Per quest’anno, abbiamo pensato in primo luogo a coloro che vogliono
fuggire "via dalla pazza folla", per dirla con T. Hardy. Abbiamo dunque scelto
per voi non gli hit di stagione, le grandi mostre molto recensite e
pubblicizzate, sicuramente meritevoli di una visita ma che si possono meglio
godere in un altro momento, con meno stress e code al botteghino. Vi abbiamo
indirizzato verso sentieri meno battuti, dove tuttavia potrete scoprire qualcosa
in grado di ammaliarvi, interessarvi, stupirvi e, perché no, divertirvi.
Inoltre per chi non può rinunciare ad essere where the action is ,
cosa di meglio delle segnalazioni dalla vivacissima scena artistica newyorkese?
A cura di
Maria Grazia Vassallo Torrigiani
L’Adorazione dei pastori del Greco "di nuovo" in
Sicilia
Presso il Museo Interdisciplinare
Regionale Maria Accascina di Messina, è stata inaugurata, Venerdì 9
dicembre, la mostra L’Adorazione
dei pastori del Greco "di nuovo" in Sicilia.
L’esposizione del suggestivo dipinto del Greco
è stata ideata e curata da Caterina Di Giacomo, responsabile delle Collezioni
della struttura regionale.
"L’opera – spiega la Di Giacomo – proviene
dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini di Roma, e risulta
espressione significativa di quella inconfondibile cifra stilistica del grande pittore cretese
Domenico Theotokopoulos, detto El Greco (1541-1614), maturata fra le
suggestioni del manierismo veneto e la forte spiritualità spagnola."
"La scelta -aggiunge- è stata motivata oltre
che dal prestigio dell’opera, anche dalla sua storia legata alla Sicilia.
Infatti con il suo pendant raffigurante il
Battesimo di Cristo, risulta essere stata acquisita per la nascente galleria
nazionale a Palermo, presso un privato che la deteneva all’inizio del secolo
scorso e che la cedette allo Stato proprio qualche mese prima del fatidico
1908."
La natività di El Greco sembra la
rappresentazione di una danza. Un’immagine forte, toccante e promettente che
emana un’intensa sensazione di calore e accoglimento.
Sorprende la vivacità che conferisce un tocco
di modernismo e supera la sacralità del
contenuto. Il patos della scena è
sdrammatizzato dalla luminosità e dal movimento.
La realizzazione pittorica riproduce, tra
l’altro, la capacità della mente di raggiungere la possibilità di osare il
contrasto, superare l’ovvio, conciliare luce e ombra, contestualizza il
primario nell’attuale.
Sembrerebbe riduttivo, pertanto, definirla
soltanto "una natività".
Accanto al capolavoro del Greco la mostra
espone altre Natività, realizzate nello stesso periodo che testimoniano una
fase di particolare fervore culturale della città di Messina.
Tra i tanti un’attenzione và rivolta all’opera
"Ignoto, inizi sec XVII".
La scena composta, equilibrata, evoca un sentore di lentezza e una nuance di mestizia. L’espressione del
viso della Madonna, lievemente assente, accompagna e rinforza il movimento
corporeo che appare involontario e distratto, come se pensasse ad altro, le sue
mani sembrano sfiorare svogliatamente il Bambino piuttosto che cingerlo
nell’abbraccio canonico; S.Giuseppe, stancamente appoggiato al bastone, appare
anch’esso distaccato ed estraneo. La
nota più movimentata sembra data dai pastori (o dai Magi) che marcano la scena
più coinvolti.
Ciò che conferisce al dipinto una notevole
suggestione sono i vuoti dati dalla trama consunta che sembrano tinteggiare
altresì il dipinto.
"Mancanze " che sembrano "tracce" tantè che si
resta galvanizzati e, al contempo, sospesi, verso ciò che manca piuttosto
che verso ciò che appare.
