezia passate per la Riva degli Schiavoni, avviandovi alla Biennale, fermatevi alla Chiesa della Pietà, la chiesa che fu di Antonio Vivaldi e che ospita, fino alla fine di ottobre, “Abbracci” di Safet Zec. 57 opere di varie dimensioni, alcune anche molto grandi (che, visto il contesto, si potrebbero qualificare come pale d’altare) e di varie tecniche dall’olio su tela alla tempera su carta e poi su tela, alla tempera e carta su tela. Tutte, mostrano il tentativo di elaborare la tragedia della morte di una giovane coppia di innamorati, Admira e Boško, ventenni di Sarajevo, assassinati dai cecchini all’inizio del 1993 sul ponte Vrbanja, mentre  cercavano di fuggire verso la libertà dall’assedio che già avvolgeva Sarajevo. Giovani, innamorati, appartenenti a gruppi etnici diversi. Prima fu colpito Boško, poi Admira mentre si era trascinata su di lui. Morirono abbracciati e furono impietosamente lasciati lì, per sette giorni, senza nemmeno diritto ad una sepoltura. Appunto Abbracci è il titolo del ciclo pittorico di Zec.

Le opere di Zec non lasciano indifferenti. Ed è questo il loro scopo, raggiunto.

Di fronte alla morte, alla morte traumatica, alla tragedia dell’impossibilità di amarsi, l’arte consente una rielaborazione? Permette di guardare in faccia, oltre l’odio, l’opera di Thanatos? Consente di trasformare, attraverso l’opera dell’artista, la disperazione in affermazione di Eros, in creazione di pensieri, in vita nella memoria, come indica Esad Durakovic nella sua breve introduzione al catalogo della mostra?

Questa mostra ci interroga sulla possibilità di creare simboli là dove Thanatos vorrebbe slegare, disunire, spezzare, là dove Thanatos vorrebbe poter impedire di pensare e di sentire. Se la tragedia di Admira e  Boško può servire a farci pensare e farci sentire, davvero i due innamorati continuano a vivere. E a farci sentire anche la colpa di aver tollerato – noi europei – non solo la loro morte ma quella di una città, Sarajevo, assieme alla quale è morta una certa possibilità di convivenza umana.

Ho chiesto al figlio dell’artista la fotografia di una delle opere esposte, che qui trovate. Ho scelto questa perché domina il bianco, un bianco forse ancora più angosciante del sangue che pure cola in altre tele. Un bianco che acquista mille forme ma che sta anche perdendo ogni forma e che solo le braccia dell’amore trattengono dal decadere a straccio. O che solo le braccia degli innamorati può riempire di significato.

La mostra è a ingresso gratuito ma si paga con l’acuto senso di dolore che trasmette, quasi che l’artista debba ricevere un’attestazione di solidarietà, di condivisione della passione e di gratitudine per l’occasione che ci dà di poterci chiedere quanto e come l’arte possa aiutarci a pensare la morte. Una domanda senza tempo, certo, una domanda anche senza una risposta valida per sempre e per tutti ma sostanzialmente una domanda che ci aiuta a sentirci umani.

Antonio Alberto Semi

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