Cara mamma,
perdonatemi per tutto quello che ho fatto.
Mando i miei baci a te e al papà e a tutti i fratelli e sorelle. Saluta Dolfo, suo papà e sua mamma, la piccola Silvia; date loro tanti baci, anche la Rosanna, tutti gli zii, i cugini e tutti gli amici di Mocagna.
Ho quattro medaglie: una alla Silvia, una alla Rosanna, una a te mamma e una all’Albertina.
Cara mamma ti mando i miei saluti a te e al papà, a Mario, Emanuele, Rosa, Albertina, Dolfo e al fidanzato di Rosa.
Cara mamma non pensate a me perché sono stato disubbidiente di quello che mi hai detto.
Tu mamma eri così buona e così perdonami.
Saluti a tutti, sorelle, fratelli, papà e tu mamma addio a te a tutti i fratelli.
Addio cara mamma, tu eri così buona.
Addio
Bruno Matli, di anni 18. Nato a Domodossola (Novara) nel 1925; partigiano nella “Banda Libertà”, partecipa all’insurrezione di Villadossola dell’8-11 novembre 1943. Arrestato l’8 dicembre 1943 con undici compagni, è condannato a morte dal Tribunale di guerra tedesco. Il 27 dicembre è trasferito nelle carceri di Novara; l’indomani scrive l’ultimo saluto alla mamma e quindi è fucilato al poligono di tiro insieme a Ernesto Conti, Guido Falcaro, Osvaldo Giovannone, Giuseppe Giudici, Erminio Marini, Paolo Steffanino e Guido Vivarelli.
Questa pagina è tratta dal volume “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza. 1943-1945” a cura di Mimmo Franzinelli. La pubblichiamo in occasione del 25 Aprile, giornata nella quale si celebra in Italia la Festa della Liberazione dal nazifascismo. Volevamo pubblicarla e basta, senza commento, perché ci sembra che la pagina – lettera, fotografia, nota storica – parli da sola. Ma poi Jones De Luca dice: “Dobbiamo scrivere qualcosa, siamo nel sito della SPI. Diciamo qualcosa”. Ha ragione, come sempre. Questa volta però è difficile. Cosa possiamo dire?
Guardo la foto di Bruno, le ombre attorno agli occhi, la scriminatura fra i capelli, il colletto della camicia. Cerco il “punctum”, come diceva Roland Barthes; ogni foto ha il suo. Ci sono, nel libro, molte lettere, quasi altrettante fotografie. Ogni lettera chiede attenzione, ogni foto lo sguardo. Perché proprio questa mi colpisca in modo particolare, perché il libro si apra qui, a pagina 175, perché non mi stanchi di rileggere le poche righe ordinate, gli elenchi di nomi e di baci io non lo so.
“La dimensione affettiva pervade ogni lettera; l’insistenza con cui i morituri elencano zii, cugini, nipoti, sottintende la famiglia estesa di matrice contadina e attesta la solidità dei rapporti parentali. Al richiamo dei sentimenti corrisponde – tranne poche eccezioni – lo scarso rilievo dell’ideologia” osserva il Mimmo Franzinelli. Nella prospettiva del plotone di esecuzione, il senso della vita si riassume e si contrae – non rimane altro che il soggetto e il suo attributo, dirà Fucik. La dimensione affettiva “si impone come la più consona all’esistenza”. D’altra parte, la carenza di riferimenti ideologici sostiene la sensazione che “molti ragazzi siano entrati nel movimento partigiano senza grande consapevolezza, per un moto di ribellione morale, per spirito d’avventura o perché sospinti da circostanze esterne”: una piena consapevolezza, una matura coscienza politica per molti sono venute solo in seguito (Franzinelli, 7). Sono osservazioni che non diminuiscono di un grammo il valore del gesto, ma da un lato ricordano come trovarsi dalla parte giusta o da quella sbagliata della Storia possa essere questione di un soffio – il disegno che ai posteri sembra facile da indovinare può invece essere stato al tempo intricato e confuso – dall’altro lato rimandano alla psicologia dell’eroe che ha in filigrana la psicologia dell’adolescente. Impulsività, ribellione, sfida, tendenza a mettersi a rischio e a giocare con la morte, fiducia in un illimitato credito nella banca della vita, emulazione dei coetanei, forza del gruppo, amore per l’assoluto, fame di verità e di avventura, capacità, come avrebbe detto Nietzsche, di “mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose del passato”.
Condannati a morte, questi giovani eroi diventano uomini subito. E si fanno più umani: più teneri, più sentimentali. Non siedono più sulla soglia dell’attimo, ma abitano nel tempo e dunque soffrono. Chiedono perdono alla madre perché non hanno saputo conservare la vita, dono della bontà materna.
Molte lettere sono costruite sul registro del ritorno a casa, sembrano sottese da una fantasia di riunione alla madre: dicono “ciao”, “ciau”. Altre sono costruite sul registro della partenza, dicono “addio”. Lettere del ciao e lettere dell’addio.
Quella di Bruno Matli è una lettera dell’addio. Una lettera di congedo nella quale si fa il lutto per ogni persona che si nomina, si saluta, si bacia. Ogni bacio segna un distacco. Bruno procede metodico, con compostezza. Comincia con il salutare i genitori, i fratelli, le sorelle. Poi si allarga a salutare gli zii, i cugini, la piccola Silvia (e così tutti i piccoli), tutti gli amici del paese di Mocagna. Poi torna alla famiglia: alle sorelle, ai fratelli, al papà, alla mamma circondata dai fratelli, come tanti Bruno che restano con lei. In ultimo rimane solo la mamma, è difficilissimo staccarsi da lei. “Addio cara mamma, tu eri così buona”. Dice “tu eri”: la mamma non c’è più. Forse è questo che sottilmente ci fa piangere. E’questo straziante, impercettibile cambio di tempo. Infine, non c’è più nessuno: “Addio”. Bruno è solo di fronte alla sua morte. Pettinato come un bambino – la scriminatura, ecco il punctum nella foto, il segno di una mano materna: è così che lo pettinava la madre prima di mandarlo a scuola e alla messa – muore come un uomo.
Stefania Nicasi, aprile 2011
Riferimenti bibliografici
Barthes R. (2003). “La camera chiara. Nota sulla fotografia”. Torino, Einaudi.
Franzinelli M. (2005). “Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza. 1943-1945”. Milano, Mondadori.
Fucik J. (1949). “Scritto sotto la forca”. Milano, Universale Economica.
Nietzsche F. (2009). “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”. Milano, Adelphi.