La
natività riattiva in ognuno qualcosa di unico e primitivo. Spinge,
inconsapevolmente, a volgere uno sguardo all’indietro, o meglio, all’interno,
connettendoci all’Origine. L’immagine sacra della Madonna con in braccio il
Bambino rievoca il legame d’amore con la madre e ripropone la triangolarità con
una figura paterna piuttosto "accostata" alla coppia madre-figlio che non, a pieno titolo, protagonista, rassegnando la
paternità a tempi migliori.
Anche il termine "Adorazione" sollecita
vissuti legati all’amore adorante, quello che si consuma unicamente con
l’oggetto primario.
L’essere "meravigliosamente amati", illusione
che si rinnova in ogni innamoramento che si rispetti; condizione dove accade
tutto ciò che ci serve senza sapere che ci serva…..e poi, da lì, tutto il
resto.
Donatella Lisciotto
Divina
Follia. Freud archeologo
Galleria Civica di
Bolzano, 2 Dicembre 2011 – 29 Gennaio 2012.
"Tutti gli egiziani, cinesi e greci sono arrivati": così scriveva Freud
nell’Ottobre del 1938, pochi mesi dopo il suo arrivo a Londra, dove era stato
costretto a rifugiarsi per sottrarsi alla furia nazista che devastava l’Europa.
Solo all’ultimo aveva ceduto alle pressioni dei familiari e degli amici, che da
tempo insistevano affinché lasciasse Vienna; e tuttavia ottantaduenne, minato dal cancro alla
mascella, finalmente in salvo con i suoi cari, era rimasto in trepida attesa
che nella casa di Hampstead lo raggiungessero gli oltre duemila reperti della
sua collezione di antichità, oggetti e statuine di svariate epoche e civiltà
appassionatamente raccolti nel corso degli anni, e amorevolmente conservati
nelle stanze del suo studio in Berggasse 19. L’interesse collezionistico di
Freud era iniziato dopo la morte del padre, più o meno insieme alla autoanalisi
e alla consuetudine dei viaggi … viaggi nel mondo interno, viaggi nel passato,
desiderio di esplorare territori sconosciuti, bisogno di impadronirsi di oggetti
recuperati e salvati dall’oblio … Sappiamo che Freud faceva fatica a stare
lontano dai suoi amati "oggetti": quando si chiudeva alle spalle la porta dello
studio, per sedersi al tavolo da pranzo con la famiglia, poteva portarsene
dietro qualcuno, e collocarlo davanti al proprio piatto; oppure, durante le
vacanze estive degli anni ’30, ne faceva trasferire un certo numero nelle case
che affittavano con la tribù familiare; e ancora, durante le sedute con i
pazienti, poteva accadere che ne prendesse qualcuno, o lo indicasse durante un
discorso, per dare forma ad un pensiero, o creare un’associazione simbolica.
"Lo psicoanalista, come l’archeologo nei suoi scavi, deve scoprire
strato dopo strato la psiche del paziente, prima di raggiungerne i tesori più
profondi e preziosi". Queste parole di Freud – riferite proprio da un suo
celebre paziente, quello del caso dell’Uomo dei Lupi – ci mostrano come Freud
cercasse di veicolare intuitivamente ai suoi pazienti il senso del lavoro che
avevano intrapreso insieme, e il valore che per la psicoanalisi assumeva il
passato, utilizzando l’immagine della "metafora archeologica", che istituiva
un’analogia di immediata comprensione. Oltre al valore creativo, oltre al
piacere estetico, oltre al significato psichico profondo che poteva
rappresentare, la collezione di antichità di Freud è parte integrante del suo
immaginario storico e mitico, del suo universo mentale e culturale, e si
intreccia strettamente alla creazione e concettualizzazione della psicoanalisi
freudiana.
Attualmente, l’intera collezione è ospitata al Freud Museum di Londra –
nelle stesse stanze dove Freud trascorse l’ultimo anno della sua vita. Alcuni
pezzi, 18 per la precisione, sono stati selezionati e si possono vedere fino al
29 Gennaio a Bolzano, nelle sale della Galleria Civica, dove è esposta anche
una prima edizione di Totem e Tabù,
la cui stesura fu iniziata da Freud nell’estate del 1911 durante una vacanza
con la famiglia nel Renon. Un filmato, Percorsi
freudiani: Freud in Alto Adige e Trentino (di L. Giudiceandrea e F.
Marchioro), completa questa piccola ma preziosa "chicca" freudiana.
La piccola statuetta in bronzo di Athena, copia romana da un originale
greco del V° secolo, era la preferita da Freud. Non si tratta di un reperto
particolarmente prezioso, o di fattura così elegante, ed è anche "priva della
lancia" (castrata?), come Freud ebbe a sottolineare mostrandola alla sua
paziente H. Doolittle. Eppure quel piccolo manufatto che rappresenta la vergine
guerriera partorita dalla testa di Zeus, e che incarna la ragione, era la sua
favorita (… è assolutamente fuori luogo e impertinente qualunque associazione
con la figlia Anna?).
Ad Athena era riservato il posto centrale nell’emiciclo degli idoli e
divinità collocate sulla scrivania di Freud, anche se risulta assente nelle
foto dello studio di Vienna scattate da Engelman qualche settimana prima che
tutto venisse imballato per il trasferimento a Londra.
Nell’attesa di ricevere dalle autorità naziste il permesso di esportare
la sua collezione, proprio per il grande valore che la statuetta di Athena
rivestiva per lui, Freud l’aveva affidata alla principessa Bonaparte affinché
di nascosto la portasse al sicuro lontano da Vienna (insieme ad un altro
reperto, il Jade Screen), per essere certo di poter salvare almeno questi due
oggetti. E Athena fu la prima a tornare in suo possesso, durante la sosta a
Parigi nel viaggio d’esilio verso Londra.
Maria Grazia Vassallo Torrigiani
Picasso
Palazzo Blu, Pisa, 15 Ottobre 2011 -29
Gennaio 2012
"Quando ero bambino, mia madre mi
diceva: se diventerai soldato, sarai generale. Se diventi monaco, finirai papa!
Ho voluto essere pittore e sono diventato Picasso".
Potenza delle madri! Di quelle che
rafforzano il narcisismo onnipotente dei figli, che alimentano la sfida edipica
al padre (per inciso, il padre di Picasso era pittore, e Picasso adottò come
cognome quello della madre abbandonando
quello paterno Ruiz). E del resto anche la madre di Freud contribuì non poco
alla convinzione del piccolo Sigmund che lo aspettasse un destino speciale, e
ne forgiò la determinazione con cui il "conquistatore" si mosse in territori
della mente fino ad allora inesplorati. Altre considerazioni sulle
conseguenze della narcisizzazione
materna sui figli esulano da questa breve scheda.
Picasso a Pisa. I temi sono quelli
suoitipici, nell’incessante declinarsi di Eros e Thanatos: erotismo come fonte
di creatività, dolore e tragedia dell’essere umano sopraffatto dalla violenza e
dalla guerra, artista e modella, tori e minotauri, ritratti, qualche natura
morta.
Oltre quattrocento le opere in mostra:
non molti quadri, ma tanta e straordinaria grafica, incisioni, litografie,
acqueforti. Lo si vede raramente, questo Picasso: i vibranti segni calligrafici
rosso sangue, di orientale raffinatezza, che segnano le centoventicinque pagine
dei poemi di Reverdy; la famosa Minotauromachia, di forte intensità simbolica,
tragico e improbo confronto tra l’innocenza e la fragilità del bene, e la
bestialità mostruosa del male; i cento fogli della Suite Vollard, che a detta
di Picasso tracciano una sorta di autobiografia per immagini, sotto il segno
dell’identificazione con l’uomo-toro del mito, il Minotauro, emblema di cieca e
incontrollabile forza distruttiva, e al contempo vittima sacrificale.
A corredo della mostra, alcuni brevi
video: Picasso al lavoro – la sicurezza e la facilità del tratto, come se mano
andasse da sé! – e una altro schermo in cui motivi compositivi cubisti vengono
alternati a sequenze di film dei primi decenni del ‘900, a indicare la portata
dell’influenza della "visione" cubista sul cinema della avanguardie. Perché se
è vero che esistono tanti Picasso – quello blu, quello rosa, quello cubista,
surrealista, neoclassico … – sicuramente la rivoluzione "nello sguardo" operata
da Picasso è il gesto con cui smonta i piani spaziali e percettivi, li
intreccia e li sovrappone, alla ricerca di un linguaggio pittorico che
restituisca un’idea di rappresentazione e percezione che scardina la visione
immobilizzata in un unico punto di vista, e cerca di rendere la complessità
dell’esperienza di visione, contenendo in un’unica immagine il continuo
modificarsi della percezione. Negli "oggetti" va cercando la loro essenza di
"forme", risultanti da vettori, forze, tensioni dinamiche.
A chi lo accusava che i suoi quadri
fossero brutti, Picasso rispondeva che il brutto è l’inquietante
dell’esperienza. È forse superfluo ricordare che in quella stessa temperie
culturale d’inizio secolo, la psicoanalisi dal canto suo cercava di mettere il
luce l’unheimlich dell’esperienza
mentale.
Minotauro accarezza una donna addormentata. Acquaforte, 1933.
«"Un minotauro non può essere amato
per se stesso. O almeno non pensa di esserlo. Non gli sembra logico, ecco.
Forse per questo si abbandona alle orge". Passò ad un’altra incisione, un
minotauro in atto di sorvegliare una donna dormiente. "Sta studiandola,
cercando di leggere i suoi pensieri, per scoprire se lei lo ama perché è un
mostro". Mi guardò: "Le donne sono abbastanza bizzarre per farlo". Guardò di
nuovo l’incisione: "Difficile dire se intenda sorvegliarla o ucciderla"»
F. Gilot, C, Lake, Vita con Picasso, Milano 1965.
Serie: due donne nude. Pennello, penna e raschietto su carta
filigranata. 1946.
A commento di questa serie, eseguita
dal 5 al 25 Gennaio del 1946, che parte da una rappresentazione
realistico-mimetica e approda ad una visione "cubista", mi piace riportare una
famosa affermazione di Picasso. "sarebbe interessante, in realtà, riuscire a
fissare fotograficamente non le diverse tappe della genesi di un’opera, ma le
sue metamorfosi. Forse sarebbe possibile rendersi conto così del cammino che un
cervello segue nel tentativo dio concretizzare il suo sogno. Ma ciò che è
davvero curioso è che ci si renderebbe conto … che, nonostante le apparenze, la
visione iniziale non cambia, resta sempre la medesima".
Maria Grazia Vassallo Torrigiani
Georgia O’ Keeffe, 4 ottobre 2011 – 22 gennaio
2012
Fondazione Roma Museo- Palazzo Cipolla
Sono presenti 60
opere: dal Georgia O’Keeffe
Museum di
Santa Fe in New Messico e da importanti prestiti ,della National Gallery of art
di Washington e di altre importanti
gallerie pubbliche e private .
Le opere
riguardano l’intero arco della vita artistica di Georgia O’Keeffe.
Dopo un
periodo giovanile, anni 10-20, periodo dei suoi lavori astratti, in cui l’artista è sconosciuta,inizia la collaborazione artistica con Alfred
Stiglitz ed il mondo della fotografia
Stiglitz,
figura di spicco del mondo dell’arte americana, le fa una serie di foto, che
favoriranno un’immagine dell’artista come
sessualmente emancipata.
Quando egli
curerà la prima mostra di O’Keeffe,
forse suggestionate dalla lettura che dell’artista dà Stiglitz, le
recensioni sui dipinti furono positive, ma portatrici di una lettura al
femminile e sessuale.
Nel primo Novecento per una donna era
veramente difficile raggiungere delle posizioni di spicco, in qualsiasi campo e
La O’Keeffe ha dovuto lottare molto per affermarsi come artista.
O’Keeffe mal
sopporta tali interpretazioni che sente restrittive, vuole essere artista
completa e non imprigionata nel ruolo di
donna artista. Spenderà il resto della
sua vita per affrancarsi da questa lettura limitativa, riduttiva di sé e della
sua opera, alla ricerca di un riconoscimento di sé come personalità
artistica totale.
Attribuendo ai
soggetti astratti la causa di tali interpretazioni, inizia una serie di dipinti di tipo figurativo,
anche se non abbandonando l’astrattismo.
Questo però
non cambia sostanzialmente la lettura sulle sue opere: i suoi famosi fiori, i frutti della O’ Keeffe
hanno una caratteristica troppo carnosa e viva, che favorisce ancora la lettura
restrittiva della critica in termini sessuali e femminili.
Niente di meno
vero. La realizzazione di sé come artista totale e la sua opera tutta può
essere letta come una ricerca identitaria continua, per affrancarsi da una
immagine riduttiva di sé. La strada
della ricerca e del riconoscimento della propria identità artistica sarà ancora
molto lunga, lunga come una vita.
E’ insieme una
ricerca sull’essenza delle cose. Il suo lavoro creativo si orienterà sempre più verso una immagine essenziale, di
vitalità nativa , come quella degli spazi desertici ed incontaminati del New
Mexico prima e poi del paesaggio intorno al suo
Gost Ranch , che dipingerà in
seguito e che mal si accordano con l’immagine di donna fragile e femminile, che
ne aveva offerto la critica.
Incominciano
ad apparire nel deserto le caratteristiche ossa di animali, le quali, più che
un richiamo alla morte, incarnano l’immagine di una bellezza essenziale, scarna, eterna, non
deperibile, di persistenza e di inaccessibilità . E’ la forza ed energia
creativa del deserto, del perpetuarsi della vita allo stato nascente.
Come un’icona
misteriosa ed emblematica.
È questa forse
l’immagine di sé che andrà cercando per tutta la vita l’immagine di una donna
identificata con la propria creatività, vitalità sempre nascente, energia naturale perfettamente identificata
con i paesaggi naturali del deserto.
Silvia Vessella
Trough
My Window
Fotografie di Ahae. 1 dicembre
2011 – 8 gennaio 2012. Museo Nazionale Alinari della Fotografia
Firenze
Leopoldine- Piazza Santa Maria
Novella 14° – Orario ogni giorno tranne il mercoledì 10 – 19.30
Ingresso 9 euro (Mostra e
Museo) -Tel. 055. 216310 –www.alinarifondazione.it
Corea del Sud. Un uomo sta alla
finestra del suo studio, nella sua casa. Per due anni fotografa quello che vede
fuori. Oltre un milione di scatti. La finestra è sempre aperta. Il fotografo è
anche ambientalista. Di alterare le condizioni microclimatiche con un
condizionatore o con una stufa neanche a parlarne. Freddo, umido, caldo,
zanzare: tutto passa attraverso la finestra. L’uomo fotografa. Le sue macchine
sono molto sofisticate, la sua impresa, la Ahae Press Inc., è molto efficiente,
ma le foto non subiscono alcuna manipolazione, è ammessa soltanto una leggera
pulizia prima della stampa (allineamento, rimozione di macchie, minima
correzione di contrasto e luminosità). La natura in Corea è molto bella. Dalla
finestra si vedono due specchi d’acqua, al limitare di un bosco di aceri. Un
grande pezzo di cielo. Le ore si succedono, si succedono i mesi e le stagioni.
Il paesaggio cambia, la luce cambia. Tutto cambia, tutto ritorna. Ahae aspetta,
è un uomo paziente. Lo immaginiamo immobile: solo la palpebra batte e il dito
preme. L’obiettivo ora si distanzia a comprendere l’intero panorama ora si
immerge tra i fili di pabbio e le increspature di impercettibili onde.
Sorprende creature silvane dai nomi poetici: caprioli d’acqua, anatre
mandarine, aironi, ballerine gialle, egrette, un Becco a Cono di Webb, una
Averla Testaditoro, un Bulbul Orecchie Castane…
Perché non sembra uno dei
tanti, spesso impeccabili e vagamente noiosi, servizi fotografici sulla natura?
Dovete vederle queste foto per
capire, ma ancora non capirete. Vi domanderete: la poesia è nell’occhio o nel
paesaggio? E’ nel soggetto o nell’artista? O forse in voi che oggi guardate uno
stagno come se fosse la prima volta che ne vedete uno?
L’arte è un miracolo. Questo
coreano, dal nome che nella sua lingua significa bambino e che nella nostra
suona come un saluto, come un respiro, forse ne ha compiuto uno.
Le sue foto hanno fatto il giro
del mondo: New York, Londra, Praga, di nuovo New York, nella storica stazione
Grand Central Terminal dove ogni giorno transitano circa duecentomila
viaggiatori. Forse qualcuno di loro, alzando lo sguardo sul capriolo d’acqua,
proverà la gioia di Adamo nel giorno della Creazione.
La mostra del Museo Alinari
comprende quaranta foto e un’ampia selezione di diapositive.
Quante cose si possono vedere
mantenendo fermo il punto di osservazione. Quante cose nella cornice di una
finestra. Quante cose succedono nella stanza di analisi, nella cornice del
setting. Per il resto, siamo agli antipodi: questo osservatore orientale non è
alla ricerca di un senso nascosto. Il senso è in quello che si vede: chiedete
alle foglie, chiedete alle nuvole, chiedete alla nebbia.
Stefania Nicasi
Gucci Gucci sento odor…
Inaugurato il 28 settembre
2011, il GucciMuseo è il più giovane museo cittadino: le code sono altrove . E’
il Museo, non è la Boutique: non dovete darvi un tono all’uscita se non avete
comperato niente perché era tutto troppo caro e vostro marito non è un
petroliere. La caffetteria è confortevole, con vista sulla storica piazza.
L’accoglienza è squisita: si respira un’atmosfera internazionale, potreste
allucinare New York invece siete a Firenze, la città dove i commessi seguono
corsi annuali per il maltrattamento clienti. Il Palazzo della Mercanzia, che
risale al 1300, è stato meravigliosamente ristrutturato. L’allestimento
scompare: quello che si vede sono gli oggetti. Valige, borse, scarpe, cinture,
vestiti, gioielli, foulard. Una bici, una Cadillac, uno slittino, una sella.
Sono tutti appartenuti a qualcuno – vorrei sapere chi ha acquistato lo slittino
– il che vi fa sentire come in un museo archeologico, quando pensate: tremila
anni fa una donna si adornava con questo monile, un’altra pestava il grano in
questo mortaio, un uomo uccideva con questa lancia. Solo che qui gli Etruschi
siamo noi: fa uno strano effetto passeggiare nel museo di noi stessi, come
eravamo l’altro ieri. Ci sono le borsette con il manico di bamboo, quelle con
la staffa sulla striscia rossa e verde, la mitica Jackie, le cinture con le GG
intrecciate. Ci sono gli oggetti: spogliati del nostro desiderio. Se li
vedessimo nel negozio di Via Tornabuoni vorremmo ancora acquistarli, mentre qui
ci limitiamo a guardarli: alcuni sono senza protezione, basterebbe allungare la
mano per toccarli, ma nessuno lo fa.
Viene voglia di sapere qualcosa
di Guccio Gucci, forse per riprendere contatto con l’umanità. Nella carteria si
può consultare "The making of" di Frida Giannini (Edizioni Rizzoli, 384 pagine,
80 euro) che celebra i novant’anni della Casa. Nato nel 1881, Guccio va a
Londra giovanissimo dopo il fallimento della paterna fabbrica di cappelli di
paglia. Si impiega all’Hotel Savoy, forse addirittura come ragazzo
dell’ascensore – ma quello vero lo avrebbe preso in seguito – rimane affascinato
dall’elegante clientela che viaggia con stile. Impara a riconoscere una buona
valigia. Tornato a Firenze, apre un piccolo laboratorio di pelletteria e mette
su famiglia. Allo scoppio della Prima Guerra, nonostante la numerosa prole,
deve arruolarsi. Sarà impiegato come autista. Al ritorno, prosegue la sua
attività fra alterne vicende, salvato dal fallimento dal marito della
primogenita Grimalda. Negli anni Cinquanta inizia la grande ascesa. Mentre
l’impresa cresce dando lavoro a centinaia di persone, mentre i negozi si
moltiplicano, la famiglia Gucci si dilania in conflitti, fino alla tragica
conclusione della storia, fino al colpo di pistola che nel marzo 1995 segna la definitiva uscita
dalla casa di moda degli eredi di Guccio Gucci. Ma non tramonta il nome, non il marchio. Non scompaiono le GG
che ossessivamente marchiano la pelle "Guccissima". Il lusso ha i suoi
tatuaggi.
Per un colpo di genio, nello
spazio previsto per l’arte contemporanea, il Museo ospita un’istallazione del
grande artista americano Bill Viola. Due video del 2005 collegati al lavoro di
Viola attorno al "Tristano e Isotta" di Wagner: "Fire Woman" e "Tristan’s
Ascension". Sono sorprendenti: meglio
non anticipare nulla, se non che riguardano la morte del corpo e la
resurrezione dell’anima. Durano circa dieci minuti ciascuno.
Sostiene Alva Noë che la
coscienza va cercata negli oggetti. A trent’anni, la mia stava tutta in una
Jakie di coccodrillo che non ho mai posseduto.
Stefania Nicasi
Natale a
New York! E potrebbe essere il titolo di un ‘film-panettone’ dei fratelli
Vanzina!!
Qualche
nota su mostre d’arte a NYC durante il periodo Natalizio
E’ quasi imbarazzante
segnalare gli eventi artistici che si succedono in ‘the City’, tanto sono le
proposte e le differenze tra loro. Ma soprattutto diventa difficile perché si
rischia di togliere quella piacevole sorpresa della scoperta personale che
caratterizza il clima emotivo di ogni exhibitions-hunter che c’è in noi!
Ci limiteremo quindi ad
invitare gli interessati ad annusare le tante proposte presenti nella zona di
Chelsea in cui uno dei nostri luoghi preferiti è la Tagore Gallery (galleria in
cui si tenne l’interessante mostra di Jane McAdam Freud, figlia di Lucian,
durante lo scorso ‘National Winter Meeting’ dell’American Psychoanalytic Association).
Spostandoci, invece, verso
i più consolidati spazi museali, non si può non citare la ‘provocatoria’
retrospettiva di Cattelan "All", che è come sospesa all’interno del Guggenheim
Museum.
Forma espositiva che evade
le consuetudini e rimane come ‘impiccata’ davanti agli occhi degli spettatori
che salgono e scendono le ‘spire’ dell’edificio. Si viene in tal modo a formare
una ‘gigante’ apparizione composta da opere ‘riciclate’, che ha il potere,
nella sua complessità, di riproporre lo stesso effetto spiazzante proprio dei
singoli componenti.
Chissà cosa potrebbe dirne
Frank Wright, padre dello spazio-contenitore della mostra? Lui, così
scrupoloso, vedere il suo ‘oggetto interno’ così stravolto! In una fantasia
psicoanalitica, potremmo dire, osservare
l’espressione di un caotico
inconscio in cui la concretezza degli oggetti si accompagna ad una loro
disubbidienza rispetto alle proporzioni, al luogo ed al tempo. E’ questo che
accade nell’onirico riassunto di memorie del visionario mondo del ‘falsario
artista’.
Si può definire arte? E
cosa accadrà poi di Cattelan e del suo proclamato ritiro? Se ci sta prendendo
in giro lo sta facendo bene … piaccia o non
piaccia, comunque, assolutamente
da vedere.
"Maurizio Cattelan: All" ,
dal 4 novembre al 22 gennaio 2012, Solomon R. Guggenheim Museum, 1071, Fifth
Av. NY
Orari: domenica-mercoledi
10-17,45; venerdi 10-17,45, sabato 10-19,45
Vogliamo ora soffermare
l’attenzione su una esibizione presente all’interno del Whitney Museum
dell’artista statunitense Sherrie Levine.
Sherrie Levine: "Mayhem".
Il titolo che l’artista ha
voluto per la sua esposizione è estremamente suggestivo e provocatorio al tempo
stesso : "Mayhem" . Parola che ci porta ad un ‘caos’ disarmante ad un
‘pandemonio’ confusivo che ci lascia inermi.
Levine fa parte di quella
corrente artistica conosciuta come ‘Appropriation Art’, che, come dice il nome,
si appropria di famose opere artistiche per poi riproporle in una diversa
unicità. Una sorta di minaccia identitaria alla originalità, all’unicità
dell’opera d’arte in quanto prodotto di un determinato artista. Si viene ad
operare un intervento concettuale, che attraverso micro fratture della
componente fenomenologica, ci porta sensazioni di scollamento ad un livello più
profondo che culminano in uno spiazzamento ‘perturbante’. Non è questo il luogo
ove soffermarsi sul concetto di " Unheimlich"
usato da Freud per definire ‘quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci
è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare’. Qui avviene qualcosa di più,
qualcosa che va oltre e che si declina in un tentativo di riappropriazione, per
poi scivolare in un apparente interminabile iato espressivo mai appagato. Ci
lascia in uno stato irritativo, come quello di voler rimettere le cose al ‘loro
posto’, ma con la sensazione di non sapere più quale questo sia, una volta
affrancato dall’origine.
Noi, nel visitare questa
esposizione, siamo stati molto fortunati perchè abbiamo avuto il nostro
Virgilio nella competente e simpatica guida della collega Janice Lieberman.
Janice, infatti ci ha fatto meglio apprezzare il valore di questa esposizione
che altrimenti avrebbe rischiato di rimanere un po’ misconosciuto, avendo
l’artista preferito non apporre alcun materiale esplicativo relativo alle opere
ed alla sua elaborazione.
Alleghiamo ora un breve
scritto della dottoressa Lieberma (1) relativo alla mostra del Whitney.
Sherrie
Levine at the Whitney:
This show is an installation
directed by the artist and shows her work over the past 30 years. She became
famous in the ’70’s when she was one of a group of artists (e.g. Richard
Prince, Cindy Sherman, Robert Longo) who challenged traditional definitions of
art and the task of the artist. She followed in the tradition of Marcel
Duchamp, who believed that art was not so much what the artist made, but what
he chose to display as art. The context of the object (e.g. museum or gallery
vs. a store) is relevant.
Levine is best known for her
"appropriation" and re-photography of well-known artworks,e.g.
"After Walker Evans" containing 21 photos of the rural South during
the Depression; digital reworking of photographs by Alfred Stieglitz and
pf paintings of others; sculpture based on Duchamp’s urinal; Man Ray’s
painting "La Fortune" and Brancusi’s "New-born".
Important themes have to do with
feminism, relations between the sexes, and death.
At the Whitney this month is a
splendid show of David Smithy’s sculpture as well as "Real/Surreal",
very popular.
Whitney
Museum, 945 Madison Av. NY
Orari:
lunedì e martedì chiuso; mercoledì, giovedì, sabato e domenica dalle 11 alle
18; venerdì dalle 13 alle 21.
Luca Caldironi
Janice Lieberman, Ph.D. is a psychoanalyst
in private practice in New York. She often writes about psychoanalysis and art.
She has lectured at the Whitney Museum as a Docent for 22 years. She is at
times available for private tours to museums and galleries in New York